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IL PERCORSO CONCRETO DI IDEO PANTALEONI
Che cosa spinge un artista ormai più che quarantenne, di impianto espressivo più che tradizionale, in un’epoca difficile come l’immediato secondo dopoguerra, a sperimentare un astrattismo tanto radicale da poter essere definito “concretismo”? In questo senso la storia di Ideo Pantaleoni – perché è di lui che stiamo parlando, e non di Lucio Fontana, che pure potrebbe rispondere, mutatis mutandis, alle stesse caratteristiche appena esposte… - è paradigmatica di un momento difficile per la cultura artistica italiana, e al contempo di una capacità di ricerca, di esplorazione, di rinnovamento di cui molti “piccoli maestri” (nella cui categoria annoveriamo anche il nostro) diedero prove tanto interessanti quanto accantonate dalla cosiddetta “grande storia”, così veloce nel dimenticare, nel guardare soltanto ai filoni principali di ogni fenomeno. Certo, oggi – e da almeno un trentennio – anche le vicende del concretismo italiano sono state indagate nelle loro linee guida, ed è stato riconosciuto il posto che spetta a questa tendenza nel novero delle ricerche susseguenti al “crollo” ideale, concettuale e ideologico di tutto l’apparato novecentista che aveva retto quasi tutta l’arte italiana nei vent’anni precedenti la fine della guerra, e tuttavia l’occasione di una rassegna come questa consente ulteriori indagini, più accurate, persino più intime sulle motivazioni personali, sui moti dell’animo, sulle pulsioni individuali connesse agli stimoli esterni, alle sollecitazioni culturali, che possono aver condotto nel breve volgere di pochissimi anni un artista da una pittura memore di quella di Armando Badodi, il “chiarista” vicino al movimento di Corrente – mi vengono in mente a questo proposito le riproduzioni de “il mio studio” e “La mia camera di sfollato” rispettivamente del 1942 e del 1943 – alle geometrie astratto-concrete prive di ogni narratività o riferimento a situazioni psicologiche o personali. Di sicuro, quegli anni consentivano cambiamenti repentini, e in un certo senso li imponevano. Tutto ciò che era avvenuto “prima” della fine della guerra era comunque contaminato da valori, da compromessi, da una retorica che sembrava aver qualcosa a che fare col totalitarismo del regime fascista, anche se si trattava di una natura morta o di un paesaggio, per cui tutti gli artisti già attivi sullo scorcio degli anni Trenta – e Pantaleoni era nato nel 1904, per cui la sua attività era già matura allora – in un certo senso si autoimponevano di rigettare quello che era lo “stile” d’anteguerra, e di cercarne uno nuovo, che rispondesse prima di tutto ai canoni “politically correct” di un’arte per così dire “democratica”. Pantaleoni, che aveva partecipato al Premio Bergamo (il premio d’arte “progressista”, voluto dall’intellettuale fascista Bottai) e a qualche mostra sindacale, tipica dell’epoca, ma che nella sua vita d’artista era stato indifferente alle seduzioni del regime, e ne era stato ricambiato con altrettanta indifferenza (a parte le puntuali recensioni di singoli intellettuali molto attenti alla vita artistica) si trovava di fronte all’unico bivio linguisticamente possibile in quegli anni: la strada postcubista e picassiana da un lato, l’astrazione dall’altro. Si noti che entrambe queste strade passavano comunque per Parigi, anche se la strada dell’astrazione ci arrivava per così dire “via Svizzera”, e talora persino nella sua parte tedesca, mentre quella postcubista era diretta, maestra, e infinitamente più frequentata. Picasso era diventato “il” pittore progressista, l’esempio fulgido di intellettuale impegnato, di artista schierato, e per di più – ma spesso questo sembrava essere un mero accessorio – era un grande pittore, un caposcuola, l’immagine stessa della modernità, sia con la “M” maiuscola che con l’iniziale minuscola. Nel contempo Parigi era tornata ad essere la città degli artisti per eccellenza, il luogo dove tutti si incontravano e dove tutto era accaduto, e sarebbe accaduto ancora (solo pochi si accorgevano del sorgere di nuove capitali dell’arte, ma la tradizione italiana era tutta