Testo di: Gianfranco Zappettini

Gianfranco Zappettini. Testo Critico a cura di Alberto Rigoni.

PROCESSO, METODO E STRUTTURA
I FATTORI INTERNI DELLA PITTURA DI GIANFRANCO ZAPPETTINI

Esistono molti modi per indagare le indefinite possibilità della Pittura. Nella sua quasi cinquantennale attività, Gianfranco Zappettini ne ha adottati diversi, alcuni dei quali in particolare hanno destato l’attenzione della critica e del pubblico: ad esempio il periodo della Pittura Analitica negli Anni Settanta e la serie “La trama e l'ordito” negli Anni Duemila. Nel corso del tempo, attorno al lavoro del pittore genovese si è destato a più riprese un generale interesse, testimoniato non (solo) da estemporanei apprezzamenti soggettivi di questo o quell’esperto o gallerista, ma (anche) dalla maggiore frequenza con cui Zappettini è stato Invitato a esposizioni collettive in importanti spazi pubblici, oppure gli sono state allestite mostre personali in musei o gallerie private, o ancora gli sono stati dedicati articoli su riviste specializzate o libri. Queste periodiche rinascite di interesse sono state determinate da più fattori, alcuni dei quali, a ben guardare, forniscono argomenti non del tutto esaustivi. Ad esempio, l’attenzione di critica, mercato e pubblico, negli Anni Settanta come oggi, va considerata l’effetto e non la causa di una determinata situazione di partenza. È pur vero che attenzione genera altra attenzione, e che se un critico o una galleria importante si accorgono di un artista, può innescarsi un circolo virtuoso di interesse da parte di critici e gallerie sempre più importanti; quindi (e tuttavia) le spirali iniziali di questo circolo possono essere considerate solo in parte un fattore generante interesse. In secondo luogo, si può tracciare a grandissime linee un parallelo storico: negli Anni Settanta, l’opera di Zappettini si inseriva alla perfezione nel momento di rinascita della Pittura, dopo i difficili anni dell’Arte Concettuale, mentre oggi si inserisce in quella nicchia che offre una sponda alternativa al predominio della pittura figurativa; ma anche in questo caso, l’argomento, accettabile per alcuni versi, non può essere la spiegazione ultima: sia all’epoca sia ai giorni nostri, Zappettini non fu e non è l’unico a presidiare il campo di una certa pittura astratta, rigorosa, assoluta. Perché lui sì e molti altri pittori no? Sgombriamo il campo anche da un altro dubbio. Va dato atto allo stesso Zappettini di aver avuto l'intuizione, più di cinque anni fa, di creare una Fondazione che, attraverso l’organizzazione di mostre e la pubblicazione di libri e cataloghi, avesse l’obiettivo primario di studiare il periodo della Pittura Analitica (in cui Zappettini, secondo i documenti, spiccava tra i protagonisti), con l’inevitabile e voluto effetto di presentare anche quello che gli Analitici di allora realizzano oggi; anche in questo caso, però, siamo di fronte ad un fattore parziale, perché sono numerose oggi in Italia e all’estero le Fondazioni operanti in modi analoghi e non tutte, dati alla mano, riescono a generare lo stesso interesse attorno ai loro obiettivi statutari. L'impressione è che si potrebbe continuare ad esaminare a lungo una serie di fattori esterni, senza riuscire ad individuare la causa comune, negli Anni Settanta come oggi, di questo accertata interesse per Gianfranco Zappettini. Tale esame finirebbe per ricalcare la stantia diatriba sul “sistema dell’arte": perché il “sistema” esalta o affossa determinati artisti in determinati periodi? E ancora: al “sistema” vanno davvero attribuite tutte la responsabilità di tracolli e di fortune di singoli o di movimenti? O forse non è lo stesso “sistema" la cassa di risonanza o almeno lo specchio di attività artistiche di per sé interessanti? La questione, da sempre affrontata con passione da opposti e spesso inconciliabili punti di vista, appare irrisolvibile, ed in ogni caso non la si potrà risolvere qui. Ma avervi accennato, e aver dato il giusto peso ad alcuni fattori esterni delle cicliche fortune di Zappettini, ci consente di affrontare con maggiore serenità l'analisi di alcuni fattori interni e tentare di spiegare perché oggi come allora l’arte di Zappettini ha raggiunto una quadratura particolare che la rende argomento stimolante per critica, pubblico e mercato. Da tempo e da più parti si sta cercando di sistematizzare sul piano