Marcello Scuffi: Tra passato e presente. Testo critico a cura di Paolo Rizzi.
Da "La memoria delie cose".
Oggi l'arte è come una navicella sbandata: non sa dove dirigersi, il naufragio è sempre in agguato. Sembra che la stagione delle avanguardie storiche sia finita: ma che cosa la sostituisce? Non certo tutti i bizzarri revivalismi, più o meno dadaistici, di cui tanta arte ambientalista e comportamentale si agghinda. Credo che una via d'uscita a questo nomadismo frenetico e convulso ci possa essere. Essa consiste innanzitutto in un ritorno alla manualità specifica del fare (nel caso della pittura, al "saper dipingere"); poi in una simbiosi sempre più stretta con la natura, cioè con le leggi organiche che ci governano; infine in una rinnovata presa di coscienza della storia come patrimonio del nostro passato. Queste tre prerogative Marcello Scuffi le ha tutte: e non occorre insistervi. Si vede la qualità della pittura; si percepisce il suo aggrapparsi alla natura; si intuisce il senso della storia che sottende ogni immagine. Non solo: ma in essa si infiltra anche qualcosa che potremmo avvicinare alte strutture organiche del nostro esistere, che sono fatte di gangli nervosi, di filamenti di memorie. Come possiamo prescindere dalla memoria, cioè dal tessuto nervoso che apre continuamente relazioni e prospettive a ciò che siamo? Forse l'identikit dell'artista di domani si avvicina proprio a Scuffi. Ordine strutturale ma anche tensione verso l'esterno, cioè movimento delle forme; capacità di dare un "significato" a ogni cosa vista e ricordata; consapevolezza di una storia - personale e collettiva - che è alle spalle; fiducia nei comunicare, quindi padronanza dei linguaggio espressivo. Ma anche estrema libertà: estrinsecazione del proprio io, al di fuori di mode e manierismi. Alla fine un quadro, come ogni creazione autentica dell'uomo, è si lo specchio di chi l'ha eseguito; ma può diventare anche uno strumento per comprendere, attraverso l'artista e la sua arte, come noi stessi siamo fatti; o come vorremmo essere. Forse sta qui il segreto di Scuffi; in questo riversarsi della sua pittura in chi la vede e la assorbe. Un talismano? No. Piuttosto la voce di un uomo che agli altri uomini vuoi parlare.
Appunti per un esperimento
Giovanni Frangi - Appunti per un esperimento
Giovanni Frangi: Appunti per un esperimento.
Un giorno con una luce speciale sono stato a camminare per i sentieri lungo il fiume vicino a Legnago e mentre ero lì a far niente mi sono ricordato di un film che avevo visto due o tre anni prima al Castello di Rivoli, in una retrospettiva di Gilbert e George. Alcuni monitor erano appoggiati sul pavimento e in uno di questi era proiettato un film in cui i due artisti inglesi guardavano il fiume. Era un film in bianco e nero e bellissimo. Stavo facendo la stessa cosa. Guardavo l'Adige che scorreva. Non avevo mai pensato di usare una videocamera, ma come si faceva a rendere quell’idea di movimento? Cosi ho provato a camminare filmando il fiume e cercando di andare al ritmo dell’acqua, ma poi è stato Giovanni Agosti a suggerirmi l’idea di fare un film utilizzando i dipinti stessi. Si diceva del cortocircuito che poteva scattare tra un quadro proiettato e un quadro illuminato e capire la differenza che ci sarebbe stata tra i due.
Ritornava come anni fa a Biumo un problema di percezione. Gli spazi di Giorgio Ferrarin mi hanno suggerito di percorrere una strada differente. Niente confronto tra opera e proiezione, ma trasformazione di una stanza in un cinema con quattro schermi che in simultanea, ma con una tempistica diversa, proiettassero lo stesso film con tanto di sedie rosse per gli spettatori. Il confronto tra proiezione e realtà lo lasciamo per il futuro. E quando la mamma di Giorgio è scesa nel basement della galleria e mi ha detto: “Sembra un viaggio” ho pensato che eravamo probabilmente sulla buona strada.
È stato anche un lavoro a quattro mani. Conosco Julia Krahn da quasi dieci anni. Avevo bisogno del suo talento, è una fotografa con un'energia molto lucida, precisa e ha capito al volo quello che avevo in mente. Ci siamo messi col cavalletto sopraelevato come un binario per creare quell’inganno per cui alla fine Marta Cereda ha scritto che la sensazione è quella di quando sei su un treno e non sai se sia il treno a fianco che parte o se stia partendo il tuo, e lei che sui treni viaggia spesso ha detto anche che di solito è sempre l’altro treno a partire.
Ho sempre cercato di stare dentro un confine preciso e misono ritagliato un giardino dove cerco di muovermi con destrezza. Traccio una linea col gesso sul pavimento per darmi un limite. I limiti aiutano chiunque si basi sulla propria immaginazione per creare una rappresentazione, me lo ha detto Cindy Sherman. Spesso lavoro in serie: se affronto un tema non riesco a separarmi facilmente, mi ci affeziono, me lo tengo stretto e cerco così di capire meglio le cose. Ho bisogno di indagare, di impadronirmi di una situazione fino a che non arrivo all’esaurimento. Per questo mi affeziono ai luoghi. Dipingo solo luoghi che ho visto ed essendo scaramantico se una fotografia non è fatta da me non va bene, non funziona. Ma ho trovato un escamotage: fotografo lo schermo del computer.
Per River era necessaria una base musicale, dei suoni per entrare dentro la storia, come già un'altra volta all’oratorio di San Lupo dove avevo registrato i rumori dell’acqua e dei cani e mi ero accorto che davano un valore aggiunto destabilizzante. La musica di Tori Takemitsu è perfetta, con le sue dissonanze impreviste, i suoi silenzi. Anche perché ha detto una volta che avrebbe voluto nuotare nell’oceano che non ha né oriente né occidente, come me. In realtà mi sono sempre divertito a fare cose che non conosco bene anche per imparare. Lì sta il bello. Io lavoro su binari paralleli e a volte torno sui miei passi. In questa mostra ci sono fianco a fianco alcuni quadri ispirati a La Verbena, delle fotografie dipinte con i pastelli grassi e, nell’altra stanza, i film. È sempre vero che nella prima fase di scoperta si hanno i risultati più efficaci.
Non sono stato sorpreso che Daniel Serota per la mostra di Damien Hirst alla Tate abbia preteso che fosse esposta la prima opera di ogni serie, ad esempio per gli spot paintings il primo, e cosi via. Ha ragione perché la prima contiene un germe che poi si modifica, si arricchisce, forse, poi inevitabilmente si perde. Così vale anche per me, esattamente lo stesso e forse un giorno farò una mostra in cui oltre a raccogliere le opere migliori vorrò presentare quelle che poi sono state l’inizio di ogni serie.
Moderna Magna Graecia
Testo di critico a cura di Francesco Tedeschi
Moderna Magna Graecia. Persistenza di un Genius Loci.
Il rapporto con la terra d’origine spesso non ha un ruolo fondante per il linguaggio artistico o per determinare l’atteggiamento nei confronti delle scelte estetiche della contemporaneità, eppure qualche traccia delle radici culturali del luogo di nascita forse accompagna sempre l’artista, il più apolide dei creatori, in quanto il linguaggio delle forme non appartiene strettamente a quello di matrici linguistiche determinate dall’uso della forma primaria di comunicazione, la parola. Ciò può valere per tanti autori che definiscono i percorsi di una contemporaneità che si è nutrita implicitamente del passato, di un passato che si conosce attraverso le pietre, il paesaggio, lo spirito dei luoghi, più che per una tradizione nella quale si trovano immersi, intrecciandosi nel mondo le più diverse potenzialità di relazione con le culture del presente. Da qualche tempo, per varie ragioni, la numerosità, ma soprattutto la qualità degli artisti siciliani attivi nell’ambito della modernità e del suo rinnovarsi, è stata sempre più riconosciuta, e alcune rassegne di un certo livello hanno inteso portare attenzione alla presenza dell’arte siciliana non solo in una rilettura complessiva del Novecento, ma come componente attiva oggi, secondo accenti che le sono peculiari1. La scelta di elaborare un percorso che comprende alcuni degli artisti più rappresentativi della contemporaneità, raccolti attorno alle comuni origini siciliane - esponenti di posizioni diverse della ricerca artistica del secondo Novecento, non intende però qualificare in modo specifico una dimensione di “sicilianità”, ma muove dal presupposto che, per varie ragioni, di natura individuale più che per corrispondenze derivate da legami specifici fra di loro, numerosi sono i protagonisti di diversi aspetti tra i più avanzati dell’arte italiana che hanno in comune origini siciliane, tanto da far supporre che si possa riconoscere un carattere di eccellenza a qualche fattore che travalica la dimensione esistenziale. Una specie di Genius Loci attivo sotto traccia. Come dice Giorgio Bonomi nel suo testo, la “diaspora” di chi lascia la propria terra d’origine e trova altrove la forza di esprimere le potenzialità individuali, è un fenomeno che non può essere ribaltato per ritrovare meccanicisticamente la presenza di elementi originari. Non si può nemmeno, però, prescindere del tutto da questi, pur senza voler individuare dei caratteri comuni fra autori con poetiche e direzioni di lavoro molto differenti fra di loro, come è plurale l’esperienza della modernità. La scelta dei nove autori che rappresentano varie fasi di un dialogo fra le radici personali di ciascuno, connotate da un rapporto anche lontano con la propria terra, recuperato a volte per vie imprevedibili, e le posizioni individualmente assunte nel corso del tempo, vuole essere in primo luogo esemplificativo di alcuni percorsi che connotano l’arte del secondo Novecento. Un elemento di raccordo fra il distacco e l’appartenenza può essere individuato nella difficile relazione fra l’esperienza dell’origine e la proiezione di nuovi modelli e proposte. Un concetto che può essere utile a questo proposito è proprio quello del Genius Loci, inteso non come dimensione unitaria e stabile, forma tradizionale e immobile, ma come elaborazione culturale e dialettica dei caratteri di una “localizzazione” destinata a contenere non solo i fattori stabili di una memoria radicata in un tempo e in un luogo definiti, ma l’insieme dei tratti che compongono la qualità del “luogo” nella sua entità e identità dinamica. Come dice Christian Norberg-Schulz nel suo acuto saggio sul tema, il Genius Loci di una città, per esempio, “per poter ‘mettere radici’, dovrebbe contenere lo spirito locale e radunare anche contenuti di interesse generale, trasferiti per mezzo della simbolizzazione, e che hanno le loro radici altrove…”2. Le riflessioni di Norberg-Schulz, svolte nell’ambito di una sapiente e approfondita disamina del rapporto fra natura e cultura, fra la dimensione del paesaggio e quella della sua trasformazione per atto della progettazione umana, ma anche della sua capacità di interpretazione del senso del luogo, mettono in luce le necessità di una lettura che unisca attenzioni per il carattere geografico e quello storico, convergendo natural-mente verso la possibile definizione di una “geo-storia” dell’arte3. In questa prospettiva i riferimenti alla natura originaria dei luoghi e del paesaggio non sono nutriti dal malinconico rimpianto di una lontana concezione di perfezione, ma sono necessariamente complemento di un respiro che da quelli si allarga a comprendere la dimensione di un “ambiente” in cui l’uomo (di ogni tempo) trova una sua connotazione temporale e spaziale: “il paesaggio naturale diventa perciò paesaggio culturale: l’ambiente in cui l’uomo ha trovato il suo posto significativo entro la totalità…”4. Tale concezione dinamica e dialettica del Genius Loci può benissimo corrispondere a quanto accaduto storicamente in un territorio come quello della Sicilia, per la sua natura e per la sua posizione storico-geografica, ma potremmo, in senso traslato, considerarlo valido per ciascuno degli autori qui considerati. Ogni artista si afferma infatti per le proprie qualità individuali, andando a costituire in sè un’isola in cui si intrecciano le radici con le componenti composite dell’altrove. L’attenzione non va quindi indirizzata a riconoscere i fattori di una esperienza ancestrale comune, ma, nell’apprezzare e riconoscere il valore delle scelte specifiche, l’accento posto sul linguaggio e sul confronto con i linguaggi della modernità non elimina rapporti che nel corso del tempo ognuno di questi artisti è andato recuperando o nuovamente intrecciando, anche solo per ragioni esteriori, con una terra che ha avuto e ha un ruolo particolare nella produzione artistica contemporanea, quand’anche la loro stessa vicenda di formazione e di sviluppo sia avvenuta altrove. Presentando lavori di individualità spiccate e differenti, che si sono diversamente incontrate nel corso del tempo, ma che non si possono riconoscere all’interno di una storia unitaria, questa occasione espositiva non ha pretese di ricostruire una vicenda storico-artistica che può essere solo accennata, per frammenti, evidenziandosi piuttosto una possibile spinta alla qualificazione di percorsi specifici, che ritrovano per vie e ragioni diverse rapporti con un luogo d’origine, ombelico dal quale ciascuno ha poi preso la propria strada e verso il quale ha ritrovato, nel corso del tempo, particolari ragioni di ritornare, almeno idealmente. Un crocevia per la definizione di una presenza di artisti siciliani decisiva per le vicende dell’arte italiana del Novecento è rappresentato indubbiamente dalla figura di Renato Guttuso, sia in direzione della sua diretta implicazione, intellettuale e fondativa, in un rinnovarsi della pittura in direzione etica, partecipata, per quanto legata a una matrice che si andrà sempre più confinando nell’ambito di una scelta ideologica in chiave figurativa, sia per le sollecitazioni in certo senso avverse che egli stesso finirà a suscitare, per la sua azione diretta a sostenere un realismo che appare limitare le possibilità di indagine sulle strade di una rinnovata internazionalità nell’immediato secondo dopoguerra. Dal punto di vista storiografico si è approfonditamente impegnato Enrico Crispolti, nel riconoscere il ruolo di una compagine siciliana nell’arte italiana degli anni Trenta in chiave antinovecentista, che vede necessariamente in Guttuso il primo interprete, anche e almeno dal punto di vista della definizione di posizioni critiche alternative rispetto a quella che nei