Testo di: Marco Casentini - Sogno, canto, amore

Marco Casentini.
Sogno, canto, amore

Davanti a me il tavolo è tutto cosparso di libri e cataloghi di Marco Casentini. Alcuni aperti, di altri si vedono solo le copertine. È la consueta fase di avvicnimento, di familiarizzazione, di studio, di annotazioni prima di attaccare con la scrittura. Ma questa volta mi accorgo di un fenomeno insolito. Chi passa – figli, qualche amico, amici dei figli - si ferma, allunga lo sguardo, e volte anche le mani. Chiede se può sfogliare, incuriosito. Mi domando che cosa in particolare susciti questo interesse, quale molla facciano scattare le opere di Casentini riprodotte e sparse disordinatamente davanti a me. I cataloghi di Marco sono sempre ben curati, hanno copertine molto attrattive e tante volte anche giocose. Spiccano per colori decisi, ma mai spinti ad oltranza: gli spezzoni di immagini che si intravvedono pur nell’energia intensa, salvaguardano sempre un equilibrio, un’armonia nella differenza. C’è un altro aspetto che noto. Sono libri che vien voglia di toccare, prima ancora che di sfogliare; di tenere tra le mani quasi che la consistenza dei colori e delle geometrie avesse anche una dimensione tattile.
Mi perdonerà Marco Casentini se prendo pretesto da una constatazione così terra terra per sviluppare un percorso sulle sue opere alla rovescia. Parto cioè dal tentare di decodificare il modo con cui vengono percepite per risalire poi ad un discorso critico. Ecco allora che dalle mie annotazioni, tra riferimenti storici, parallelismi, sottolineature stilistiche, mi trovo a stralciare tre parole che non appartengono propriamente al lessico critico. Tre parole che sono scivolate dentro gli appunti con molta naturalezza senza che mi saltasse all’occhio una loro eventuale non pertinenza al discorso. Non sono parole arbitrarie, perché tutte incontrabili, in particolare nelle interviste, genere che Casentini ama e in cui dimostra di trovarsi a suo agio (il riferimento è in particolare al bellissimo Talking, volume realizzato con Leonardo Conti). Questo a dimostrazione di come per lui l’arte sia un’azione fatta sempre alla luce del sole e quindi tutta decifrabile attraverso una narrazione.
“Sogno”, “canto” e “amore”. Sono queste le tre parole “straniere” da cui prendo avvio.
“Sogno” la trovo in Talking, pagina 40. Dice Casentini: «Scusami se lo ripeto. Fare l’artista non è un mestiere, è credere a un sogno, siamo dei custodi di sogni. Magari questo potrà servire a qualcuno…». Qual è il sogno? Quali sono questi sogni? Una prima risposta, abbastanza letterale ed esplicita, la si trova nelle opere degli inizi. Anno 1984, Casentini dipinge composizioni a pastello e olio su carta intelata, in cui prime geometrie molto fluide, lasciano spazio a profili tondeggianti dipinti con terre bianche. A volte questo spazio prende la forma di un dettaglio di corpo umano (l’ispirazione discende dall’osservazione dei tronconi di corpi della Danza Barnes di Matisse). Se intorno, il nero, o le terre scure e agitate, evocano la notte, il biancore è di necessità la forma inafferrabile e lattiginosa di un sogno. Ma Casentini che a questo punto avrebbe potuto addentrarsi ad esempio nei fascinosi territori ironici e ambigui di un Gino De Dominicis - col quale sembra di poter cogliere affinità di soluzioni formali -, in realtà scarta immediatamente nel segno di una chiarezza e di una trasparenza compositiva. Balza cioé fuori dall’ipotesi di un gioco introspettivo, e inizia a cercare subito ritmo e ordine. Il labile incantesimo di un sogno perduto, titolo della prima opera in mostra (1984), suona presto come un falso annuncio. Il sogno per Casentini – quindi ciò che gli assegna identità d’artista – poco alla volta diventa qualcosa con cui prendere sempre più confidenza. È un ignoto che all’inizio si intrufola con ombre, con slittamenti di luce e di striature nelle aree color terra, ma che poco alla volta esce allo scoperto accettando l’ordine trasparente delle griglie. Il sogno è un orizzonte con il quale Casentini interagisce con progressiva familiarità, documentata dal moltiplicarsi numerico delle forme all’interno delle sue opere. Man mano che il percorso avanza, il meccanismo compositivo si fa sempre più complesso e ardito, senza che si percepisca la crescita del tasso di complicazione. Anzi in opere come Inside the Border (2012), si ha la sensazione di una straordinaria, fortunata facilità. Come se l’opera avvicinandosi alla frontiera del sogno desse sempre più l’impressione di scaturire da sé. Pur risucchiato nella complessità del montaggio delle sue opere, Casentini ogni volta infatti riemerge con una semplicità e chiarezza di sintesi. In questo si scorge un debito, molto felice, nei confronti di un grande della pittura americana, oggi in piena e sacrosanta rivalutazione, Richard Diebenkorn. È Diebenkorn a risolvere i dilemmi in cui era rimasto intrappolato l’espressionismo astratto americano, raccordando astrazione e visioni reali; orizzonti mentali e orizzonti fisici; rigore dell’ordine e libertà delle sensazioni. È con Diebenkorn che le suggestioni dei paesaggi della California e di Los Angeles in particolare - suggestioni decisive nella storia di Casentini, sin dal suo primo viaggio americano - si liberano dal mantra a volte raggelante del minimalismo. Così è guardando Diebenkorn che Casentini trova la certezza che quello del sogno è un orizzonte terso, di una luminosità intensa ma addomesticabile.