critico e storico «quei problematici Anni Settanta» (significativo titolo che Giorgio Cortenova ha dato ad una mostra a Roma nel 1989). Rimandiamo alla “Cronologia della Pittura Analitica”, che correda questa pubblicazione, chi volesse avere un quadro più ampio (ma anche ampiamente riassuntivo) della successione dei fatti. In breve qui annotiamo soltanto come tra la fine degli Anni Sessanta e l’inizio degli Anni Settanta in Europa i tempi stessero maturando per una rinascita della Pittura su nuove basi, dopo che negli anni precedenti l'Arte Concettuale aveva messo in serio dubbio la necessità dell’esistenza stessa di questa disciplina. I binari su cui gli artisti si muovevano erano l’informale (più nord-americano) e l’arte di derivazione concreto-strutturalista (più nordeuropea): il primo era la liberazione definitiva della gestualità dell’artista, la seconda una ricerca di tutte le strutture portanti possibili della superficie. A cavallo tra i due decenni e per tutta la prima metà degli Anni Settanta, nei Paesi europei vi furono nuclei di artisti che si muovevano meglio sull’uno o sull’altra sponda. Tra il 1973 e il 1975 maturò una sorta di «convergenza parallela», e sul terreno della bassa percettibilità, di una apparente monocromia, di una giustificazione teorica e procedurale della Pittura, si delineò una situazione fotografata in numerose mostre collettive, in importanti spazi pubblici e privati di tutto il continente. Nello stesso alveo confluirono dunque alcuni artisti dei gruppi francesi Supports/Surfaces e di BMPT, olandesi-belgi della Fundamental Painting, e ancora Inglesi, Tedeschi e molti Italiani della Nuova Pittura: in totale, nel decennio furono più di cinquanta gli Europei coinvolti in una o più mostre sull'argomento, a cui vanno aggiunti anche alcuni Americani che si muovevano su tematiche simili già dalla fine degli Anni Cinquanta. In questo contesto, alla fine del 1974, nacque la Pittura Analitica. Fu un momento preciso di questa situazione europea e fu anche l'unico chiaro tentativo di una definizione, in un ristretto numero di mostre, di un ristretto numero di tematiche riferibili ad un altrettanto ristretto numero di artisti italiani, tedeschi, olandesi e francesi, il critico tedesco Klaus Honnef ne diede per primo la denominazione, nel novembre 1974, nel catalogo della versione milanese (Galleria Il Milione) della mostra “Geplante Malerei” che aveva già allestito al Westfàlischer Kunstverein di Munster pochi mesi prima. Honnef aveva maturato la propria idea anche grazie alla stretta frequentazione del connazionale Winfred Gaul e proprio di Gianfranco Zappettini. Quest’ultimo era stato allievo di Emilio Scanavino (quindi un “informale"), ma aveva scoperto durante la collaborazione con l’architetto tedesco Konrad Wachsmann (quindi uno strutturalista) il valore della struttura e della procedura. Grazie a Gaul, nel 1970 aveva conosciuto Honnef, il quale lo avrebbe invitato a Munster l’anno seguente per la collettiva “Arte Concreta”. Col 1973, Zappettini si accorse che la riduzione del contrasto cromatico nella sua serie “Strutture” era in pratica l’abbassamento della percettibilità del colore e non un risultato procedurale, e la struttura interna delle sue opere finiva in secondo piano. Gli insegnamenti di Wachsmann una decina d’anni prima - l’importanza della razionalità, del procedimento e delle strutture essenziali interne di un’opera - gli suggerirono una svolta drastica: adottare un approccio alla tela che fondesse la programmazione concettuale a priori dell’azione (stabilire sulla carta il risultato prefissato, gli strumenti e i materiali da utilizzare, il numero delle mani di colore da stendere eccetera) con la pratica gestuale da artigiano-pittore. Nacquero così i celebri “bianchi". All’osservatore poco attento, sembrarono la naturale evoluzione delle ultime “Strutture", in cui la dualità tra le tinte chiarissime era diventata quasi impercettibile: dal quasi bianco pareva essere passati al bianco totale. In realtà il salto era ben più radicale. In estrema sintesi, come funzionano i quadri “bianchi" di Gianfranco Zappettini? L’artista fissa a priori i termini della sua operazione: coprire interamente di bianco una tela montata su telaio e preparata col colore nero. Fissa poi i materiali (acrilico, polvere di quarzo) e gli strumenti (rullo da imbianchino) con cui