primi anni Trenta appariva assestarsi come dominante, in un richiamo a una “sincerità” che si può intendere come espressione di una prima relazione con condizioni istintuali ed emotive originarie5. Il riconoscimento di una effervescenza, per non dire propriamente di una “avanguardia” siciliana nel contesto artistico dell’Italia tra le due guerre, può condurre a considerarla solo una declinazione localista di un coacervo di vie esplorative che animano in maniera tutt’altro che monolitica quella stagione, se non fosse tra i passaggi più fecondi per gli sviluppi dell’arte dell’immediato secondo dopoguerra. La presenza del gruppo siciliano che vede in Renato Guttuso e in Renato Franchina i suoi maggiori esponenti ebbe allora la dignità di mostre in alcune delle principali gallerie italiane, dalla milanese Galleria del Milione (1932 e 1934), alle romane galleria Bragaglia fuori Commercio (1935) e Galleria della Cometa. Complessivamente, veniva rimarcata ancora alla fine del 1937 quasi come una curiosità la loro appartenenza a un clima culturale quale quello siciliano, che nell’ambito artistico veniva considerato periferico, rispetto a quanto poteva accadere in campo letterario, se ancora nel catalogo della mostra tenuta nella galleria della Cometa del 1937 si vedevano in Franchina, Guttuso e Lia Pasqualino Noto artisti “all’inizio di un viaggio”, di cui si auspicava l’evoluzione “in una terra felice laddove il nostro passaporto oggi li avvia…”6. Di lì a qualche mese, del resto, Guttuso veniva salutato quale autore dotato di una spiccata individualità, nella prima sua mostra personale, tenuta nella stessa galleria della Cometa (marzo-aprile 1938). Sempre nella Galleria della Cometa qualche mese dopo si tiene una mostra di disegni di Vincenzo Gemito che ha in copertina il curioso disegno “geografico” eseguito nel 1908, appartenente alla collezione Minozzi, che vede la coincidenza fra la figura femminile di una matriarcale donna del popolo e una carta del territorio siciliano. In questa felice e inusuale espressione di una modernità linguistica insospettabile in un autore come Gemito si può leggere la rivendicazione di una dignità dell’arte meridionale che vede nella Sicilia (o nella “sicilianità”) l’essenza di quella possibile “arte mediterranea” che Savinio, nel presentare quei disegni, affermava come qualità precipua di Gemito, nel suo essere punta avanzata di un Ottocento italiano autonomo nei confronti delle patinature francesi. Con i piedi bagnati nel Mediterraneo, l’arte italiana del secondo Novecento trova in una nuova pattuglia di artisti di origine siciliana alcuni degli interpreti più originali per avviare una nuova avventura di modernità e di modernizzazione, oltre lo scoglio della contrapposizione fra realisti e astrattisti, che pure da questa trae le sue nuove ragioni. Insieme a Dorazio, Perilli, Guerrini e Turcato, un nutrito gruppo di “siciliani” che fa capo allo studio di Renato Guttuso, e di cui fanno parte Pietro Consagra, ospite dello studio di Guttuso dal 1946, Concetto Maugeri, Carla Accardi, Ugo Attardi e Antonio Sanfilippo, pubblica nel 1947 “Forma 1”, il giornale con il quale essi si presentano come “marxisti e formalisti”, cercando di unire la ricerca del nuovo con una fede politica, secondo una visione che genererà i noti problemi di accettazione e di comprensione in un clima pronto ad accendersi nelle polemiche e nelle contrapposizioni di una fase di rapido movimento. Nel momento di elaborazione delle idee di quel manifesto, il gruppo vive però la scissione fra diverse prospettive, che non erano solo quelle del realismo e dell’astrazione. Lo si può cogliere, a distanza di anni, nelle memorie di Pietro Consagra, che ricorda come il viaggio a Parigi compiuto alla fine del 1946 con Maugeri, Turcato, Accardi, Attardi e Sanfilippo sia stato motivato non tanto da un atto di adesione a scelte estetiche specifiche, quanto da una volontà di apertura a diverse temperature: “Tornammo a Roma gonfi di gioia. Eravamo la generazione aperta all’Europa. I problemi di Guttuso non erano più nostri… (…) La nostra visita a Parigi doveva dare a Guttuso un grande turbamento, una delusione, che la sua passionalità e affezione non sopportavano. Avremmo voluto essergli amici lo stesso e si fece di tutto per non fargli pesare quello che ormai succedeva fuori da qualsiasi intenzionalità. Non era più il nostro polo di attrazione. Gli doveva capitare…”7. Non è in senso meccanicistico che il distacco da Guttuso si può considerare anche un distacco da quella “sicilianità” che accomunava le origini di autori destinati a pesare individualmente, più che come nucleo omogeneo all’interno di un gruppo caratterizzato da due componenti di formazione diversa, ma che si erano pienamente integrate, fra 1947 e 1948, in un esperimento collettivo di superamento del neocubismo in direzione astratta. Di certo l’aspirazione a una internazionalità che non fosse di secondo grado, come adesione a matrici nate altrove, ma da intendersi come via di costruzione di una specificità da spendersi nel confronto con una diversa “tradizione del nuovo”, di più ampio respiro, pare potersi considerare come presa di coscienza di un’altra prospettiva, proiettata all’infuori e nel futuro, più che immersa nelle proprie radici, e questo vale sia per i “siciliani”, sia per i “romani”, Dorazio in testa. Se questo può essere vero per quel particolare contingente storico, può essere anche considerato il motore di una aspirazione alla contemporaneità che pare volgere le spalle a tutto ciò che sa di origine, di immobilità, di passato, almeno nelle impressioni e nei giudizi immediati. Emergono allora altre direzioni di ricerca, in grado di illuminare le peculiarità delle poetiche dei singoli: la scoperta della forza autonoma del segno, che diventa forma, grafia, arabesco; o della “frontalità”, come carattere qualificante una diversa modalità di concepire la scultura, forse da subito da considerarsi in senso “ambientale” o “ambientato”. Accenni che ci riportano agli assunti sviluppati nel corso del tempo dai tre artisti qui considerati che a quel momento hanno direttamente preso parte, vale a dire Pietro Consagra, Carla Accardi e Antonio Sanfilippo. Limitandosi solo ad alcuni accenni essenziali, nel trattare delle opere che questa mostra propone, possiamo muovere, in termini cronologici, proprio dall’ultimo di questi tre, Antonio Sanfilippo, che va definendo nel corso dei primi anni Cinquanta il suo linguaggio, teso ad unire segno e spazio in una inscindibile unità pluridimensionale. Ne sono prova le opere del 1956, tra quelle nelle quali si verifica l’incontro evidente fra le due componenti di un lavoro che integra l’aspirazione alla forma e l’idea di uno spazio che ne trascende le condizioni immediate, secondo quanto lo stesso artista precisava allora nei suoi appunti8. Per passare alle realizzazioni tra pittura e scultura di Pietro Consagra, che dagli anni Sessanta-Settanta in poi, con la sempre maggiore pregnanza del colore, quale materia e componente significante, anima i suoi lavori in senso plastico ed espressivo insieme, dove le forme ottenute dalla sua ideazione paiono fecondare in un territorio spazialmente neutro, ma dotato di forti qualificazioni ambientali, per effetto della fedeltà dell’artista ai principi di una frontalità che conduce ad amplificare nel senso delle relazioni di “trasparenza” i lavori dotati di minimo ingombro fisico. Le opere di Carla Accardi sono tutte di un momento molto avanzato della sua attività, quando la progressiva estensione del segno grafico-formale sulle tele grezze raggiunge un grado di ampliamento che le rende frammenti di un discorso unitario, dove la spinta verso i bordi delle elaborazioni pittoriche va aumentando il senso di movimento interno e le potenzialità plurali del suo alfabeto formale. Se le opere, pur scandite in epoche diverse, dei tre artisti che sono stati tra i protagonisti di Forma e dell’astrazione a Roma degli anni Quaranta-Cinquanta, esprimono alcuni caratteri accostabili, accenti diversi qualificano le altre personalità di artisti, fiorite soprattutto fra gli anni Sessanta e Settanta, che costituiscono gli ulteriori percorsi delle ricerche formali qui rappresentate. Emilio Isgrò viene presentato con alcuni lavori recenti, dove il carattere sottilmente filosofico del suo agire sul segno mediante la cancellatura si arricchisce di attenzioni per il valore civico dei testi di riferimento e per la dimensione simbolica che la sua azione va a compiere su di essi, sia nel caso emblematico della Costituzione della Repubblica italiana, sia in quello di altri testi di natura giuridica o di pagine di quotidiani scelti per la loro qualità di immagini in grado di rappresentare un messaggio che dalla cronaca va verso la storia. Di Elio Marchegiani, che ha avuto una tensione esplorativa e sperimentale in varie direzioni, di natura fisica, concettuale, esistenziale e simbolica, sono presentati alcuni esemplari della sua stagione forse oggi più riconosciuta, almeno a livello di presenze in luoghi espositivi, vale a dire quella delle “Grammature di colore”, con le quali, alternando lavori su intonaco chiaro e su lavagne scure, egli sospende le sue linee di colore in una tensione astratta, misura del tempo oltre che dello spazio. Un altro linguaggio di originale ideazione è quello di Paolo Scirpa, che si apparenta parzialmente alle ricerche tecnologiche e ambientali dell’arte cinetica, portando alle conseguenze di una costruzione virtuale di uno spazio percepibile le ricerche ottiche, nella congiunzione di luce al neon, pertanto diversamente colorata, e specchi che scompaiono all’interno dei suoi lavori, trasportando il piano fisico in un’altra dimensione del reale, fino a generare dei veri e propri “luoghi” sospesi. Con i lavori scelti di Ignazio Moncada si affiancano esiti di quelle che possiamo riconoscere come due stagioni dell’artista, che in vario modo riportano la sua ricerca linguistico-formale a radici “mediterranee”, sia nell’Archeologia astratta, termine con il quale, nella seconda metà degli anni Settanta, l’artista ha creato composizioni che nei colori austeri e nella strutturazione spaziale richiamano lo spirito di una dimensione storico-archeologica, sia nelle composizioni della serie “Respiro vento”, dove invece la liberazione del colore avviene sulla concezione di una spazialità aperta, disseminata. Proprio la “disseminazione” è uno dei temi fondanti del linguaggio di Pino Pinelli, nella sua creazione di fo
Giuseppe Uncini
Giuseppe Uncini
Tutto il lavoro di Giuseppe Uncini è indicativo di quel nuovo approccio, caratteristico di molte ricerche del Secondo Dopoguerra, che vedeva nel materiale impiegato dall'artista la prima irrinunciabile dimensione di senso dell'opera; era questo il prodromo indispensabile al sostegno dell'immagine che nel lavoro compiuto si sarebbe poi risolta in modo permanente e definitivo. La conoscenza profonda delle materie, che si traduceva in una scelta totale, fino a spingersi spesso ad un radicalismo cercato e osservato con assoluta devozione, rimandava l'identità stessa dell'artista a definirsi con quelle sostanze da lui impiegate: ecco, quindi che il destino artistico di Uncini si compie attraverso il cemento.
Componente basilare dell'edilizia, sostanza che modella il vivere e la geografia architettonica dell'uomo, il cemento viene introdotto dall'artista come mezzo per ottenere un nuovo pensiero estetico, una risposta altra e diversa della stagione informale: antiaccademico, apparentemente freddo e senz'anima, totalmente "tecnico" e senza possibilità di veicolare alcuna poesia artistica, nel fare di Uncini si leggono le sue inattese peculiarità profonde e, attingendo dal panorama della nostra realtà, impone la sua forza costruttiva impiegandola nelle superfici e nel corpo delle sue opere. La solidità monumentale di queste sculture ricorda le pareti delle grandi strutture architettoniche moderne, rimanda al cantiere, al pulsare di un'urbanizzazione che avanza e cresce, che delinea l'ambiente antropico; è la presenza dello spazio industriale, ci riporta agli ambienti di produzione. Il suo grigiore, freddo e atono, parrebbe allontanarsi dall'immersione in un immaginario sensibile e vivo, anche se, quasi ne fosse stato profeta, Uncini sapeva che la sua attualità lo avrebbe visto protagonista di una rivalutazione estetica. Sappiamo bene come, oggi, questo materiale sia stato introdotto, puro e schietto (come il suo), nella dimensione della nostra quotidianità, frequentemente presente nelle forme negli spazi delle nostre abitudini. Del cemento Uncini ha saputo, tra i primi, conquistare l'intrinseca bellezza.
L'artista sapeva che ormai questa materia sarebbe sempre più appartenuta ad una memoria collettiva e sarebbe stata sempre più dentro all'oggi: dopo una prima stagione in cui le Terre lo avevano portato a sperimentare quel carattere più vicino all'Informale, proprio con il cemento ha recuperato poi un ordine di idee che concepiscono una nuova tipologia di scultura, a prescindere dalla sua estensione di grandezza. Architettonica, disegnata e composta da geometrie precise, la sua scultura diventa installativa proponendosi quasi come memoria e frammenti di muro, recuperato da spazi senza tempo. In questa concezione puntuale del lavoro, Uncini trova anche una profondità intellettuale, oseremmo dire di tipo rinascimentale. Il cemento, in dialogo con il tondino di ferro, sperimenta una diversa appropriazione del dato sensibile che, nella combinazione di questi elementi, legge due pronunciamenti differenti: da una parte abbiamo il corpo solido dell'opera che, dall'altra, pare dissolversi nella sua forma progettuale e disegnata.
Uncini costruisce e deostruisce, compone e scompone, passa dalla pienezza al vuoto, dal corpo alla sua ombra, lasciando la solida certezza dell'opera sospesa tra una verità concreta e una ideale, tra corpo e ombra, tra disegno e realizzazione, tra progetto e prodotto: attraverso questo pensare l'opera mette a nudo, svelandolo, il suo processo e fa incassare al nostro sguardo la cedola di un senso che dal passato tocca il futuro, proponendo il tempo di un'opera che da reperto può realizzarsi nel seme fecondo di un nuovo, altro e plausibile, inizio.
Riccardo Guarneri Arie di luce
Riccardo Guarneri - Arie di luce
Riccardo Guarneri: Arie di luce. Testo Critico a cura di Claudio Cerritelli.