Già, ma qual è questo sogno? Evidentemente è improprio pensare di circoscriverlo. Quello che Casentini con il suo lavoro documenta, è che il sogno c’è. Esiste. È pane quotidiano del suo lavoro, nel senso che è la leva che ogni mattina gli fa aprire le finestre dello studio e lo spinge all’opera. Eppure qualche connotato del sogno siamo anche in grado di conoscerlo. Ce lo può suggerire la seconda parola del mio lessico “improprio”: “canto”. Questa volta non è Casentini a evocarla, ma un altro artista certamente di riferimento per la formazione di Casentini stesso, Mario Radice. ´(Si dà caso che una delle opere più preziose dell’artista comasco sia custodita proprio al Camec di La Spezia, città natale di Casentini: è la Composizione Q. ros. 3, un piccolo affresco su masonite del 1964, arrivato al museo da una donazione di Michele Cozzani. Nel titolo “Q” sta per quadrato, e “ros. 3” sta per il numero di rossi usati: evidentemente una matrice da cui si è generato, quasi per sviluppo naturale, il bellissimo Landscape in red (2011), dove la rudezza della masonite ha fatto largo allo slancio luminoso del perspex e dell’acrilico). Diceva Mario Radice in una conversazione: «La pittura non dev’essere un’interpretazione fotografica della realtà, ma un “canto”… Io non so adoperare nessun’altra parola che questa: un “canto”, e basta». E poi ancora: «Il pittore diabolicamente chiamato astrattista intende raffigurare angeli e fiori montagne e avvenimenti nella loro materialità vivente, esprimerli, sviscerarli, cantarli…». C’è in effetti una musicalità intrinseca nell’opera di Casentini, nel ritmo jazzistico con cui distribuisce le sue geometrie. Una musicalità fatta di continui e anche arditi contrappunti, come accade nei suoi perspex dipinti anche da dietro, quasi si trattasse di una melodia sottoposta alla melodia principale. Jazz ovviamente rimanda a Matisse. A prososito del quale è d’obbligo ricordare un aneddoto relativo al cantiere di Vence. Quando gli chiesero perché, dopo aver progettato ogni minimo dettaglio, non avesse previsto un organo, Matisse rispose che di musica nella cappella ce n’era già più che a sufficienza: era quella che scaturiva dalle sue vetrate e dalle sue grandi composizioni tracciate sulle piastrelle. Per Casentini può valere lo stesso ragionamento. L’andamento della sua pittura obbedisce ad una musicalità che a ben vedere non è esito di un processo di sublimazione. È una musicalità che va in progressione, che alza i ritmi e i toni, toccando una pienezza, una densità a volte anche una ridondanza che è propria della voce umana. È una densità che ha a che vedere con quello che Demetrio Paparoni ha detto essere l’astrazione di Casentini: un’astrazione che «ha una natura figurativa». Affermazione che trova tante conferme nelle stesse parole di Casentini (quando chiarisce che i quadri neri si riferiscono alla notte mentre quelli bianchi al giorno; oppure quando dice: «Le mie opere traggono origine dagli spazi urbani»; o ancora: «alcuni accostamenti di colori, o gli spunti che mi spingono a dipingere certi quadri, mi giungono dalle vetrine dei negozi, dalle tonalità dei costumi da bagno…»). L’astrazione di Casentini è come uno spartito su cui vengano trascritte visioni e suggestioni che hanno sempre origine reale e non mentale (l’immagine dello spartito è suggerita da quella serie di opere, concentrate principalmente nel 2009, che sembrano far proprie le geometrie lineari delle partiture musicali). Ma la corporeità del canto nella pittura di Casentini è anche l’esito di innesti coraggiosi di materiali, come i quadrati di tela dipinti ad acrilico sulla superficie del perspex. Ed è ancor più esplicita in quelle opere in cui campeggiano lettere cubitali (come Same place same feeling, 2012), che attendono solo il “la” di un’orchestra per diventare anche voce.
A questo punto la terza parola non ha più bisogno di giustificazioni, perché è evidentemente nell’ordine delle cose. “Amore” è fattore sempre implicito, a volte anche esplicito. La pittura di Casentini si genera sempre da un’attrattiva; attrattiva per Los Angeles, per Milano, per il mare, per le persone, a iniziare dai figli (quanto sono pieni di felicità e di affetto le situazioni ricavate dallo sguardo sui suoi due figli!); attrattiva per tante situazioni di luce, per lo spazio, per le architetture anche casualmente intercettate. Tutto questo diventa movente per la pittura, senza obbedire a nessuna particolare categorizzazione estetica, perché il movente può essere Las Vegas («con la sua impronta pop rimane una delle mie preferite»), o un suo opposto, come il paesino della Liguria («il più bel posto del mondo»); la vivacità coloristica urbana del Messico, o il panorama geometricamente squadrato e monocromatico che si vede dalla finestra del condominio milanese. Ma possono accadere anche traslitterazioni imprevedibili, com’è il caso delle minime differenze di odori e di colori tra le zone di Los Angeles, messe a paragone con le minime differenze che intercorrono tra un quadro di Morandi e l’altro. L’amore può scattare poi anche per dettagli. «Tu conosci il mio amore per il rosa», racconta Casentini nel dialogo con Leonardo Conti. «Ecco secondo me l’ho assunto frequentando Los Angeles nel corso degli anni». Quel rosa che in questa mostra spicca felice, non a caso, in L.A. storie n. 4 (1995), ma anche in altri quadri di sapore losangelino come Sun House (2003), Have a Nice Day (2006), Beautiful Morning (2007), o Swimming Pool (2011). Proprio il rosa – colore per antonomasia riferibile ad un sentimento d’amore – ci apre la strada per un tentativo di conclusione. Infatti non so quanto rosa effettivamente si colga in un paesaggio urbano come quello della città di quarzo. Probabilmente si tratta di minimi dettagli, di macchie un po’ casuali. Ma il rosa è evidentemente ciò che s’accende nella mente di Casentini una volta che con la pittura deve registrare le sensazioni ricevute (come diceva Matisse, la pittura è documentazione delle sensazioni che l’artista vive davanti alle cose). Il rosa è colore simbolo di una riformulazione teneramente arbitraria del reale, di una discontinuità rispetto a ciò che si ha avuto davanti agli occhi, al punto tale che l’artista è il primo a stupirsi di quel che ha fatto. «L’importante è stupirsi di quel che si fa», dice Casentini. Dato poi che è molto facile amare ciò che ci suscita stupore, ne deriva che per Casentini un quadro è riuscito nel momento in cui scopre di amarlo.
Aggiungo che essendo l’amore un’esperienza espansiva, le opere di Casentini hanno una generosità intrinseca, e si offrono anche come oggetti, con una loro fisicità e tattilità (l’esperienza recente dei Rollercoaster è lo sviluppo di questa natura “solida” della pittura di Casentini). Inoltre le sue opere vivono molto bene quando sono messe in relazione allo spazio in cui sono collocate. Hanno una natura irradiante, al punto da segnare l’aria intorno a loro. A volte mi accorgo che quando le vedo fotografate senza il contesto intorno, mi sembrano monche, orfane di qualcosa che fa parte di loro. La cosa è spiegabile con la mancanza di centralità delle sue composizioni: è pittura “all around”, per citare un titolo molto amato da Casentini. Tutt’intorno. Tutt’intorno anche al mio tavolo dove chi passa non resiste dalla tentazione di mettere le mani, per guardare e per toccare.