rivolta alla Francia, una volta tolte di mezzo dagli avvenimenti storici quelle poche e deboli possibilità antagoniste mitteleuropee), per cui il “viaggio a Parigi” era un momento obbligatorio per ogni artista che volesse anche nei fatti dichiarare il proprio rinnovamento. Di più, a Parigi, oltre alla forte “colonia” italiana degli anni Venti e Trenta, prendevano piede quegli artisti italiani che vivevano là, ma che erano stati marginalizzati dalla cultura italiana perché lontani stilisticamente dal Novecento e dintorni, come il Gino Severini di certi anni e soprattutto Alberto Magnelli, affiancati da altri, come Silvano Bozzolini, che avevano deciso di trasferirvisi subito dopo la guerra: tutto faceva di Parigi la meta di una sorta di Grand Tour al contrario. Pantaleoni non fa eccezione, e vi si reca nel 1948 per la prima volta, rimanendone tanto affascinato da decidere di prendere subito studio là, dividendolo con quello di Milano. Resta tuttavia da comprendere il punto cruciale perché abbia scelto la via dell’astrazione rispetto a quella più consueta, e francamente più conseguente rispetto alla sua pittura precedente, di un picassismo aggiornato e riconosciuto. Alcune biografie dell’artista parlano effettivamente di una primissima fase francese di postcubismo con aspetti surrealisteggianti ma a parte un paio di “nature morte” datate 1948 ed esposte alla Biennale di Venezia dello stesso anno non siamo riusciti a rintracciarne molte altre (c’è una foto dell’artista che lo ritrae con sullo sfondo alcuni lavori di matrice postcubista…), mentre già dalla stagione 1950/1951, tornato a Milano, Pantaleoni entra a far parte del M.A.C. (Movimento Arte Concreta), il movimento fondato da Gillo Dorfles, Gianni Monnet, Bruno Munari e Atanasio Soldati, su basi rigorosamente astratto geometrica e, appunto, “concretiste”, cioè ispirate ai concetti di forma, di non narratività, di assoluta mancanza di ogni “psicologismo” (parola che allora comprendeva ogni idea di espressione individuale) e “contenutismo”, di concretizzazione di forme astratte, di coincidenza tra segno e significato. Non sappiamo se l’adesione di Pantaleoni – e soprattutto la sua rivoluzionaria svolta stilistica in senso davvero concretista, assolutamente impensabile solo pochi mesi prima – sia maturata a Parigi o nelle frequentazioni milanesi di quei convinti astrattisti (l’amicizia con Lucio Fontana, di cui abbiamo sicura testimonianza nel periodo di Albisola, qualche anno più tardi dunque, potrebbe essere iniziata molto prima, e un disegno di Lucio Fontana è già presente nella “Prima Cartella del M.A.C.”, serie di dodici multipli pubblicati quasi come “manifesto” del Movimento nel dicembre 1948), ma nel breve volgere di qualche stagione Pantaleoni è un concretista a tutti gli effetti, senza alcuna reminiscenza evidente di altre tendenze, di precedenti periodi, rapidamente dimenticati e apparentemente senza alcun rimpianto: i cosiddetti “Bollettini del M.A.C.” del primo formato fortemente rettangolare, e della seconda stagione 1950/51, presentano Pantaleoni come socio italofrancese, mentre l’opera pubblicata non ha più nulla di riconducibile a quelle “nature morte” di matrice bracquiana esposte a Venezia nel 1948, se non nella presenza compositiva di forme contrapposte. Da allora e almeno sino al 1957, Pantaleoni (che si fa chiamare e talora firma anche “Panta”, con un chiaro riferimento alla moda futurista di nomi veloci, dinamici e, appunto, futuristi …) è un concretista per così dire “di stretta osservanza”, e gli anni 1954-1955 sembrano i più prolifici e autonomi: è in queste stagioni che il suo linguaggio astratto si precisa e si concentra, e che la composizione si divide quasi equamente tra un andamento orizzontale dinamico, con linee spezzate sovrapposte a campiture di colore, e forme più compatte e semplici, con campiture “à plat” molto presenti e volutamente ingombranti sulla superficie, che si equilibrano sia dal punto di vista geometrico che da quello cromatico. Sono stagioni in cui Pantaleoni vive il suo maggior momento di internazionalità: nel pieno delle forze, diviso tra due capitali riconosciute dell’arte – Milano