1. Il percorso creativo di Riccardo Guarneri è evocato nelle opere scelte per questa mostra in tutti i processi della sua ricerca intorno agli elementi primari della luce e alle cadenze ritmiche dello spazio pittorico. Dai primi Anni Sessanta l'immagine dipinta è affidata alla qualità rarefatta della materia, alle sensibili vibrazioni cromatiche che dissolvono l'identità del reale adottando bagliori percettivi, tensioni spaziali calibrate oltre le misure costruttive delia geometria. L’ideale di Guarneri è uno spazio disancorato dagli oggetti, dalle presenze effimere, dai luoghi riconoscibili, uno spazio immaginato nella dimensione di rapporti segreti che captano l'immagine in tutta la sua estratta purezza. La realtà della pittura non riesce sempre a cancellare la memoria delle cose e spesso l'idea di uno spazio radicale e assoluto deve fare i conti con l'urgenza di altri stati d'animo, tracciati emotivi legati ai valori sensoriali dell'esistenza. Linee e grafie assumono percorsi di relazione con il vuoto, alfabeti mentali che accrescono la possibilità di inventare nuovi respiri della luce, soprattutto quando è il bianco ad accogliere i segni della matita, i vapori dell'acquerello, i leggeri fili che si diramano sospesi, in cerca di impercettibili equilibri. L'atmosfera lirica che anima l'idea di costruzione pittorica è il carattere costante che accompagna la visione di Guarneri in ogni scelto formale, sia quando egli affida l'identità dell'immagine alla precisione compositiva di quadrati, rettangoli e rombi, sia quando crea dislocazioni e ritmi anomali che fanno slittare lo spazio verso l'esterno, oltre il perimetro circoscritto della superficie. L'uso delle diagonali nasce dall'esigenza di continui spostamenti, dalla volontà di negare i vincoli dello spazio simmetrico per acquisire una maggiore libertà compositiva, soprattutto per assecondare il senso di continua apertura delle forme sensibilizzando le loro dinamiche strutturali. Per ottenere questa spazialità espansiva Guarneri lavora sulle tensioni interne della geometria, insegue la rarefazione del colore e la sottigliezza delle linee, smaterializzando il corpo dell'immagine fino a farne pura vibrazione luminosa. Alle variazioni del quadretto si affiancano altri ritmi strutturali, angoli acuti e ottusi, archi di cerchio, orientamenti accuratamente predisposti per creare una complessità percettiva instabile, uno spazio inquieto. Così, se la ricerca di Guarneri è stata negli anni Sessanta più radicale nel configurare lo struttura dell'opera, bisogna riconoscere che nelle stagioni successive essa ha attinto la propria sostanza immaginativa da una più articolata presenza di tramiti visive segni, macchie, sfumature, vibrazioni calligrafiche. 2. L'intenzionalità del fare pittura significa per Guarneri una profonda adesione ai presupposti lin guistici che privilegiano la trasfigurazione spaziale della geometria come campo percettivo del colore-luce, dalla sintesi del bianco su bianco alle variabili trasparenze cromatiche inventate nel corso del tempo. In una riflessione del 1974 l'artista allude a "una geometria più interiore che formale" ripercorrendo un'esperienza personale che vede i segni alludere "quasi a una trama-scrittura fisiologica del movimento del polso nell'atto del fare pittura, tendere dunque al significato nel loro assieme, nella tonalità della superficie sensibilizzata". L'artista non nutre alcun sogno minimalista, non rinuncia alle sensazioni liriche del colore, approda alle gradazioni silenziose del bianco-luce attraverso lievi oscillazioni di strisce sovrapposte e diversamente inclinate sulla superficie. L'idea di geometria è affrontata come condizione problematica della forma, relazione mutevole tra analisi strutturale del crampo percettivo e ricerca del senso poetico del colore. Guarneri si stacca dal concetto convenzionale di rappresentazione attraverso il divenire delle tensioni cromatiche, movimenti che vanno verso la soglia dell'ambiguità, sospensione degli elementi d'identificazione dello spazio. In tal senso, pensare la pittura significa esaltare la sua fisicità, consegnare la sua esperienza agli infiniti accadimenti del colore-luce, per ipotizzare "un nuovo modo di vedere, allargando/aumentando il campo della percezione". Un'altra riflessione di Guarneri riguarda la necessità di legarsi al senso della pittura di sempre, lontana dai mezzi spettacolari e tecnologici che ne tradiscono l'intima ragione storica. "A me piace - ha dichiarato l'artista - che la pittura si serva del suo medium specifico che poi è la pittura stessa, quella pittura che per il suo particolare linguaggio riesce a comunicare emozioni e sensazioni che sarebbero impensabili in altre forme di linguaggio". La pittura è una disciplina che cerca in se stessa il proprio rigore, essa esprime l'impossibilità di seguire un orientamento univoco, in questo senso l'arte di dipingere è saper affidare tutti i progetti a un colore iniziale, ad un segno magico, ad un corpo originario, ad una struttura in cui ci sia qualcosa di potenziale, che possa svilupparsi con gli altri elementi della visione. Non c'è pittura creativa al di fuori di quest'azione immaginaria, senza quel senso di energia luminosa che sommuove le forme, infrange le simmetrie, fa fluttuare i colori, inclina gli orizzonti, creando slittamenti tra un campo e l'altro. 3. Negli Anni Ottanta la pittura non smette di riflettere su stessa elaborando nuove tentazioni immaginative, Guarneri sviluppa le trasparenze della luce accrescendo la sensazione di uno spazio colmo di memorie. In una stessa opera è possibile cogliere la sintesi dei procedimenti operativi legati a molteplici stati espressivi, in ogni ciclo di ricerca si avverte un più complesso svolgersi di scritture invisibili e di macchie trasparenti, una leggerezza istintiva che muove l'aria della superficie verso direzioni variabili, inesplicabili, segrete. Tra il segno e l'acquarello si stabiliscono relazioni sempre diverse, lo sguardo è sollecitato a seguire il tratteggio della matita, il sottile esercizio della scrittura, le varie consistenze del colore, ogni scelta operativa fa emergere forme sospese nel vuoto, respiri impercettibili nell'aria immateriale della superficie. Tra gli orizzonti delineati possono nascere improvvisi accadimenti, lievi lacerazioni, linee rette sfiorate da atmosfere vaporose, scritture illeggibili avvolte da soffi di luce, apprensioni emotive che caricano lo spazio di turbamenti cromatici e vibrazioni segniche. La geometria lascia intuire spazi sconfinati, gli orizzonti lineari indicano altrettante possibili soglie da oltrepassare, ma anche la necessità di una pausa meditativa, l'esigenza di prendere le distanze da tutto, contemplare il campo del colore per avviarsi verso qualcosa d'irraggiungibile. Ogni minima variazione compositiva vuole restituire il senso di un primordiale incanto, visione lirica, poema dipinto, costruito e cancellato, descritto ed evocato, raccontato eppure sempre avvolto nel mistero luminoso delle forme. Per comunicare l'impalpabile soglia del visibile Guarneri si affida spesso all'evanescenza dei pigmenti, impronte del pensiero che evocano la dimensione assoluta dello spazio, ombre luminose la cui verità visiva corrisponde alla qualità fisica del colore. Questa condizione di ricerca non esclude la presenza di emozioni che vengono da lontano, orizzonti che nascono e svaniscono nell'atto stesso di osservarli, nello stesso istante in cui prendono forma. Lo spazio-luce della superficie è attraversato dai flussi della memoria, ogni riferimento figurale è trasfigurato dal colore, per esempio l'effetto del bianco ha il potere di togliere anche i minimi contrasti, di attenuare le difformità e di risolvere le differenze formali nella magica luminosità del tutto. Tra le tecniche che nutrono l’immaginazione di Guarneri, l’acquarello ricopre un ruolo privilegiato, capace di sollecitare l'incanto dello stupore spaziale, il respiro interno del colore, il sogno di una luce purissima dove lo sguardo sembra perdersi nel nulla, nella sostanza stessa dell’aria. Per questo motivo, l’osservatore ha bisogno di esercitare un lungo tempo di lettura, di affinare la capacità di svelare la complessità dell’opera osservandola sia nei minimi dettagli sia nell’insieme totale, spesso al limite della sua stessa possibilità di rivelarsi. In questa relazione tra razionalità e sensibilità, i micro-segni tipici di Guarneri entrano in gioco come scritture trasparenti in relazione con i segni più strutturati, sollecitando un dialogo tra diverse possibilità che lo sguardo ha di percepire i ritmi mutevoli del colore, le sue avventure ininterrotte, il suo tendere verso la dimensione sospesa della luce. 4. Con questo sentimento del dipingere Guarneri attraversa le impervie vicende della pittura aniconica con la convinzione, condivisa da diversi altri artisti della sua generazione, che il soggetto del dipingere sia comunque e sempre la pittura stessa o, meglio, la memoria del colore o, ancora, la possibilità di portare quello spazio determinato verso una percezione non misurabile. Il viaggio verso questa interminabile rivelazione è stato ed è laborioso, sorretto da una sensibilità attenta a ogni minimo slittamento del linguaggio, alla verifica dei suoi passaggi interni, alle sue reciproche risonanze. Nelle opere degli anni Novanta si avverte che la visione non ha limiti temporali e lo spazio è abitato da gesti silenziosi, vapori colorati, impronte di cose perdute e ritrovate, sensazioni primarie che la memoria evoca con intatta purezza. L'artista suggerisce atmosfere musicali nel ritmo delle linee e delle fasce colorate, secondo andamenti paralleli o leggermente obliqui, come un liberarsi di energie nel vuoto, punti instabili che vagano come ombre nella luce. Del resto, materializzare il vuoto, rendere visibile l'aria, dipingere la luce solare della mente è una sfida che crea sgomento, eppure Guarneri non s'è mai sottratto ad essa, ha provato l'estasi del bianco desiderando anche un po' di celeste, il profumo del rosa e il sibilo del viola, mentre altri colori possono assumere anche la forma di nuvole. Memorie di paesaggi luminosi, architetture della memoria, riflessi di ombre e limpidi tracciati, pensieri in tensione verso i bordi, spazi del dubbio: in effetti il pittore mostra ciò che sulla superficie è possibile trattenere, affida al colore la funzione di toccare l'invisibile. Spaesato tra il tempo della creazione e le persistenze del suo stile Guarneri muove gli elementi del linguaggio per risvegliare ogni volta la luce con i suoi strumenti preferiti: matite colorate, pastelli, gessi, gli immancabili acquarelli. Tra favole ragionate e riflessi di favole lontane la pittura è presente a se stessa, si muove tra linee rette e macchie vaganti, questi elementi non entrano mai in collisione ma rispettano i campi distinti, come nel gioco dei contrappesi. Nella costruzione dell'opera nasce un colloquio tra una parte alta e una bassa, variamente alternate, una strutturale e l'altra mutevole, la prima costruita da rette sovrapposte, la seconda giocata sugli umori del colore. Raramente questa distinzione viene tradita, anzi è necessario che si mantenga tale per alimentare il rapporto dialettico tra le ombre di luce e le fasce colorate, tra la vaghezza delle emozioni aeree e il rigore delle ragioni costruttive. Ciò non esclude che in una sola immagine possano sovrapporsi e mescolarsi i diversi modi di dipingere di Guarneri, dal segno alla macchia, dalla pura linea alla delimitazione delle fasce cromatiche, dall'acquarello al pastello. Ne scaturisce un ritmo vibrante, una sintesi espressiva, una sorprendente forza immaginativa, un moto perpetuo dove il progetto spaziale, il gesto del fare, del segnare e del lasciar traccia del proprio fluire stanno in un rapporto continuo. Si tratta cercare ulteriori stati emotivi della pittura, significa contrapporre volutamente diverse temperature per ricavare nuovi trasalimenti tra i rosa e gli azzurri, i verdi e i gialli oppure la gamma inesauribile dei bianchi e dei grigi. Dentro il bagliore totale della superficie cogliamo la presenza attiva dell'ombra, essa nasce dal soffio della luce, nel senso che quello stesso valore di luce si origina dall'ombra, si annida in essa, provoca insolite apparizioni. 5. Nello spaesato racconto immaginativo che Guarneri suggerisce durante l'ultimo decennio di ricerca il tema della felicità creativa si sposa direttamente con il piacere del dipingere, questa sembra la certezza visibile nelle opere in cui l'artista racchiude gii orizzonti luminosi del passato e le nuove movenze del colore che insorge determinando direzioni oblique, immagini in bilico. Il mistero della costruzione continua a essere il punto di riferimento di ogni bagliore che si accende all'interno del colore, sia che si tratti di evocare l'atmosfera delle stagioni sia che prevalgano le sonorità interiori dell'inconscio, talvolta a sedurre l'artista èil desiderio di alzare lo sguardo verso altezze celestiali, spazi torse inaccessibili ma sempre desiderati, proiezioni spaziali che accompagnano le serenità di sguardo con cui Guarneri vive questa fase di profonda riflessione sui fondamenti della propria storia creativa. Questa consapevolezza comporta un diverso modo di sentire la continuità con il passato, un senso di libertà che permette di calibrare tutti i caratteri del suo inconfondibile alfabeto senza avvertire gli ipotetici disagi della ripetizione e neppure i possibili esaurimenti degli elementi in gioco. Il trasmutare da un colore all'altro accompagna il susseguirsi dei campi pittorici, talvolta attirati verso la vertigine verticale delle linee, in altri casi osservati dall'alto, mappe di astratta purezza dove i quadrati sembrano oscillare nei pulviscolo gravitante dei colori. Talora si avverte qualche fantasma figurale, l'eco di misteriose presenze che sconfinano dall'umano all'angelico, tracce di visionarie emozioni che l'artista rivela nelle zone nascoste nelle ombre, aloni indistinti che non hanno margini di riconoscibilità. Del resto, nell'attuale fase di ricerca, pur avendo piena coscienza delle sue acquisite esperienze, Guarneri è sempre interessato agli eventi sorprendenti del pensiero intuitivo, al suo modo di rivelarsi attraverso le qualità permutative del colore, ragione vitale per continuare a dipingere arie di luce, contini indefiniti tra lo memoria del vissuto e la visione di orizzonti sconosciuti.
Ennio Finzi - L'esaurirsi è sempre un principio
Ennio Finzi - L'esaurirsi è sempre un principio
Ennio Finzi: L'esaurirsi è sempre un principio. Testo Critico a cura di Dino Marangon.
La pittura estromessa?
Da sempre in pittura il gioco è stato tra l'infinito e la superficie, in un tempo che non è mai stato questione di estensione, bensì di profondità e di densità. " Il pensiero sulla pittura, sul suo perché e sul come..." come Finzi stesso ha avuto modo di scrivere, lo ha spinto a "... una continua e insistente ricerca...", affascinato dal continuo riproporsi delle intuizioni, delle domande, dei quesiti, delle investigazioni, nella convinzione che: " L'arte è il gioco delle idee, più che del fare ..." Questo forse il senso segreto della continuità sottesa al sempre mutevole caleidoscopio della pittura finziana, alla sua costante ribellione nei confronti delle regole, delle grammatiche, delle consuetudini compositive e percettive. Eppure, anche tale continuità, all'inizio del nuovo secolo è sembrata pervenire a una sorta di punto critico, di snodo mai prima percorso o esperito. Si fa infatti strada, nell'animo del pittore, una nuova consapevolezza dei cambiamenti epocali, del nuovo sentimento del tempo. Pur continuando a rimanere convinto della superiorità intellettuale dell'ambito culturale delle avanguardie, volte a esplorare e ad allargare il domìnio delle varie arti e in particolare l'universo del dipìngere, acuendone e perfezionandone l'ascolto, divenuto consapevole dell'impossibilità per l'umanità attuale - quella dei grandi semplificatori mediatizzati, per i quali, come egli stesso ha affermato "... l'organo pensante, non è più il cervello", ma qualcos'altro che va "... dall'ombelico in giù" - di cogliere in profondità i sensi e i significati della pittura, verrà anche da parte sua operando una nuova e ancor più radicale rivolta. " Nell'attesa che un nuovo Big-bang produca un altro sconvolgimento cosmico per un nuovo ordinamento dell'universo ..." (così inizia una sua riflessione ancora inedita) nasceranno allora opere volutamente frutto della mera manipolazione di vari materiali, intenzionalmente in assenza di qualsiasi progetto teorico: puro e semplice "... fare che vorrebbe dire non pensare". Eppure anche questa risposta dichiaratamente sorda e rabbiosa, alla putredine, all'immondizia, all'inarrestabile chiacchiera, all'inquinamento dello sconfinato, eclatante dilagare delle immagini degradate dall'uso e dal consumo iperbolicamente moltiplicato e scadente, verrà modulandosi in una significativa varietà di esiti e di espressioni, di sempre nuove Geografie dello sguardo. Nascono infatti opere caratterizzate da una accentuata materialità, in alcune delle quali sembra tuttavia in qualche modo essere attiva ancora una specie di memoria delle risonanze spazialiste presenti già nelle Tracce e nei Cementi realizzati da Finzi negli anni '50. Le accentuate accidentalità e articolazioni indotte dalla volutamente casuale provvisorietà del gesto sulla plasmabile consistenza materica del corpo dello pittura, sembra infatti attingere a una sorta di aurorale partecipazione spaziale, affiorante tramite il trattenuto fulgore dell'oro e dell'argento, dell'ametista e dei lapislazzuli. Sembra così emergere come una sostanza indefinibile, che non è ancora o non è più colore, un qualcosa che non si libera nell'atmosfera o nella luce, ma partecipando ai palpiti del modellato rimane come aderente alla materia: riflessi, lunghezze d'onda, emissioni cromatiche come bloccate e trattenute prima della loro determinazione, una sorta di pausa, di sospensione che va talora acquistando i toni di una contemplativa, avvolgente elegia. In altri casi a prevalere è invece la reazione alla impossibilità di sottrarsi alla malattia dei tempi. Il fare artistico verrà così configurandosi come pratica terapeutica intesa, quasi freudianamente, come possibilità di immediata scarica delle tensioni che la situazione di incombente, rinnovato disagio continuamente innesta. Ma tale prassi può altresì sottolineare una ribadita assenza di investimento progettuale e di pensiero come pure di ogni attiva partecipazione mentale creativa da parte dell'artista, ponendo capo a una particolare compattezza che si potrebbe definire addirittura olistica. In questi lavori il rifiuto di qualsiasi nesso relazionale e compositivo sembra farsi radicale pur se non riduttivo: nell'uniforme monocromia della superficie del possibile campo di immagine, emerge infatti una significativa ricchezza di modulazioni e modellazioni. Superando per taluni aspetti anche i confini di quella pittura critica - della quale Finzi è stato ed è uno tra i principali protagonisti e che si potrebbe pur sempre ascrivere ad una tradizione espressionista nel campo dell'astrazione - non volendo dire niente, il quadro finisce col porsi come residua enunciazione del nulla, evidenziandone la pura e semplice positività significante. A permanere, tuttavia, è la consistenza stessa dell'opera, intesa non più come immediatezza, grido, denuncia, sostanza primigenia, ma significativamente espressiva, come accadeva nelle poetiche informali, bensì come profonda alterità che non solo va configurandosi come silenzio, radicale estromissione del dipingere, giungendo non solo a denunciare implicitamente, ma in maniera lucida e spietata ogni estetismo, ogni retorica, ogni possìbile infatuazione per il bel gesto, per le pungenti dissonanze, per le irrinunciabili grafìe o gocciolature che pure potevano aver talora popolato anche i dipinti dello stesso Finzi, ma persino col capovolgere la direzione, iI senso stesso della comunicazione comunque istituita dall’opera, dalla sua presenza muta e incongrua. "A questo punto..." sottolineerà infatti lo stesso Finzi,"... interviene ... qualcosa che rovescia i ruoli: cioè non sarà più l’opera ad essere guardata ma essa stessa a guardare attraverso un piccolo frammento di specchio a guisa di centralina, come una specie di sistema nervoso centrale. Titolo questo ciclo di lavoro", preciserà ancora Finzi, "Lo sguardo indiscreto, con sottotitolo guardami." Un invito, questo, che non solo sembra dolorosamente sollecitare un'attenzione distratta o impreparata, ma pare costituire, pur in maniera totalmente laica, anche un segreto richiamo, un'invocazione alla contemplazione dell'alterità metafisica e sacrale insita in ogni integrale, mistica assenza di immagine. Tuttavia ben presto la vita non tarderà a far riemergere le proprie condizioni e possibilità. Si assisterà così ancora una volta, al riproporsi dell'evento del colore. Magari in dislocazioni accidentali e periferiche, squillanti lacerti di azzurro, di verde, di bianco, di rosso, di giallo, pure emissioni cromatiche come private di ogni memoria e di ogni cultura, si riaffacciano allora sulla superficie dell'opera, forse a ricercare nuove, infinite occasioni dì incontro o di scontro, ignote apparenze o apparizioni, inediti percorsi, ancora nuove, sconosciute possibilità di sperimentare, pensare, ideare, alle quali forse non è dato sottrarsi. Perché nell’opera di Finzi, il colore è, forse, un destino.