Questo sito utilizza i cookie solo a scopo tecnico per migliorare l'esperienza di navigazione degli utenti.

Se non si modificano le impostazioni del browser, l'utente accetta. Per saperne di piu'

Approvo

Informativa estesa sui Cookie

I cookie sono stringhe di testo memorizzate su computer, tablet, smartphone, notebook, da riutilizzare nel corso della medesima visita o per essere ritrasmessi agli stessi siti in una visita successiva. Ai sensi dell'art. 13 del D.l.vo n. 196/2003 En Joy Energia rende noto agli utenti del sito che utilizza unicamente cookie di tipo tecnico, che non richiedono un preventivo consenso; si tratta di cookie necessari, indispensabili per il corretto funzionamento del sito, servono per effettuare la navigazione o a fornire il servizio richiesto dall'utente; in particolare, essi sono suddivisi in:

Cookie di navigazione o di sessione: garantiscono la normale navigazione e fruizione del sito;

Cookie analytics: sono utilizzati direttamente dal gestore del sito per raccogliere informazioni, in forma aggregata, sul numero degli utenti che visitano il sito stesso; con questi cookie non vengono raccolte informazioni sull'identità dell'utente, né alcun dato personale;

Cookie di funzionalità: permettono all'utente la navigazione in funzione di una serie di criteri selezionati (ad esempio, la lingua) al fine di migliorare il servizio reso.

Gestire i cookie sul suo PC: L’utente può bloccare o cancellare i cookie attraverso le funzioni del proprio browser: tuttavia, è possibile che il sito risulti non consultabile o che alcuni servizi o determinate funzioni del sito non siano disponibili o non funzionino correttamente e/o l'utente potrebbe essere costretto a modificare o a inserire manualmente alcune informazioni o preferenze ogni volta che visiterà il sito.

per ulteriori info: info@ferrarinarte.it