e Parigi -, accolto in entrambe tra i gruppi più esclusivamente ristretti, se accanto al M.A.C., entra a fra parte anche (nel 1948) delle “Réalitès Nouvelles” francesi, e verrà portato come tipico esempio di appartenente al Groupe MAC-Espace, quando questo nascerà nel 1955 dalla fusione tra concretisti italiani (e soprattutto milanesi) e astrattisti geometrici francesi, l’artista italiano produce le sue opere storicamente più importanti, concettualmente e formalmente più compiute, quelle che oggi sono maggiormente ricercate in virtù del risvegliato interesse per tutte le neoavanguardie europee e in particolare italiane. Tuttavia, come accade spesso per i singoli artisti che hanno vissuto una stagione perfettamente consonante col proprio tempo, per poi proseguire su strade diverse, più individuali, anche Pantaleoni sembra essere vissuto ed esistito – nel sistema e nel mercato dell’arte – solo per quei pochi anni concretisti: una volta esaurita quella vena, e intrapreso strade prima vicine all’Informale, dal 1957 almeno sino al 1964, poi a un cromatismo gioioso dagli echi francesi (Gerard Schneider, Vieira Da Silva, e Jean Paul Riopelle, per esempio, che pur non essendo francesi avevano fatto di Parigi e della cultura francese il proprio riferimento), l’artista rientra in quel grande flusso di produttori d’arte capaci, attenti, anche creativi, ma non più “in linea” con la cosiddetta “tradizione del nuovo”. Eppure, per Pantaleoni, il decennio dei Settanta costituisce una ripresa di quei motivi concreti, nell’autonomia di una maturità, anche anagrafica (ha ormai sessantacinque anni quando inizia), ormai indiscutibile. E’ in questi anni, infatti, che concepisce degli altorilievi monocromi in legno o in anticorodal (una lega di alluminio), preceduti idealmente da una serie di tele e disegni con forme simili realizzati utilizzando l’aerografo sui contorni delle “dime”, ottenendo così un risultato formale “negativo-positivo” (tanto per ricordare un titolo del concretista Bruno Munari…) di grande interesse grafico, e concettualmente vicino a certo futurismo oltre, che, naturalmente, al concretismo di vent’anni prima. Ma se le tele mostrano questa composizione da “civiltà delle macchine”, le sculture – che tecnicamente sono degli altorilievi a parete, con pochissime eccezioni – appaiono subito più misteriose, a causa della loro monocromia. Come per l’aerografo, ma con un effetto infinitamente più sottile, anche nelle sculture la forma è definita per così dire “in negativo”, perché è l’ombra dello spessore del materiale che fa riconoscere la forma, come se ne disegnasse il contorno. I pannelli dunque mostrano e non mostrano la composizione, a seconda della luce che vi batte sopra, e così facendo variano costantemente, su una struttura ovviamente progettata (probabilmente è per questo motivo che Gillo Dorfles, in una breve presentazione dell’artista dei primi anni Settanta, richiama addirittura il concetto di “programmazione”): ma è proprio la variazione di luce, sostanzialmente imprevedibile, a creare il dinamismo, molto di più di quel vago ricordo di strani ingranaggi di “macchine inutili” (toh, ancora Munari!...) che, alla fine, fa semplicemente da “supporto” alla luce, vera protagonista delle opere. Potrà sembrare strano che un artista possa vivere stagioni tanto diverse, perché a ciascuno di noi si chiede coerenza, e a un artista ancor di più: difficile allora coniugare tutte le esperienze di Pantaleoni sotto un unico comune denominatore, se si guarda ai suoi risultati formali, e se si avvicinano questi esiti alle tendenze e ai movimenti della storia dell’arte, tuttavia, se ci si spinge un poco più indietro alla ricerca delle pulsioni emotive, dei motori che spingono alla creazione, si potrebbe dire che è la “luce” il minimo comun denominatore di tutte le fasi artistiche di Pantaleoni. Ricerca comune a moltissimi artisti, si dirà, ma questo non è certo un ostacolo o un difetto: è una constatazione che restituisce unità a un percorso altrimenti troppo dissociato, e rende giustizia alla ricerca creativa di Ideo Pantaleoni.
Marco Meneguzzo |
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