Giovanni Campus
Giovanni Campus
Equilibri di forme e misure regolano da sempre l'azione indipendente e autonoma della ricerca di Giovanni Campus che, con la coerenza della sua indagine, ha saputo attivare un codice espressivo che vive nella feconda commistione tra scultura e pittura. In uno spostamento semantico continuo l'artista modella la superficie pittorica fino a elevarla a intervento plastico, allo stesso modo, con un'azione quasi opposta, il plasticismo dinamico e tridimensionale della scultura tende ad azzerarsi nello stadio primordiale dell'ampio campo del monocromo pittorico e non solo.
La sua azione, schietta e semplice, pur nella sua complessa dinamica concettuale, agisce sullo spazio fisico, lo sollecita nelle sue urgenze, lo anima attraverso la riscoperta determinante delle sue recondite energie e forze invisibili: Campus rivela tanto la concretezza delle consistenze delle sostanze e la loro materialità visiva, quanto le loro collocazioni dinamiche ed evolutive e il loro statuto permutante. In questo modo ne imbastisce un nesso relazionale capace di coagulare la semplicità risoluta della nostra dimensione spazio-temporale. La scelta della sua esplorazione geometrica non avviene mai secondo una rigorosa determinazione logico-matematica; gli schemi dei piani pittorici, intrecciati e uniti alle direttrici concrete delle linearità da lui colte con le barre metalliche, estendono al reale, senza essere mai un elemento assoluto ed ultimativo, la visione particolare dettata dall'intuizione dell'artista stesso. In questo modo l'insieme delle opere si traduce nella relazione con lo spazio. L'uso di questa forma di intervento gli permette di dare, inoltre, un accento personale ad uno spettro diverso di soluzioni, modulando un'intensità sensibile che fa da coordinatrice a forme che cercano una relazione con la dimensione fluida del tempo. La potenzialità determinante offerta dalla materia rende definibile e meglio intuibile tutta la gamma attraverso cui si rendono infinite le possibilità espressive del segno: la "scrittura" di Campus impone alla scultura-pittura di connettere le proprie intime istanze con quelle del mondo circostanze, spingendo la tensione ideativa a manifestarsi nella mutevole cangianza del reale.
Pieno e vuoto, spazio e tempo, forme piatte e forme tridimensionali accolgono una complessa e avvincente pluralità di manifestazioni capaci di rinnovare continuamente il valore affermativo dell'intuizione e dell'immaginazione dell'anima astratta di Campus, approfondendo un pensiero che non rinuncia mai ad un rigoroso e complesso insieme di processi che portano a concatenare, nel divenire delle storie, l'autonoma soluzione rappresentata da ogni singolo lavoro. Opere come Determinazione interrelazionale del campo o Tempo in processo sono emblematiche di questo ricorso ad un dialogo che rimanda e cerca l'altro: connettersi con il mondo, diventare epicentro di una moltiplicazione di riflessioni sono i principi chiave del loro apparente costruirsi caotico che disperde, spezza, allunga, dilata ed estende il contenuto delle immagini oltre le abituali loro coordinate. L'uscita dal "grafico" dell'opera, la dilatazione degli elementi oltre un campo definito, la collocazione di immagini che paiono frammenti di un tutto più grande in Campus sono la necessaria prassi per rivelare quella volontà di presenza costituita dall'opera stessa. L'esigenza affermativa dei suoi lavori non si imprigiona in un estetismo ascetico, ma vuole legarsi sempre al vivere presente correlandosi con il luogo e l'istante della visione. Le sue opere si dichiarano attraverso uno spirito dilatativo e moltiplicatore che incontra e invade l'ambiente del nostro orizzonte universale. Queste non si lasciano solo ammirare dal nostro sguardo, ma necessariamente ci chiedono di essere agite tanto dai nostri sensi, quanto dalla nostra coscienza.
Bruno Ceccobelli Vista senza veste
Bruno Ceccobelli - Vista senza veste
Bruno Ceccobelli: Vista senza veste.
Testo Critico a cura di Giorgio Cortenova.
La circolarità della visione.
E’ difficile conoscere un artista che, come Ceccobelli, immagini un Oriente al tempo stesso saturo di armonie e di assolutezze paniche. Un oriente percepito e inteso nella luce gravida del meriggio, nel palpito di mani vibranti e al tempo stesso “impastate” nella materia. E’ difficile pensare ad un Oriente in cui il fiato incespica e la mente respinge la ragione e l’occhio s’infarta nel tessuto poroso della pittura. Il fatto è che Bruno Ceccobelli è tra i pochi artisti che conosco ad accettare la sfida della modernità contemporanea come una sfida aperta da secoli, ancor prima che Marsilio Ficino mirasse la bellezza attraverso l’amore e l’amore cedesse alla bellezza il fato ultimo del naufragio. Nel trasalire della coscienza moderna, nell’assurda fierezza della crisi Ceccobelli conosce i lavacri dell’anima e la scelta di un assoluto che diviene ansia e di un infinito che mina la corsa inutile verso la finitezza. Perciò la sua è una pittura risentita, che nel risentimento tocca le corde nascoste di una palude da cui essudano i gialli dorati di un tramonto che incespica sull’orlo dell’orizzonte. In primo luogo Ceccobelli sa bene che la modernità non abita laddove la forma si è sfrangiata nella polvere indefinita delle sue scorie. In secondo luogo egli è cosciente che i temi sociologici e gli apparati del “loisir” di massa non accedono al pensiero estetico, ma casomai lo assediano minacciandone la consistenza. In terzo, ma non ultimo luogo, egli conosce gli inganni della bellezza apparente e del racconto naturalistico; perciò li nega nella sintesi di una pittura che ricerca l’intensità e non lo sguardo, la visione e non ciò che semplicemente si vede o si crede di vedere. La sua è una pittura che non teme di essere sgarbata, perfino carica di “cattive maniere”, considerato il fatto che quelle “buone” si sono tutte votate ai concettualismi e ai minimalismi, spesso con ottimi risultati, ma che sono altra cosa rispetto alla materia di un oriente irretito dal fascino strisciante dei muri romani. Perché sia chiaro: Ceccobelli è pittore nel senso “primitivo” e probabilmente eterno del termine, e perciò l’occhio, il vedere, l’osservare sono comunque un punto di riferimento e di discussione interna alla logica stessa del dipingere e si sposano con il toccare, il manipolare, l’accarezzare. E anche questo è fortemente impresso nella coscienza creativa di Bruno. E poichè lo sguardo si sviluppa nel tempo, ecco che il tempo stesso alimenta nell’arte di Ceccobelli un principio di verticalizzazione, una spinta che osa avventurarsi ad alta quota ma contemporaneamente infangarsi nei limi generosi della pozzolana, l’un l’altro peraltro ricongiungendo in un cerchio che insiste nella testa umana e si distribuisce nel palpito delle mani, degli arti e delle nervature del corpo. In altre parole, il nostro artista si muove secondo parametri che tendono ad armonizzarsi nella circolarità della visione, nell’eterno ricongiungersi della memoria e della progettualità, nell’ascesa verso i cieli della visione e nella discesa verso le oscurità dell’anima. Ma attenzione. Qui non si tratta degli inferni e dei paradisi rimbaudiani. Tutt’altro. La sua è una vera e propria metafora della “genesi”, cui perviene attraverso un ardimentoso “sprezzo” per la bellezza esteriore, per il colpo d’occhio appagante, per lo scorrere delle cose in pure e semplici immagini. C’è un’opera in mostra in cui una figura umana colta di spalle, che si profila da sinistra a destra e dal basso all’alto, conquista con il volto di tre quarti il centro della tela. La testa è contrassegnata da un cerchio invaso a sua volta da spezzoni di materia o molecole giganti, in ogni caso monadi barocche traboccanti come pietre sulle spalle e sulla schiena. L’opera è significativa anche perché la prima idea che se ne ricava è quella di un meccanismo fotografico che, al centro del mirino, ti permette di “sistemare” al meglio la messa a fuoco. Ma è un’impressione ingenua e poco pertinente, che a parer mio lascia subito il passo ad un’altra simbologia, relativa questa volta alla pupilla: l’occhio umano non vede ma è visto. Per non cadere in sospetto di concettualità, che in tal senso poco si addice alle intenzioni di Ceccobelli, cercherò di spiegare meglio la cosa, che risponde a ragioni più esistenziali che mentali, più “visionarie” che intellettuali. L’occhio di Ceccobelli è tale da non “tenere” più il mondo delle cose. Non è lui che guarda e vede quanto ci circonda, ma sono le cose stesse che lo riempiono fino a traboccare verso l’interiorità perturbata dell’essere. Insomma Ceccobelli nega la facile logica dello sguardo che domina il mondo o quella naturalistica che nella luce identifica il vedere in continuità di ritmo e in velocità di percezione. Il nostro artista sembra sapere che solo apparentemente gli impressionismi sono moderni, ma che di fatto sono proprio loro a costituire un vero e proprio muro contro lo sviluppo di una più profonda coscienza moderna. La ventata simbolista prima, e di conseguenza gli espressionismi dopo, ritorneranno a coniugare la coscienza con la veggenza, il viaggio verso il futuro con l’eterno ritorno ad Itaca, la comunicazione dei segni con la misteriosa corrispondenza degli animi. Insomma le cose ci guardano. Ma se in tal senso esse si rivelano nella notte spugnosa dei lumi che si accendono e, dorati, svaniscono, al tempo stesso la materia ci attraversa e ci penetra: da un lato c’imprime le sue impronte nell’anima, da un altro lato ci fonda come corpo mistico, come il palpito suntuoso di un’ala di farfalla appesantita dai venti di scirocco. Questo palpitare del corpo, e questo tradursi in fluido dell’animo per immemorabile alchimia della materia, e poi il peso spugnoso della materia che all’improvviso s’inebria nei toni aranciati e solari, nelle terre dorate che preludono all’alba e insieme al tramonto: tutto questo antico e corrusco germogliare in filigrana di un “anatema” saussuriano sotteso ai pigmenti della pittura costituisce l’agguato responsabile di un artista che nella responsabilità dell’essere individua il senso profondo della coscienza. La congiunzione tra Luna e Sole, tra maschile e femminile avviene alla presenza della mano alchemica e duchampiana del dott. Dumouchel. Nella metafora di Ceccobelli è infatti la mano che genera e raccoglie calore, che impasta la materia e ne viene al tempo stesso attraversata. Da parte sua, lo sguardo rivolto all’esterno è legato al reticolo del limite; ma sospeso nel tempo, in una sorta d’infinito rinvio, l’occhio della coscienza incrocia un tempo che non finisce, intriso nei fulgori bizantini della materia, negli esiti altissimi di una luce riverberata: come se la materia stessa l’avesse tutta assorbita, e adesso, nel tessuto di una sindone ritrovata nella deriva del presente, ne rilasciasse accese vampate o più pallidi tremori.
Gualtiero Nativi Tensioni nello spazio
Gualtiero Nativi - Tensioni nello spazio
Gualtiero Nativi: Tensioni nello spazio. Testo Critico a cura di Luciano Caramel.
Gualtiero Nativi fu tra i maggiori protagonisti dell'arte italiana dai tardi anni quaranta del Novecento per qualità e novità, nutrite da un'intelligenza sottile e colta che si sposava a una sensibilità tanto riservata quanto ricca e a un accanimento rigoroso sul valore della forma a, con essa, della tecnica, delle materie, del mestiere. Complice la sua discrezione, il suo lavoro, pur largamente apprezzato, non si è però imposto come sarebbe dovuto avvenire, nel campo almeno dell'arte costruttiva, in cui il pittore raggiunse vertici tra i più alti, su di un piano anche internazionale. Anche a livello critico avrebbe meritato, e meriterebbe, una più larga attenzione, lo stesso, e me ne dolgo, non ebbi l'occasione (ma avrei dovuto cercarla) di dedicargli uno studio monografico. Richiamai il suo contributo in scritti di respiro generale sull'astrattismo di quel tempo, sottolineandone sì l'autonomia irriducibile a gruppi, fosse pure quell’Astrattismo classico di cui, con Vinicio Berti, Bruno Brunetti, Alvaro Monnini e Mario Nuti, Nativi fu promotore, fondatore ed esponente, e l'estraneità a koinè formalistiche, senza però l'approfondimento sistematico che la stesso sua novità avrebbe richiesto, e che sembrò profilarsi negli anni novanta addirittura nell'ipotesi, che non ebbe seguito, di un catalogo generale di cui si parlò in un incontro nel suo studio. Ho tuttavia seguito con interesse continuo l'attività dell'artista dagli anni cinquanta, incontrandolo più volte. La prima nel 1960, presentato da Giusta Nicco Fasola, che con la sua apertura, inusuale in uno storico dell'arte antica, mi introdusse nel clima in cui tra gli anni quaranta e cinquanta la pittura e la poetica di Nativi presero corpo, anche col suo appoggio Intellettuale, che accompagnò gli astrattisti fiorentini con scritti illuminati, a cominciare da quell'importante libro Ragione dell'arte astratta che uscì nel 1951, l'anno in cui Nativi con gli altri membri della pattuglia di Astrattismo classico espose alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma nella mostra Arte astratta e concreta in Italia. Che segnò il riconoscimento pieno delle esperienze dei toscani nel contesto delle ricerche astrattoconcrete svoltesi nel nostro paese dal 1947-1948, quando a Roma e a Milano sorsero Forma e il M.A.C., il Movimento Arte Concreta, ma anche la conclusione effettiva dell'avventura comune del gruppo, Che spiccò per il suo coniugare la modernità del linguaggio con un impegno nel sociale inteso e praticato come "forma nuova in corrispondenza di nuova realtà, capace di improntare la realtà", per usare le parole di Nicco Fasola per il catalogo di quella mostra romana. Impegno certo fondato ideologicamente, come quello degli artisti di Forma, ma con differente orientamento, pragmatico, aperto a destinazioni che la pura ricerca formale travalicano, nel rapporto, anche, con l'artigianato, in un fare postulato e vissuto fuori di restrizioni individualistiche: “Lavoro" - scriveva il filosofo Ermanno Migliorini nel manifesto di Astrattismo classico, da lui redatto - “per la collettività, ma anche lavoro collettivo, lavoro di bottega, mestiere", intenzioni radicate nella congiuntura politica coeva e condivise da Nativi, che ne derivò soprattutto, e in seguito esclusivamente, l'interesse primario per la struttura, in connessione con l'architettura, oltre che il ricordato privilegiamento del fare, delle sue regole, del mestiere, appunto, e della bottega. Che rimarrà fondamentale nel pittore, e da valutare nel suo valore intrinseco, al di qua di intenzionalità e passioni politiche. Allora, nel clima dell'immediato dopoguerra, più sensibili e maggiormente avvertite dai fruitori, con una partecipazione, un distacco o un rigetto che contribuiscono a spiegare la difficoltà di Nativi e compagni a essere accolti in una città oltre tutto tradizionale, ancorata al passato, per il “peso" medesimo di una storia ricca di cultura e d'arte. Che d'altronde lasciò in positivo tracce sensibili nella "classicità" strutturata di Nativi, nel suo rigore limpido, nella netta organicità delle sue strutture. In quell'inizio del settimo decennio in cui conobbi personalmente Gualtiero, si era già sufficientemente "vaccinati" - in una realtà economica e sociale ormai diversa e con quanto si affacciava a Milano e Padova con i Gruppi 7 ed N e con l'Arte Programmata - nei confronti del rischio di subordinare, in positivo o in negativo, il giudizio estetico alle componenti, diciamo così, contenutistiche, che avevano invece gravato sulla lettura e la fortuna dei contemporanei. Con una disponibilità peraltro minore di quella consentita dalla congiuntura in cui viviamo, che consente di comprendere appieno le qualità formali dei dipinti di Nativi di quella stessa stagione giovanile documentata in questa mostra da pitture eseguite tra i pieni anni quaranta e i primi cinquanta (4 del 1947, 6 del 1948, 6 del 1949, 1 del 1950, 3 del 1951, alle quali se ne aggiungono un paio più tarde, del 1953 e del 1956) di grande rilievo, che si impongono proprio per quelle caratteristiche di qualità e novità di cui si diceva aprendo queste righe. L'avvio della ricerca di Nativi, dopo un primo momento di esperienze figurative, è legato all'articolata flessibilità formale del postcubismo, che segnò l'apertura dell'arte italiana postbellica all'Europa, seppur spesso con una libertà solo di superficie, compositiva e meccanica. Subito, dal 1947, tuttavia, la scansione neocubista si dilata in Nativi in larghe campiture geometriche, dapprima con riferimenti antropomorfi, in una serie di Figure sedute, Figure dinamiche, Madri mediterranee nelle quali sono avvertibili anche ricadute degli incastri formali futuristi di Balla e delle stesure piatte del primo Magnelli astratto del 1915. Quest'ultimo presente anche quando, sempre nel 1947, Nativi passa a Strutture aniconiche, dalle quali si sviluppano i primi lavori qui esposti, del medesimo anno, ove lo sguardo è puntato oltr'Alpe, ad Arp, ad esempio, nelle forme ameboidi inscritte in strutture triangolari e trapezoidali di Composizione in grigio e rosso, per approdare subito a composizioni più essenziali, solidamente congegnate e vivacemente animate da colori timbrici uniformi, sempre con intersecazioni di piatte figure geometriche stagliate su fondi di diverso colore e chiarezza e presto, dal 1948, d'una dilatata uniformità, dialogante con i dinamici primi piani (le coppie di Composizione orizzontale e di Costruzione polidimensionale, appunto del 1948, ma anche, nello stesso anno, i più articolati incastri e la coeva Composizione). Con la ricerca, tra l'altro, di trasparenze, che richiamano Moholy Nagy, forse attraverso il Manlio Rho degli anni trenta, al quale è avvicinabile soprattutto, sempre per limitarci alla opere presenti in mostra, una Costruzione di quell'anno, a tempera su carta intelata, come la maggior parte di queste pitture, anche se non mancano tempere su tela, su cartone ed anche qualche raro olio, tecnica maggiormente usata dal 1949, dipinte sempre con estrema pulizia e accuratezza, che sottolinea si rigore razionale delle strutture. La linea che si accampa decisa in questi quadri si svolge sempre più spesso in diagonale, con un'accentuazione dinamica già in questa fase solo di rado frenata da tagli orizzontali e da scansioni ortogonali, di cui Nativi si serve talora per creare una dialettica col piano di fondo, nel quale solo troviamo siffatte definizioni strutturali, enunciazione, quasi, di un credo geometrico-strutturale con cui si confronta lo scatto energetico delle già sperimentate (Simboli, del 1947) forme rigide puntute e zigzaganti, ascendenti e quindi subito precipiti, con ritmo lineare continuo oppure ondulato. Così in special modo nelle due Costruzioni pluridimensionali del 1948 esposte, nella loro sintesi grafica quasi come dei diagrammi, su tre livelli spaziali, per l'ombra" frapposta tra la forma in superficie e quella dello sfondo. E sempre sul registro di una varietà sperimentale motivata da intenzionalità di adesione a svolgimenti non assoluti, ma fenomenicamente diramati e attivi. Fuori quindi del tempo sospeso e dell'immobilità mondrianesca, in una dimensione fenomenologica, che sarà quella del neocostruttivismo degli anni sessanta, dopo il richiamo appunto fenomenico, della rottura informale, qui preannunciato e precorso. Altro motivo denotativo di queste composizioni è il ritmo, che nel 1947-1948 dinamizza le composizioni geometriche con contrappunti di campiture cromatiche e di linee diversamente scandite e orientate e dal 1949, come poi lungo tutta l'attività creativa del pittore, di barre di differenti dimensioni e colori che si incastrano, ancora, o intrecciano, o scontrano con attrazione centripeta, presto, dal tardo 1949 (si veda in mostra Tensioni nello spazio) e poi in misura caratterizzante dal 1950-1951, con una sorta di deflagrazione trattenuta, nella quale riaffiora l'eco del futurismo, ora sul registro delle linee-forza boccioniane, non più con l'eleganza gioiosamente decorativa di Balla. Con soluzioni che possono essere avvicinate alle coeve Geometrie di Emilio Vedova, pur nella sostanziale alterità nei confronti dell'irruenza e dell' horror vacui dei grovigli del maestro veneziano. C'è sempre, infatti, in Nativi un distacco, che è mentale ma si concreta nella forma e nel colore, freddo, in genere, e come ghiacciato in una fissità minerale. Che con-vive con la temporalità dell'immagine nel suo diramarsi nello spazio, anche multicentrico e diversamente direzionato in una conflittualità frenata che esalta un'energia allo stato potenziale, piuttosto che in atto. Ciò anche quando, col passare degli anni, ma fin dall'aprirsi del sesto decennio, considerato in questa retrospettiva, va affiorando e poi rinforzandosi quella che Nativi chiamava "disintegrazione", con una più forte dinamizzazione che ha riscontro nei titoli, quali, nei dipinti qui presentati, Spazio dinamico, Energie spaziali e Combinazione di forze, tutti del 1951, Seguiti però nell'esposizione da un olio del 1953 che, ancora nel titolo, qui Da un punto, sottolinea, con l'apertura centrifuga, la centralità dinamica della struttura. Accostamento invero opportuno per segnalare l'irriducibilità dell'astrazione di Nativi a schemi, non solo a quelli manieristico-ripetitivi di tanto astrattismo geometrico italiano del secondo dopoguerra, ma al diffuso predomìnio del modello neoplastiio, con una qualche affinità, piuttosto, con l'antitetica "necessità interiore" di Kandinsky, che mi ha indotto a inserire Nativi nella recente mostra dedicata nel Palazzo Reale di Milano al rapporto tra il maestro russo e l'astrattismo in Italia tra il 1930 e il 1950. Affinità attiva, del resto fondatamente segnalata dalla critica. Da Elvio Natali, ad esempio, nel suo bel saggio per l'antologica dell'artista del 1985 alla Galleria Civica d'Arte Moderna di Gallarate, in cui si legge che "le forme [di Nativi] muovono dal mondo che lo circonda, che egli supera attingendo quella necessità interiore"', appunto, "di cui ci ha fatto convinti da tempo Kandinsky, L'operazione dell'artista affonda oltre la scorza del fenomeno; ma ciò non significa 'astrarre' dalla natura dimenticandola, quando piuttosto penetrare, 'addentrarsi' nel profondo dei naturale, entrare in contatto spirituale e mentale per esaltare la sostanza calata nelle forme percettibili. Non estraniazione, ma assunzione di forme nel regno superiore della ragione". Entro quindi, sempre, coordinate compromesse con l'esistente, individuale e sociale, ma non ad esso sottomesse, in un dialogo serrato, più che in un confronto, che dalla metà degli anni cinquanta si farà più allarmato, fino, alla conclusione del decennio, ad una inquietudine drammatica, chiusa nelle Immagini prigioniere (titolo quanto mai sintomatico) del 1959, anche talora con una partecipazione all'informale che incrina e incupisce la nettezza delle linee, l'equilibrio delle forme e la luminosità del colore, come in forti, disperate Lacerazioni di quell'anno, da considerare, nonostante la loro eccezionalità, per non limitare la comprensione, e il giudizio, delle stesse successive costruzioni, di nuovo "in positivo" in una ritmica possente e serrata che continua però a sottendere una sensibilità complessa e ricca, che si allarga nella tarda attività ad una aerea, eppure determinata, solennità, in uno spazio-luce trasparente e adamantino che non senza giustificazione ha fatto ricordare i precedenti dei sommi toscani Beato Angelico e Piero della Francesca.
Paolo Radi
Testo di Agostino Bonalumi
Testo di Agostino Bonalumi.
Nel trattato della pittura Leonardo consiglia il pittore a non definire i contorni, a sfumare, così che il riguardante vedrà lui la linea conveniente al disegno delle cose. Per Paolo Radi, è egli stesso che ce lo dice, le cose stanno sospese in un limbo dove ancora non hanno e nemmeno avranno forma, o l’hanno avuta un tempo. Spazio e tempo dunque, dove quasi anemia consuma, l’una nell’altra, ombra e luce nel sentimento, più che nell’annuncio dell’appena accaduto; forse dell’appena prossimo accadere. Capita, nel gran pitturare di troppa arte di oggi, nella precipitazione del gusto ad un pittoricismo più o meno materico, anche quando fosse scultura, o fossero operazioni altrimenti definite, capita dicevo, che tra progetto e materiali impiegati, finanche tra il progetto e il linguaggio che si vorrebbe lo esprima, rimanga distinzione, separazione, incongruità insomma. Non così nell’opera di Paolo Radi, dove nella rigorosa esattezza linguistica l’espressione consuma in sé le apparenze dei materiali impiegati, così come il procedimento, pur nella loro evidenza ad una attenzione che si fermi al manufatto, ovvero a ciò che è supporto all’indicibile che l’arte dice.
A. Bonalumi
Testo pubblicato dalla Galleria d’Arte Marchetti nel catalogo “Corporeo silenzio” in occasione della mostra “La luce dei corpi sottili” del 2005. (ed. Il Bulino Roma).
Paola Pezzi
Paola Pezzi
Per riflettere sulla ricerca di Paola Pezzi, più che di materia, sarebbe necessario parlare di materie o, meglio ancora, di materiali: le serie diverse di opere, che nel tempo hanno rafforzato quel suo caratteristico immaginario e la sua inconfondibile e semplice interpretazione formale delle "sostanze" usate, per dichiararsi nella visione dell'opera, infatti, si sono sempre composte di materiali comuni che, nella maggioranza dei casi, sono stati "trattati" da lei secondo una minima e leggera alterazione. Per mezzo della sedimentazione, dell'accumulazione e dell'organizzazione successive, regolate e studiate in ogni loro equilibrio e minimo scarto compositivo, Pezzi ha potuto cogliere e fissare un'energia e una mobilità immaginativa capaci di far trasferire l'oggettualità, compiuta e partecipata nell'esperienza reale dell'oggetto-opera, ad una sua nuova dichiarazione poetica. La concretezza delle cose sbiadisce i propri contorni, per introdurre altre categorie di giudizio e valutazione. Carte, feltri, sugheri, matite, stoffe, legni … si traducono in un nuovo linguaggio che porta le loro essenze ad innescare le proprietà intrinseche del loro stato attraverso la semplicità di una composizione-componimento che pare fiorire, fluttuare, emergere, zampillare, ondeggiare, svolazzare, germogliare… Insomma, nella moltiplicazione della Natura ne fissa i canoni della sua atavica bellezza, e, in questo modo, si dichiara alla vita. Particolarmente significativa ed interessante, da questo punto di vista, è l'opera Natura armata, in cui rami affioranti da una dispersione ambientale terminano, all'estremità superiore, con la forma di matite appuntite e ben temperate. La mina rossa messa in evidenza, pare contraddire il contenuto espresso dal titolo, enunciando una passionalità sentimentale plausibile ed ipotetica. Quelle esposte, invece, presentano una mina metallica, pronta a ferire per difendersi e proteggersi, mostrando, in questa versione, come la sensibilità di pezzi riesca a connettersi, metaforicamente e con garbo, senza banalità o superficialità, alla realtà del momento.
Pezzi non si limita ad organizzare solo le sostanze, ma le ascolta, le asseconda, le esplora, le analizza, l'interroga e, forse, persino la provoca, fino a interpretare, come un'abile regista, la proprietà stessa della materia per renderla consona ad un senso altro che ha l'urgenza di doversi manifestare: attesa e svolgimento riportano i suoi interventi ad uno stadio diveniente e progressivo, mai allineato con le posizioni di una compiutezza ultimativa o esclusiva, che, per quanto solida e concreta, rigenera la complessità, variabile e libera, dell'essenza esclusiva delle cose. Tra novità e citazione, tra riuso e creazione, tra figura e simbolo, la pittoricità e il segno - elementi cui ricorre dialetticamente l'artista - inducono la scultura ad evolvere dal suo preciso esercizio formale della dimensione strettamente fisica - che ribadisce sempre e comunque la profondità del proprio apporto - ad un superiore grado di lettura intellettuale. Il confronto con sensorialità differenti, con memorie e vissuti diversi, permette a Paola Pezzi di incontrare il favore visivo dell'altro, il cui sguardo segue le tracce, da lei riunite, per acuire quell'attraversamento, emotivo ed emozionale, che dagli strati della materialità si radica in quelli complessi dell'animo.
Turi Simeti Ipotesi di perfezione
Turi Simeti - Ipotesi di perfezione
Turi Timeti: Ipotesi di perfezione. Testo critico a cura di Alberto Rigoni.
C'è un'opera, in questa mostra di legnago, che Turi Simeti ha realizzato accettando una sfida che Giorgio Ferrarin gli lanciò quando per la prima volta andò a trovarlo nel suo studio di Milano: creare un lavoro dedicato al 150° anniversario dell'Unità d'Italia che proprio in questo 2011 ricorre. Nell'accogliere l’inedita richiesta, di respiro più simile a quello di una committenza pubblica, Simeti ha pensato a un trittico, formato da tre tele quadrate di 80 cm di lato, e all'interno di ciascuna ha allineato cinque ovali, per un totale di quindici ovali, quasi che ognuno rappresentasse un decennio della storia del nostro Paese. Ciascuna tela porta uno dei tre colori della bandiera nazionale. Ma Turi Simeti non è artista che segue le indicazioni del committente, del collezionista o del gallerista di turno senza apporvi la firma della propria individuaiità. Così il lavoro viene strutturato in modo che, secondo il senso di lettura occidentale da sinistra a destra, il rosso e il verde si trovino in posizioni invertite: a precisa domanda, l'autore risponde che il verde a sinistra creerebbe una polarità troppo assorbente per la luce, mentre il rosso la restituisce subito al bianco ed entrambi allo stesso verde, che in questa disposizione trae giovamento dal duplice "rimbalzo". Di più: una delle parti del trittico - quella rossa - esisteva già prima della visita di Ferrarin a Simeti che ha dato origine a questo Incontro d'Arte. Da queste due "licenze poetiche" che Simeti s'è preso, già molto si capisce di lui. Sa ribaltare uno spunto non per il puro gusto del bastian contrario, ma seguendo una logica compositiva impeccabile, grazie a un'intuizione allenata e coerente e alla padronanza del proprio linguaggio. Sa inoltre non chiudersi in sèstesso, come capita a molti suoi colleghi una volta che la propria bibliografia raggiunge una ragguardevole lunghezza, bensì accettare gli stimoli che il mondo gli lancia, come la proposta dell'appassionato Ferrarin ma per creare del nuovo, inizia da un'opera già realizzata in un'altra occasione, non dimentica cioè il suo lavoro passato, anzi lo ricomprende e lo riconsidera tutto in quello che si accinge a pensare, da lì parte e - come tenterà di spiegare questo testo - lì, alla fine, riapproda. Rosso, bianco e verde, l'opera in questione, ben ci introduce Turi Simeti, E a pensare che, dei centocinquant'anni che essa vuole omaggiare, ben cinquanta (un terzo!) sono stati teatro dell'avventura umana e artistica del maestro siciliano, non resta che addentrarvisi senza porre in mezzo ulteriore tempo e ulteriori parole.
Ovale come misura del mondo.
Di rado si riscontra, nell'analizzare l'intero percorso di un artista, la precocità di Turi Simeti nel trovare la propria cifra espressiva: i primi ovali compaiono nel 1961, in forma di carte bruciate e assemblate in collage, e già l'anno seguente ritagliati in cartoni allineati e incollati su tela. Ancor più di rado si riscontra la tenacia e la puntigliosità con cui egli ha utilizzato questa cifra e ne ha fatto non solo il proprio modo di rapportarsi col mondo, ma anche un meccanismo proprio, da smontare e rimontare ogni volta, quasi per capire cosa ci sia davvero sotto la semplicità di questa forma, per scovarne potenzialità espressive sempre nuove. Con l'ovale Simeti ha fatto tutto: dai collage iniziali ispirati ad Alberto Burri a superfici tra il programmato e l'optical, dalle opere neo o post-spazialiste che lo hanno fatto avvicinare a Lucio Fontana alle estroflessioni protagoniste in questa mostra, dalle sculture con cui intervalla il lavoro su tela ai progetti architettonici per piazze e rondò. L'ovale è per lui unità di misura del mondo, vero geometria. Con la sua semplice enigmaticità, esso è al contempo forma e contenuto, grammatica e testo, modulo che regola e aziona non soltanto una superficie colorata ma anche molto di quanto ci circonda. Immancabilmente, a proposito della valenza di questa forma, si citano Piero della Francesca e la sua Sacra Conversazione, la pala di Brera al cui centro architettonico e in asse con la Madonna e il Bambino è posto un uovo. Ma l'uovo e l'ellisse (quella di Simeti), benché entrambi appartenenti all'insieme degli ovali, non sono equivalenti, né in campo euclideo, né nel campo delle scienze fisiche e naturali. E soprattutto in campo metafisico la differenza emerge lampante: l'uovo è simbolo della prima azione generatrice, il primo movimento rotatorio che dal Principio primo autosufficiente (la Sfera) fa espandere ciò che poi diventerà la Manifestazione; l'ellisse è invece simbolo e rappresentazione bidimensionale del momento successivo: il Centro si è ormai sdoppiato in due fuochi e la materia primordiale si espande sull'asse maggiore, allargandosi nello spazio e allo stesso tempo creandolo. E' dunque circoscrizione di spazio e spazio stesso, come le traiettorie ellittiche dei pianeti, che disegnano un luogo e allo stesso tempo lo costituiscono comprendendolo nella propria orbita. Turi Simeti adottò un simbolo così carico di valenze non dopo studi libreschi, bensì - come egli stesso sostiene - per «congenialità»: riconobbe l'ovale come sua cifra e materia, intuendone, con l'intuizione che solo un artista possiede, la versatilità e linesaursbslità.
Di forma e di materia.
Trovata presto nell'ovale la propria lingua, Simeti iniziò il suo discorso. La frequentazione, a Roma a fine anni Cinquanta, dello studio di Burri gli suggerì il tema da cui partire: la materia. Dopo i primi collage di stoffe e reti, lavorando con carta e fuoco l'ovale emerse da sé e occupò da solo la scena. Scelto l'ovale (o scelto dall'ovale?), il modo con cui esso si creava presentò al Nostro un primo spunto d'indagine: lavorare sulla sostanza costituente, per verificare se quella forma potesse valicare il confine di una determinata materia e porsi davvero come unità di misura e attrice in uno spazio dato. Oltre alla carta, l’artista di Alcamo sperimentò, con l’avvio degli anni Sessanta, anche cartone, tela e legno, che sagomava non più bruciando ma tagliando e applicando in genere su tela e talvolta su legno. Dapprima fu bianco su bianco, con tutte le valenze di azzeramento e anonimità che quel colore portava con sé proprio in quegli anni, gli anni degli "Achromes" al caolino di Piero Manzoni. La sfera d'azione di Simeti crebbe di un'altra polarità: bianco-nero, che, salvo poche eccezioni, furono gli unici colori da lui usati fino a metà decennio (in mostra figura un esempio di nero su nero, Un ovale nero, 1965). Gli ovali erano ancora disposti in verticale, da soli, in coppia o a creare ordinate file orizzontali e, in seguito, anche verticali. Dalla questione-materia alla questione-colore alla questione-composizione, si capisce come, non appena l'ovale risponde a una sollecitazione, l'artista passi senza posa a una nuova modalità di utilizzo.
Attraverso lo superficie (e parte di essa).
Nel 1965, Turi Simeti era in perfetta sintonia con quanto accadeva attorno o lui. Enzo Mari fece approdare il gruppo Nuova Tendenza, nato qualche anno prima, alla Biennale di Zagabria, e Lucio Fontana ospitò nel suo studio di Milano numerosi artisti sotto il titolo "Zero Avantgarde" (in diretto riferimento alle esperienze coeve dei Gruppo Zero in Europa), che sarebbero stati riproposti in quell'anno nelle gallerie II Punto di Torino e Il Cavallino di Venezia, in entrambe le situazioni trovavano luogo, tra gli altri, "operatori visuali" che lavoravano sul concetto di superficie come spazio solo illusoriamente bidimensionale, nel quale andavano ricercate ulteriori dimensioni e ulteriori letture, come gli stessi Fontana e Burri avevano anticipato. Turi Simeti, infatti, alla metà del decennio aveva aperto un altro livello di possibilità del proprio ovale: studiare la reazione della superficie a questa forma-oggetto che, dopo essere stata incollata o applicata sopra essa, ambiva a penetrarla ed esserne inglobata. Da qui venne anche la definizione di "pittura oggettuale" (tra l'altro titolo di una mostra del 1967), anche se per l'artista siciliano l'interesse non era (e non è) l'oggetto-ovale bensì le vibrazioni cui esso dà ovvio a ogni nuova direzione di ricerca. Fatto sta che l'ovale, da quegli anni in poi, si presentò come compiuta forma, avendo l'artista ormai sublimato e assimilato i problemi della materialità, del colore e della composizione. Il segno diventava tutt'uno con la superficie (risultato cui molti coevi ambivano e che solo alcuni avrebbero raggiunto), tant'è vero che - non ingannino i titoli - da allora nelle didascalie di Simeti comparve la tecnica "acrilico su tela estroflessa" e non più "cartone/tela/gomma/tela su tela". La superficie aveva accolto e accettato l'ovale come parte di sé, quasi riconoscendolo come elemento grammaticale del medesimo linguaggio, prima in rilievo, poi in negativo, poi in estroflessioni più accentuate, comprendenti talvolta parti in negativo, a dimostrazione di una perizia tecnica in costante raffinamento.
Tesa la tela, la tensione continua.
Non ripercorrendo pedissequamente, in questo testo, una cronologia biografica per descrivere l'evoluzione dell'arte di Simeti. vale la pena affrontare adesso una questione che se posta in fondo potrebbe risultare legata solo all'opera sua più recente, o meno importante di quello che in effetti è. In diverse foto dell'artista al lavoro, lo si vede con le mani sopra gli ovali, già inglobati nella tela o ancora in fase di taglio o di sistemazione sul telaio. Non è certo un segreto il procedimento con cui nascono le estroflessioni (per spiegarlo una volta per tutte, lo stesso maestro ha creato, nel 1997, una scultura in bronzo che ha con ironia battezzato ufficiosamente Monumento all'ovale): si inchioda un numero variabile di ovali di legno su assi montati dietro al vero e proprio telaio; la tela viene incollata all'ovale, poi tirata, infine coperta dal colore. E' un procedimento che necessita di un forte coinvolgimento fisico, oltreché di attitudini scultoree e architettoniche. In queste immagini, ma anche a chi visiti l'artista nel suo studio, il legame tattile e sensibile tra l'opera e il suo creatore emerge chiaro: la superficie ha accolto l'ovale ma, benché diventata un unico spazio, non risulta in pace bensì in continua tensione e non smette di attrarre a sé, come una calamita che, dopo aver attratto un primo ferro, non smette di esercitare la propria forza magnetica su quanto la circonda. Ciò spiega anche gli "sconfinamenti" verso altre forme geometriche - quadrato, rettangolo e soprattutto tondo -, preziosi unicum (come il qui presente Quadrato su quadrato, 1972) in cui Simeti mette alla prova questa forza insita nella superficie, reclamando al contempo il proprio status di artista (e uomo) coerente ma libero da feticismi per una determinata forma o un determinato linguaggio. Le sculture (a Legnago ne è esposta una in argento del 2009), o gli oggetti di design (come le lampade o i gioielli) in cui si è cimentato nei decenni sono la conferma sia di questa libertà, sia della volontà di creare uno spazio di tensione, che eserciti il proprio magnetismo appeso alla parete, al centro di una sala o, come si dirà ora, di una piazza.
Ridefinire uno spazio.
Turi Simeti è consapevole della forza di attrazione che le sue opere esercitano su quanto le circonda, perché egli stesso, come detto sopra, ne appare costantemente attratto. Questa qualità, attivata perfezionando attraverso decenni di lavoro il rapporto tra forma e superficie, agisce anche fuori dalle quattro mura della galleria o del museo: nel 1980 collocò a Gibellina una scultura composta da una lastra di travertino delle dimensioni di 250 x 250 x 40 cm dall'interno della quale emerge un ovale. Ma l'osservatore attento non avrà certo dovuto attendere Gibellina per ammettere le potenzialità spaziali delle opere di Simeti: gli sarà forse bastato constatare come già negli anni Sessanta l'artista di Alcamo pensasse e collocasse sul pavimento, in posizione orizzontale, lavori su tela e telaio del tutto simili a quelli appesi a parete (Quadro scultura in tela sagomata bianca, 1968). Proprio per la sua città natale, nel 2007, Simeti pensò inoltre a un'istallazione di tre ovali che arricchisse e completasse il piazzale antistante il Castello dei Conti di Modica, ma ancora più eclatanti sono i progetti (anch'essi poi rimasti sulla carta) per un rondò ad Alessandria e per una piazza sul mare a Mazara del Vallo. Il primo, del 1998, consiste in una grande scultura orizzontale in cemento bianco con tre ovali, la quale, se per gli amministratori avrebbe avuto un'ovvia funzione di regolazione del traffico e di generale abbellimento dell'arredo urbano, presentava con chiarezza la capacità attrattiva, non solo dei veicoli, ma anche di eventuali pedoni che avrebbero potuto fruirla entrandovi e calpestandola. Questa intenzione fu ripresa e perfezionata da Simeti nel progetto per la piazza di Mazara, nel 2007, da dedicare ai marinai scomparsi in mare: la porzione della banchina che più sporge verso il mare venne pensata come una gigantesca (25 x 30 m) scultura in calcestruzzo a cinque ovali; essa avrebbe da un lato ottemperato all'intento della committenza di ricordare i naufraghi, dall'altro avrebbe anche in questo caso calamitato lo spettatore, invitandolo a entrare nell'opera, così come un progetto architettonico di piazza dovrebbe sempre invitarci, e come le tele appese al muro di Turi Simeti ci invitano.
Libertà di luce.
Attraverso le origini degli ovali e l'analisi della loro capacità di lavorare e farsi lavorare dalla luce e di mettere in tensione lo spazio circostante, questo percorso, iniziato dalla simpatica sfida di Giorgio Ferrarin per la mostra di Legnago, alla mostra di Legnago in conclusione ritorna. In quest'occasione sono esposti per lo più lavori recenti (quasi tutti degli anni Duemila), in cui l'ovale appare libero di interpretare la superficie. In realtà, esso è controllato con fermezza dal suo creatore, che lo amministra e lo fa agire secondo la propria volontà e tramite la propria tecnica. Così, a ben guardare, lo spettatore si troverà di fronte a opere distinte tra loro. Un ovale blu del 1985 rappresenta una serie di lavori (caratteristica dei decenni Settanta e Ottanta) in cui un'unica forma di dimensioni ridotte muove una tela verticale da una posizione quasi centrale. Due ovali contrapposti (1994) testimonia l'analisi, approfondita a partire dagli anni Novanta, della capacità di più forme non solo di occupare lo spazio in file ordinate ma anche di dialogare tra loro, "faccia a faccia" in questo caso o anche nei Sei ovali bianchi (1994) e - con un ulteriore scatto compositivo - negli Otto ovali con linea intermedia (2009) e nella Superficie orizzontale blu con sei ovali (2009), oppure in equilibrate polifonie come i sei Tondi con ovali (2001), composizione la cui agile narrazione in una cadenza quasi solenne può suscitare nella mente di chi osserva echi di una classicità da fregio di tempio greco, di cui la terra natale dei Nostro è così ricca. Quest'ultimo polittico e il Dittico rosso (2009) campìonano le sperimentazioni, avviate già negli anni Sessanta, su opere composte da più telai, in cui il numero degli ovali rimane costante (come anche nel già citato e inedito Bianco, rosso e verde) suggerendo una biunivocità del senso di lettura, mentre nel Trittico nero (2001) l'aumentare delle forme indirizza più precisamente, ma sempre con dolcezza, l'occhio dello spettatore. Infine, in Quattro ovali pendenti (2007), Due ovali metallizzati (2009) e Tre ovali neri (2010) al posto della tela è usato il ciré, tessuto che Turi Simeti adopera dagli anni Sessanta. Meno adatto a essere incollato, esso gli aprì da subito un importante filone di ricerca: appoggiandosi ed evidenziando i contorni degli ovali invece di aderirvi per intero, il ciré denotò come la forma era talmente capace di movimenti rotatori sui propri assi, talmente assimilata alla superficie da bastarle, per mettere questa in moto, un bordo o anche un segno - e qui la mente va ai precoci "segni" neri e grigi dei primi anni Settanta, in cui basta un filo di luce e un accenno di traiettoria per dire tutto. Non pago di questa scoperta, nel tempo Simeti ha poi perfezionato le "progressioni", riportandole anche su tela (come i qui presenti Quattro ovali neri in progressione, 2009). L'incidenza della composizione materica della superficie, da cui era partito a fine anni Cinquanta, non è dunque mai calata e nel lungo e circolare percorso artistico sono tornati a più riprese anche i collage, come i Tre ovali marroni applicati del 2007.
Discorso sul silenzio.
In un'intervista del 1988, Turi Simeti dichiarò che nelle sue opere «lo spazio, anzi il silenzio dello spazio proposto, è un'ipotesi di perfezione proiettata al di là dell'opera». Il silenzio è una caratteristica del suo lavoro; in silenzio gli ovali tendono la tela e muovono lo spazio, in silenzio lo spettatore si immerge nei suoi lavori, in silenzio l'artista ha tenacemente percorso la propria strada, senza badare a rumori di disturbo che provenivano dal mondo dell'arte, girando instancabile nazioni e continenti e trovando all'estero prima ancora che in Italia un giusto riconoscimento. Il silenzio fu il movente della performance, solo apparentemente svincolata dal resto della sua carriera, della Galleria La Bertesca di Genova nel 1971 : colpito dall'aliante, velivolo senza motore che percorre lo spazio appoggiandosi sull'aria, Simeti ne trovò e acquistò uno, lo dipinse di blu e in una serata lo distrusse a martellate, per poi rinchiuderne i rottami in dodici bidoni di metallo. Ci sono vari modi di essere coerenti. Per esempio, c'è la coerenza di chi ripete metodicamente la stessa opera, o la coer
Giovanni Frangi Esperimento domestico
Giovanni Frangi - Esperimento domestico
Giovanni Frangi: Esperimento domestico. Testo Critico a cura di Marta Cereda.
Giovanni Frangi non è un videoartista. E non vuole diventarlo. Non intende cedere alle lusinghe del sistema dell'arte contemporanea o togliersi un capriccio. Eppure. Quattro video scorrono lungo il fiume. La parete della galleria viene sfondata, si confonde l'interno con l'esterno, aprendo finestre dove c'è calcestruzzo. Lo spazio espositivo è una barca che costeggia la riva. Un barchino, un gozzo, una lucia. Una di quelle piccole barchette di legno, che non garantiscono protezione alcuna, che danno l'impressione di essere poco più resistenti di quelle di carta che seguono la corrente per poi sparire, diventando di acqua.Eppure. River è sostanzialmente una mostra di pittura. Il soggetto dell'arte di Frangi rimangono i suoi dipinti, anche se sono filtrati attraverso lo sguardo della telecamera. Si fa rivelatore e acquisisce importanza il sottotitolo scelto per la mostra: Esperimento domestico. Un'eccezione rispetto ai suoi titoli, che solitamente non sono chiarificatori, quelli delle singole opere almeno. River è un tentativo di uscire dai confini della tela, da quei centimetri di stoffa che nel corso della sua carriera artistica si sono moltiplicati in metri, occupando intere pareti, nascondendole, diventando – questo all'inizio del suo percorso, in verità – scenografie a teatro e quinte teatrali nei musei.
L'esperimento non è stato, dunque, quello di realizzare un filmato, quanto di oltrepassare i limiti, di non adagiarsi su una tecnica ormai acquisita, di non ripetere soggetti noti, riconoscibili e apprezzati. Di fregarsene delle critiche facili, come già aveva fatto in passato, scivolando lentamente lungo le sue tangenziali, che l'hanno condotto nel tempo verso un percorso in cui – pur lavorando per cicli – non hanno importanza le date dei dipinti, tanto che spesso accosta a produzioni recenti opere datate. Di non accettare la superficialità di chi dice pittura quando vede olio e scultura quando vede marmo. L'ennesimo tentativo. La scelta di utilizzare come mezzo espressivo il video rappresenta, in effetti, l'ultima tappa di un percorso sperimentale intrapreso anni or sono. Non si trattava di un fiume, all'epoca, ma di un bosco. Una foresta fatta di legno e di tessuto, in cui l'orizzonte non esisteva e guardando oltre si vedevano solo altri alberi. Il richiamo della foresta venne allestito nel 1999 nel Refettorio del Palazzo delle Stelline, a Milano. Dalla disposizione dei singoli quadri non dipendeva soltanto l'effetto d'insieme, com'è ovvio e come vale per ogni cosa, ma anche il senso di una storia, del passare del tempo e delle stagioni. I punti di riferimento da tenere presente quando ci si avventura tra gli alberi, se si vuole tornare indietro con facilità, senza rimanere con le caviglie immerse nella neve. Chi frettolosamente si girava verso l'uscita, non aveva capito che Il richiamo della foresta non era solo l'andata. Il verso aveva la stessa importanza del recto. I telai a vista, il legno chiaro senza alcuna maschera. Erano ancora quadri, certo. Ma non erano solo quadri. Giovanni Frangi non è uno scultore. Eppure nel 2000 scelse, con la complicità di Giovanni Agosti, di intitolare una sua personale Sculture. Una mostra per l'estate. Di sculture non ce n'era che una in mostra, Fiordifragola, che ci si sarebbe potuti immaginare un gigantesco stecco bianco e rosa – e attenzione che il ghiaccio non cada – anche se di fronte non si aveva un gelato iperrealista. Un ulteriore tentativo di conquistare una nuova dimensione, di dare la possibilità di ruotare intorno all'opera, anche se questo era già stato reso possibile nel refettorio di corso Magenta, a Milano. L'idea che già allora le tele potessero essere sculture (e viceversa, volendo), pur rimanendo piatte, anzi, con una pittura sempre più liscia, con sempre meno accumuli sulla superficie, trovava conferma nella scelta del titolo, non solo una boutade, e nell'apparente cortocircuito con il contenuto dell'esposizione. Sculture, ma in mostra c'era una sola scultura, allora perché il plurale? Le altre opere erano tutte disegni, nemmeno tele. Fogli di carta colorata. O forse erano anch'essi sculture? Pur acquistando sempre meno profondità fisica, senza l'accumulo di pennellate che rendono il colore aggettante, anzi, procedendo nella via opposta.
Il 2004 fu un anno cardine per la produzione di Giovanni Frangi, si suole ripeterlo. Il momento in cui vinse una sfida, oltrepassando un limite sia fisico sia concettuale. Le scuderie di Villa Panza, a Varese, ospitarono una sua mostra personale, Nobu at Elba. Complici forse le suggestioni provenienti dalla collezione del conte Panza, le potenzialità dell'arte ambientale, l'artista scelse di offrire una sensazione. La pittura non era assente, dominava per dimensioni, con tele di oltre sedici metri di lunghezza, che neanche lo studio di via Spartaco riuscì a ospitare. Sono belle le foto di allora, dei lavori in corso (e il catalogo, sarà un caso, ricorda il raccoglitore con gli appunti per l’assemblaggio dell’Étant Donnés di Marcel Duchamp). Siamo in un grande capannone, spoglio. Un’enorme tela cupa sullo sfondo. Davanti non c'è l'artista, il quadro pare essere già quasi completato. Solo una scala. Strumento e metafora della difficoltà di arrivare a quel punto. Una sensazione, si diceva. Quella dell'imbrunire, accanto a un corso d'acqua, in un bosco. Tronchi anneriti a terra, di gommapiuma, mentre la luce gradualmente diminuisce, in un ciclo continuo di quattordici minuti. La potenza della pittura fu tale da oltrepassare i confini fisici per esprimersi, tale che alla pittura non bastò la pittura stessa. Un'altra fotografia, stesso capannone. Con le prealpi varesine che fanno da sfondo, perché siamo a Casale Litta, ma dall'immagine non è dato saperlo. Ora non ci sono tele nella struttura, c'è solo una scatola – e il suo riflesso in una grossa pozza d'acqua, l'umidità è trasudata ed è penetrata dal pavimento, o forse è piovuto per giorni e il tetto non ha retto. Una scatola di oltre tredici metri di lunghezza. È il View–Master, presentato nel 2006 a Firenze, da Poggiali e Forconi. Suggestionato dai diorami del Museo di storia naturale di Milano e da Étant Donnés di Duchamp–tutto torna–, partendo da quelle stesse sculture in gommapiuma bruciata e annerita che avevano costituito i tronchi d'albero in Nobu at Elba, Giovanni Frangi ha ricostruito Il fondo del mare e Il disgelo, questi i titoli delle due opere. Visto che di esperimenti stiamo parlando, i due View–Master ne sono l'esempio forse più palese, l'adesione puntuale alla definizione di riproduzione artificiale di un fenomeno naturale. Da un lato c'erano meduse, alghe, scogli, immagini sfocate, come viste attraverso il turbinio dell'acqua – che in realtà era cellophane mosso da un ventilatore, ma poco importa –, dall'altro una distesa di ghiacci di gommapiuma sotto un cielo d'argento, con alberi, rami e sassi veri e acqua in vasche di ferro a simulare un ruscello. Non si è detta la cosa più importante: questi scenari si potevano scorgere soltanto attraverso alcuni fori creati sulla superficie della scatola, tre ad altezza adulto, tre per la statura di un bambino. Oggi Il disgelo non esiste più – colpa del buco nell'ozono, forse. Rimane Il fondo del mare, che ha avuto altre occasioni di essere esposto, per fortuna. De Il disgelo si conservano alcune fotografie e la memoria di chi l'ha ideato e di chi l'ha visto. Proprio l'utilizzo del medium fotografico rappresenta un'ulteriore tappa di questo percorso sperimentale. Siamo nel 2007, nello stand della Galleria dello Scudo di Verona a Miart.
Una fiera, dunque il luogo più adatto per proporre il riconoscibile, il già noto. Tutti si aspettavano i paesaggi di Frangi, le tele, magari qualche carta per chi apprezzava l'artista ma voleva spender meno, perché alle fiere si va per vendere e comprare, inutile raccontare altro. Eppure. Racconta Giovanni Agosti: «...non sono mancati i commenti acidi, per quanto a mezza voce: “Cosa sono? Fotografie?”; “Si è messo anche lui a fare le fotografie”; “A chi li venderanno quadri così?”; “E a quei prezzi”; “E poi quei titoli, neanche fossero yacht sul molo di Portofino”; “Eppure era uno che sapeva dipingere”; “Uno dei pochi rimasti”; “Alla fin fine, credo che Agosti gli abbia fatto del male”; “Gli ha montato la testa”; “Come ci sarebbe rimasto suo zio”; “Come ci sarebbe rimasto lo zio?”. Sembrava impossibile, fin dissennato, che un artista che aveva raggiunto una certa posizione attraverso certi modi di lavorare, mutasse così bruscamente registro espressivo, buttasse alle ortiche capitali e competenze acquisite» 1, Sì, erano fotografie. Fotografie emulsionate. Poco importa quali fossero i soggetti (marini, in quel caso, e il titolo Underwater non lasciava spazio all'immaginazione, con il biscione d'acqua Noa Noa che nel corso degli anni è diventato quasi una mascotte, riemergendo, di tanto in tanto, in qualche esposizione in giro per l'Italia), quanto l'affermazione dell'assenza di gerarchia tra le forme artistiche. Non avevano capito nulla di lui, prosegue Agosti. Non sapevano che la pratica fotografica ne accompagna la produzione pittorica, la anticipa, la affianca, la segue. Che nei cieli di Giovanni in gennaio, nel 2009, ci sarebbe stata la migliore espressione della tecnica dell'elaborazione fotografica. Che nel suo studio ci sono scatole e scatole di fotografie, ben ordinate, scattate nel corso degli anni. Che talvolta qualcuna emerge e la troviamo su una tela, oppure inserita in una sequenza ed esposta in un tavolo, come quelli da museo di storia naturale – rieccoci – o di archeologia, oppure in uno dei cataloghi delle mostre. Un elemento apparentemente dissonante, che apre un varco. L'antagonismo tra forme espressive non appartiene a Giovanni Frangi. L'essere al di fuori di questa competizione gli permette di scegliere il mezzo a seconda del contenuto, senza attribuirvi maggiore o minore importanza. Lo dimostra il fatto che abbia scelto di dedicarsi anche all'incisione. Pasadena è un ciclo di trenta opere eseguite con la tecnica del carborundum, ossia con la polvere di silicio grazie alla quale la stampa ha un effetto vellutato. L'incisione, un'arte grafica. Tecnica spesso bistrattata e disprezzata, anche se i precedenti illustri non si contano 2, Frangi sperimenta con le tecniche e con i materiali, esplorandone le potenzialità - e i limiti. Lo rende evidente il terreno lunare, fatto di resina poliuretanica e vernici industriali, ideato per MT2425. Siamo nel 2008, a Bergamo, nell'ex oratorio di San Lupo, che durante l'intervento dell'artista diventò ancora più ex, visto che il soffitto si trasformò in un cielo azzurro e il pavimento in una superficie argentata, fatta di crateri, di avvallamenti, di piccoli dossi. Chissà che impressione ne avrebbe avuto Neil Armstrong. Il visitatore non poteva entrare, solo osservare dalle finestre e ascoltare la colonna sonora realizzata registrando lo scorrere dell'acqua di un torrente di Macugnaga e l'abbaiare dei cani. L'anno seguente, nel 2009, sempre a Bergamo, nel palazzo del Credito Bergamasco, il rumore della mostra, invece, si sentiva soltanto grazie ai passi degli spettatori, che calpestavano un tappeto di foglie secche, circondati da una serie di pannelli violacei che creavano Divina – Wallpaper.
L'esplorazione della materia era già cominciata prima della fibra di vetro e delle resine sintetiche, già con le tele e con l'olio che si liquefa gradualmente, con i grumi che si sciolgono e sempre meno colore sul pennello. Con l'evoluzione dalle tonalità che Achille Bonito Oliva aveva definito citando Gauguin e Matisse 3, verso l'utilizzo del Primal AC 33, un'emulsione acrilica poi uscita dal commercio. Nel testo della prima personale milanese, Bonito Oliva, a proposito del colore, si riferisce a una «felice evanescenza, oppure esatta» 4, sostantivo presago dell'inabissamento nel nero di Nobu at Elba, dei bagliori che illuminano il buio di Die nacht e San Lorenzo 5, e della risalita, dell'equilibrio tra pieni e vuoti, dell'uso della tela rovesciata, naturale, a vista, nuda della serie Barbara. È il sottotitolo di River e l'etimologia di esperimento legata al cercare, al «venire in cognizione provando e riprovando» 6, a indicare come questa tendenza alla sperimentazione riveli il bisogno di rispondere a una necessità espressiva, che viene risolta, di volta in volta, con mezzi diversi, con alfabeti creativi che compongono lo stesso messaggio. Senza nessuna presunzione: domestico sottolinea una dimensione privata, intima, lontana dall'esigenza di camuffarsi o imbellettarsi per presentarsi in pubblico. L'artista permette l'accesso alla sua sfera personale, alla sua casa. Si tratta, in fin dei conti, della scelta di un linguaggio. Non di un'evoluzione (o involuzione, a seconda dei punti di vista), ma di una costante, che saltuariamente emerge, si palesa. Un intervallo che interrompe il flusso, la quotidianità, il sentiero tracciato. Quello che in musica potrebbe essere individuato come una pausa, croma, minima o semiminima, di durata diversa a seconda del suo valore all'interno della battuta, della sequenza di note. Uno slittamento che non è mai una forzatura, come dimostrano le infinite corrispondenze, le anticipazioni, i richiami a opere e mostre già presentate, ma che viene naturale, spontaneo – e rieccoci all'attributo domestico.
Giovanni Frangi non è un videoartista. Eppure. Sceglie una porzione di tela, quella al confine tra cielo e acqua, la sezione in cui l'uno si specchia nell'altra e se si capovolgesse il quadro probabilmente non ci si accorgerebbe di guardare il mondo a testa in giù. L'orizzonte dalle ombre che si allungano senza lasciar vedere la fonte di luce che le genera è ancora più ristretto in queste sequenze lentissime, dal movimento, impercettibile. Un taglio frontale, un primo piano un'inquadratura stretta, con la macchina da presa fissa. Sono le tele a muoversi, ma la sensazione è la stessa che si ha su un treno, guardando fuori dal finestrino e non si sa se sia partito il vagone accanto o se si sia ancora fermi in stazione. Giovanni Frangi è il regista, consapevole di doversi affidare a mani più esperte – quelle di Julia Krahn – per dipingere senza pennello. I video sono in realtà uno solo, un flusso costante di colori suddiviso in quattro proiezioni, che impongono un movimento, ancora una volta, nello spettatore, disturbato dalla colonna sonora dissonante di Toru Takemitsu. Non si può perdere nemmeno un istante, lo impedisce la sincronizzazione dei filmati, che rivelano lentamente ciò che seguirà. Senza narrazioni e con lo sforzo necessario per distinguere le forme, le sagome, per ricostruire il contesto da cui sono state estrapolate. D'altra parte Gerhard Richter inserisce i suoi River tra i dipinti astratti.
1 Giovanni Agosti, Giovanni Frangi. Straziante, meravigliosa bellezza del creato. Opere recenti 2005-2011, catalogo della mostra presso Villa Manin, esedra di levante, Passariano di Codroipo, 2011, p. 42. 2 La contaminazione si sarebbe ripetuta anche con il design nel 2010, con i paraventi creati a Bolzano per Ring a Ring o' Roses da Antonella Cattani Contemporary Art. 3 Achille Bonito Oliva, Giovanni Frangi, catalogo della mostra presso Galleria Bergamini, Milano, 1986, s.p. 4 Ibidem. 5 Tutte le tappe di questo percorso sono state riassunte e riallestite in Straziante, meravigliosa bellezza del creato. Opere recenti 2005-2011 a Villa Manin, nel 2011, a cura di Giovanni Agosti. 6 Vocabolario Etimologico Pianigiani, Polaris Edizioni, Firenze, 1993.
Moderna Magna Graecia
Testo di critico a cura di Giorgio Bonomi
La diaspora morbida.
La Sicilia contemporanea ha le sua fondamenta nella Magna Grecia, ma non solo; troppo spesso non si tiene conto di quanto quella terra debba alla cultura araba che, prima delle altre (normanna, spagnola eccetera), ivi si è radicata. Queste culture non sono state episodi “imperialistici” bensì fondativi di quella cultura siciliana che è sempre stata di grandissimo spessore in tutte le sue manifestazioni, dalla pittura alla filosofia, dalla letteratura al teatro, dalla scultura al cinema. In più la Sicilia, sebbene sia un’isola, proprio grazie alle influenze sopra ricordate, ha sempre vissuto fuori dall’isolamento, tipico dei territori staccati dalle piattaforme continentali, arricchendosi invece di contatti, di scambi, di accoglienze e fortificando il suo evolversi nel tempo proprio con il costruire su basi solidissime, un po’ – se mi si passa la metafora – come i palazzi di Catania che si ergono da un sottosuolo lavico, durissimo e fortissimo. Eppure molti degli artisti lì nati per lo più hanno dovuto subire quella “morbida diaspora dalla Sicilia”1. Non è un caso se è Milano la città metropolitana che solitamente gli artisti siciliani scelgono come nuova patria – da Verga a Vittorini, a Quasimodo e a molti artisti di cui qui si parla – pur senza rinnegare quella di origine cui, con mille fili anche sotterranei, restano legati nonostante il loro percorso completamente “internazionalizzato”, nel senso non solo del riconoscimento del loro valore in Europa ed Oltreoceano, ma anche in quello per cui l’arte, al di là di ogni possibile genius loci, è tale solo se riconoscibile e valida in ogni tempo e in ogni luogo. È stato giustamente affermato che “restare in Sicilia è la consapevolezza dell’isolamento volontario riferito al grosso problema della distanza geografica. Inoltre per controparte è la posizione di totale indifferenza di un popolo ancora rimbecillito e schiavo tradizionalmente della propria sicilianità e indifferente al mondo, neppure sospettato, che già da tempo vive negando tutto il passato. [… Allora molti giovani] reagiscono con una fuga più responsabile «(rivelatrice come sempre di una situazione)»2. Se i più anziani dei nostri artisti, Carla Accardi, Pietro Consagra e Antonio Sanfilippo si “fermano” a Roma, e qui sarà anche Turi Simeti che poi si trasferirà a Milano, dove da giovani erano venuti Paolo Scirpa, Pino Pinelli, Emilio Isgrò, e arrivarono poi anche Ignazio Moncada dopo aver girato per l’Europa e l’Italia e lo stesso Consagra; Elio Marchegiani invece, nel suo “nomadismo”, non ha mai vissuto nella città meneghina anche se qui ha esposto numerose volte. Senza forzature, mi pare che possiamo elencare tre elementi che stanno alla base dell’opera dei nostri artisti i quali, ovviamente ognuno con la sua poetica, la sua tecnica e il suo stile, rendono il loro accostamento non un mero fatto contingente: infatti questi artisti, tutti connotati da un’espressione concettuale ed astratta, esprimono un forte senso della spazialità e dell’analiticità, ed usano un segno particolare, l’arabesco. Ebbene, alla ricerca delle origini, non posso non sottolineare il senso particolare dello spazio che la cultura e l’architettura greche hanno prodotto: dall’agorà, al teatro, al tempio; e nemmeno posso tacere il fatto che la cultura greca, la sua scienza e la sua filosofia, riprese e/o sviluppate da quelle arabe, si siano molto concentrate sull’analiticità – “analitici” si chiamano due parti dell’Organon di Aristotele, “analisi” è anche quella “matematica” eccetera –; infine rammento che l’arabesco, come dice il nome stesso, è di origine araba. Ogni uomo porta impresso nel suo deposito visivo tutto ciò che, consciamente o inconsciamente, ha veduto o semplicemente percepito, così gli artisti, per esempio, americani hanno nelle loro radici un’idea di spazio immenso come sono i loro territori oppure Raffaello aveva nel suo patrimonio di immagini le colline umbro-marchigiane, quindi nulla di più naturale che i nostri artisti abbiano introiettato quegli spazi siciliani a volte “desertici” ma soprattutto caratterizzati da una continua “inondazione” di luce, per cui si potrebbe dire che in Sicilia a creare lo spazio è soprattutto la luce, e non solo quella solare ma anche quella che riverbera dal mare, dalle spiagge, dai “giardini” (agrumeti) e da tanti altri fattori. Ed ancora, sembra quasi che le opere di questi artisti “assorbano” profondamente la luce che poi è modulata nelle varie cromie, plurime o singole, più che “emettano” luce, con l’eccezione di Scirpa nei cui lavori la luminosità è “materiale”, dato che l’artista lavora con i neon; mentre nelle opere di Accardi, Consagra e Sanfilippo troviamo un gioco di chiari e di scuri già nelle declinazioni dei segni e delle forme, ma anche, nei lavori successivi dell’Accardi, con le trasparenze (sicofoil); così Isgrò trova una spazialità “lineare” con la “cancellatura” che provoca anche un ritmo di luce e di buio, e Simeti con le sue estroflessioni costruisce, al di qua della tela, spazialità e ombre che dialogano con la monocromia della superficie. Anche Marchegiani nelle sue “grammature di colore” realizza costruzioni “primarie”, una sorta di pareti intonacate, impreziosite dagli slittamenti di colore sempre delicati e, direi, lirici. Infine, in Moncada lo spazio è quello delle superfici su cui accadono gli eventi riccamente cromatici – verrebbe da dire: come i colori intensi e plurimi della Sicilia –; in Pinelli invece la spazialità è più complessa, realizzandosi con una “collaborazione” imprescindibile con il muro su cui si “disseminano” le masse di colore, come se fossero “esplose” da un quadro intero, compatto. Si tratta di una disseminazione mai caotica ma sempre articolata ora geometricamente ora con allestimenti più elaborati – e, a questo proposito, non dimentichiamo anche quell’altra grandissima sedimentazione storico-culturale della Sicilia, il Barocco; un Barocco certamente ricco e suntuoso ma mai ridondante come quello, ad esempio, romano. Se poi consideriamo la seconda categoria che mi pare caratterizzi i Nostri, vediamo come l’analisi sia un altro elemento comune. Nei più “anziani” – Accardi, Consagra, Sanfilippo – appare come sia forte la ricerca di un segno alfabetico nuovo che va a costruire una sorta di “immagine” in cui le “lettere” si aggrumano, si dividono, si scandiscono ritmicamente; mentre Isgrò fa un’operazione inversa cioè cancella le parole, sovrapponendo il codice artistico/visivo su quello verbale. Moncada, che guarda al Giacomo Balla divisionista/futurista, più che la luce ama analizzare e rappresentare, con un codice astratto, il “movimento”, vuoi del “vento” vuoi della “danza”. Scirpa, invece, crea degli assemblaggi percettivi, delle accumulazioni di segni, tutti realizzati con neon colorati, quasi a ridurre dei solidi in elementi di geometria piana – come ad evidenziare le linee perimetrali delle loro superfici – che poi, riassemblati, creano a loro volta l’immagine, lo “scheletro” di un cubo, di un parallelepipedo o, addirittura, di una specie di “tunnel” infinito. Con Marchegiani e, ancor di più, con Pinelli siamo nella vera e propria “arte analitica”, quella affermatasi negli anni ’70 con le teorizzazioni di vari critici dei quali, senza dubbio, il primo e il più accreditato fu Filiberto Menna. Il primo, con le “grammature di colore”, già nelle titolazioni evidenziava un elemento di analisi (“gramma” in greco antico era la “lettera” dell’alfabeto, la scrittura) e con le “gomme” costruiva sulla parete elementari strutture, a scacchiera, a file parallele di rettangoli e così via, entrando nella corrente della Pittura Analitica in modo, direi, tangenziale. Pinelli è stato, e lo ha sempre rivendicato, “pittore analitico” con una sua caratteristica personalissima e originale: la disseminazione3, per la quale elementi geometrici o, in certi periodi, scaglie frattali tridimensionali vanno a collocarsi, a disseminarsi, sulla parete, sempre con un ordine che è logico ed estetico al contempo. Infine l’arabesco che, come dice Friedrich Schlegel, “è la forma più antica e originaria della fantasia umana”4, è già presente nell’arte degli Sciti nel II Millennio a. C. e lo troviamo poi in tutti i tempi e in tutti i luoghi come segno riconoscibile, ma anche come “forma originaria perché contiene ogni forma possibile”5. Orbene, se i segni dell’Accardi e di Sanfilippo, o le sculture e i disegni di Consagra, oppure le disseminazioni di Pinelli hanno nella loro stessa struttura un nesso evidente con l’arabesco; in Isgrò lo possiamo rintracciare quando l’immagine da cancellare ha una certa forma, come le mappe delle stelle (1970) o un planetario (2008), o quando cancella con le “formiche” (2009); in Simeti lo scorgiamo nei movimenti delle estroflessioni dei suoi elementi rotondi, mentre in Scirpa nelle spirali di luci al neon; ed anche l’“astratto” Moncada dal 1989 arricchisce le sue composizioni non solo di colori ma anche di segni che sono dei veri e propri “arabeschi”. Infine è da dire che Marchegiani è forse l’artista, tra quelli di cui stiamo parlando, che meno si è servito di questo segno, se non in parte nelle opere giovanili degli anni ’50 e ’60. Dunque, in conclusione, possiamo parlare di “sicilianità” nel lavoro dei nostri artisti? Certamente no, se con questa parola indichiamo un “localismo” vernacolare, superato non solo dalla globalizzazione degli ultimi decenni, ma già nei secoli precedenti dalla cultura “vera”, se la cultura greca, quella araba, la normanna e, poi, quella italiana hanno offerto all’umanità prodotti che reggono ogni confronto con lo spazio e con il tempo. Pur tuttavia, come qualche cosa degli avi si conserva nel codice genetico di ogni essere vivente, così anche gli artisti, e naturalmente anche quelli di cui qui si parla, mantengono sempre nel loro linguaggio, che certamente attraversa gli anni e i territori, qualcosa del loro primo patrimonio visivo, delle loro origini storiche e culturali, dell’atmosfera che li ha accolti, dal primo vagito alla loro “dolce diaspora”.
1Achille Bonito Oliva, Il sublime inquieto, in I percorsi del sublime, catalogo della mostra, Palermo, Parco di Palazzo d'Orléans e Albergo delle Povere, 15 maggio – 15 luglio 1098, Edizioni Mazzotta, Milano 1998, p. 11. 2Nicolò D'Alessandro, Situazioni della pittura in Sicilia (1940/1970), Celebes Editore, Trapani, 1975, p. 74. 3Su questo argomento, mi permetto di rinviare al mio La disseminazione. Esplosione, frammentazione e dislocazione nell'arte contemporanea, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2009 e di ricordare che “disseminazione” nel greco antico ha la stessa derivazione di “diaspora” (dal verbo “diasperéin” = “disseminare”), entrambi concetti che, non a caso, si addicono a Pinelli. 4F. Schlegel, Dialogo sulla poesia, ed. or.. 1800, in F. Schlegel, Frammenti critici e scritti estetici, tr. it. Vittorio Santoli, ed. Sansoni, Firenze 1967, p. 198. 5Franco Rella, Limina, ed. Feltrinelli, Milano 1987, p. 21.
Giuseppe Spagnulo
Giuseppe Spagnulo
La scultura di Giuseppe Spagnulo denuncia immediatamente la sua consistente e faticosa esperienza vissuta con la materia: la monumentalità grezza, la tattilità pura, senza compromessi o eccessivi e leziosi virtuosismi, e la vibrazione impetuosa delle sue superfici ci raccontano di un lavoro intenso, espressione di un duro confronto con l'azione della mano che si sforza di ottenere e interpretare, non senza qualche impegnativo sacrificio, il desiderio del pensiero. Carezza le idee, sfiora le suggestioni dell'animo, facendo sempre prima pulsare le membra delle opere; il corpo presente e reale della scultura, infatti, deve precedere ogni atto mentale, lasciando subordinato al dopo ogni riflessione e ipotesi teorica. Lo scultore ha un lavoro peculiare, differente da quello del semplice artista, di questo ne è assolutamente consapevole Spagnulo, perché sa che la sua missione è il rapporto schietto con la materia, deve conquistarla sapendo, di certo, di non riuscire mai a domarne fino in fondo lo spirito e la forza.
Spagnulo è, allora, la risposta evidente, potente e struggente, di quanto più tradizionale ci si aspetta dal lavoro di uno scultore: eppure, l'esegesi del suo esercizio scultoreo ci consegna la sensibilità di un autore che sa concentrarsi sulla vitalità espressiva delle sue forme semplici senza abbandonare mai all'artificio sterile le virtù della nuova forma con cui si traducono i materiali. Questi sanno farsi corpo vivo e presente, riscoprendo il valore e il peso di una scrittura formale che non ha mai nascosto, in lui, la propria fecondità espressiva, incisa nella concretezza piena del materiale che, partendo dalla terra e arrivando al metallo, ha consegnato al nostro sguardo il repertorio sempre differente, ma iconicamente definito, del suo racconto.
Le forme quasi primordiali di Spagnulo, pesantemente presenti per lo sguardo e concretamente incidenti sullo spazio ambientale, si vivono attraverso la sobria eleganza e la liricità rude di un pensatore il cui genio folle ha voluto seguire, senza mai rinunciarvi, la propria vocazione e dedizione nei confronti della sostanza vera del suo agire. Le sue opere si vivono, si toccano, pesano, sono ingombranti: predicano una bellezza non immaginata, ma colta dentro le forme, definita e compresa nella loro fisicità evidente. La bellezza che ne ricaviamo è quanto di più umano possiamo pensare; distante da forme di spiritualità trascendenti, il linguaggio scultoreo di Spagnulo mette radici nel mondo, si traduce dalle sue sostanze primordiali, si abilita nel tempo dell'esperienza della vita dell'uomo e in questa circoscrive lo spazio dei suoi confini.
Questo senso del limite si denuncia, spesso, in lui, anche attraverso il coraggioso atto di lasciare apparentemente incompiute le opere: ci sono i segni delle dita, i tagli grezzi di strumenti meccanici, le crepe, le spaccature, le fenditure, i residui di lavorazioni, le ossidazioni, il segno del fuoco, l'eterno creatore. Ci sono tutte quelle tracce, svelte e veloci, che riportano l'opera non all'imperizia dell'anima, ma alla consapevolezza del limite del tempo umano e alla necessaria rapidità con cui cerca di lasciare l'impronta della propria esperienza di vita. Un lavoro fugge dietro all'altro, consegnando all'ultima testimonianza sempre l'esito migliore, certo che quello successivo verrà superato da un altro nuovo da venire. Sfugge alla logica la gestualità di Spagnulo e conquista uno speciale sapore romantico proprio nell'essenza spregiudicata del suo equilibrio tra quanto è compiuto e quanto accennato, tra quanto è intuito e quanto è dichiarato.
La fatica e il peso di un lavoro, che traduceva in lui l'ansia feconda di produrre cambiamenti nella realtà, deve essere inteso come un esercizio di rischio continuo, di lotta per assecondare al proprio volere l'energia senza tempo della materia. In questa contesa, tra azione e pensiero, c'è la visione rivolta al Sublime che sa riflettersi nella sua scultura. Una scultura semplice e schietta, che respira e vive delle sue memorie, radici e origini, cercando le ragioni per imprimere alla scultura una nuova vitalità in un presente che spesso si distrae dalla ridondanza seducente dell'effimere.
La sua opera diventa insegnamento e ci parla di solidità, di certezze, di tradizione resa sempre attualità.
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