intende operare. Dichiara il numero di mani a suo avviso necessarie per ottenere il risultato (ad esempio, venti mani), successivamente si mette all’opera. Se alla diciannovesima mano il bianco ha ormai coperto perfettamente il nero sottostante, resta il problema della ventesima mano, uno «stato tensionaie» tra pittore e superficie che Zappettini risolve con “luce bianca” su una o più linee verticali o orizzontali (ed ecco spiegati i titoli di molti quadri “bianchi”), semplici accenni all’ultima mano. L’operazione è essenziale e proprio questa essenzialità permette a Zappettini di isolare alcuni elementi grammaticali del linguaggio della Pittura: il colore perde valore referenziale e risulta semplice coprente, il rullo consente una stesura meccanica (mentre la pennellata è carica di stati d’animo e di «biografiseli» del pittore), il procedimento è il canovaccio intessuto a priori, le possibilità di questo modus operandi sono infinite, tela e telaio tornano ad essere il terreno privilegiato di queste operazioni, il risultato finale è il prodotto dell’interazione tra tutti questi elementi, così come una frase è il prodotto dell'interazione tra varie unità grammaticali e sintattiche del linguaggio. Inoltre, lo «stato tensionale» rappresentato dalle linee di luce è la solidificazione di quella tensione che sempre si crea tra un pittore e la superficie durante l’esecuzione: in questo caso però ne rimane traccia nel risultato finale. Da questa prima formulazione, Klaus Honnef trarrà spunto per tracciare quella sorta di manifesto della Pittura Analitica contenuto nel catalogo della mostra milanese del novembre 1974, e il resto è storia dell’arte: l’individuazione di pittori con percorsi affini, le mostre in musei e gallerie tra Italia, Germania e Olanda, gli errori e i passi falsi, la delusione di Documenta 6 a Kassel nel 1977, per tutto questo rimandiamo ancora una volta alla sintetica “Cronologia”. Seguiamo invece Zappettini, che dalla fine della Pittura Analitica iniziò una traversata nel deserto fatta di isolamento, ripartenze, sperimentazioni, percorso comune a molti artisti che hanno indagato varie possibilità (ad esempio il tedesco Gerhard Richter, il francese Noèl Dolla, l’americano Bruce Nauman): queste fasi hanno di volta in volta interessato critici come Achille Bonito Oliva, Viana Conti, Demetrio Paparoni e altri, ed è facile pronosticarne una riscoperta negli anni avvenire. Qui per brevità citiamo l'anno 1983, quando un altro incontro si rivelò determinante per Gianfranco Zappettini, quello con René Guénon. Lo studioso francese nella prima metà del Novecento aveva affrontato il concetto di “Tradizione”: l’Occidente, dalla fine del Medioevo in poi, vive una crisi derivata dalla perdita di tutti i punti di riferimento della società tradizionale, prima fra tutti la perdita della conoscenza metafisica di molti, se non tutti, gli aspetti simbolici della realtà che ci circonda. Ogni cosa nel mondo-secondo Guénon - ha una valenza più alta, che va oltre un primo livello di apparenza, oltre la realtà delle cose (metafisica, appunto); tutto, se letto con la lente della metafisica, simboleggia la “struttura portante" del nostro mondo, il quale risulta essere in definitiva una manifestazione del Principio di tutte le cose. Tali conoscenze, che Guénon recuperò per analogia con altre civiltà estremo e medio orientali e In dottrine come il Sufismo, il Taoismo e l'Induismo, non furono più tramandate da maestro a discepolo dall’Umanesimo in poi, in forza di un supposto Rinascimento, che a suo avviso altro non fu se non la rottura della catena della Tradizione. Il mondo moderno, elevando a proprio fine ultimo il progresso materiale e cancellando il progresso spirituale, entrò in una crisi irreversibile di valori e di autorità. Di Guénon (che coerentemente abbracciò poi il Sufismo e morì al Cairo nel 1951 ), Zappettini lesse appunto nel 1983 I simboli della Scienza sacra, prima di una serie di letture guénoniane che avranno decisive conseguenze sulla sua vita e sulla sua arte. Da sempre attratto dall’essenzialità, dal rigore e dalla freddezza zen, Gianfranco Zappettini capì come non vi fosse differenza di fondo tra la vita ripetitiva dei monaci orientali e il metodo artistico tramandato nelle antiche botteghe dai pittori ai loro apprendisti: in entrambi i casi, la pratica quotidiana di un’attività aveva una funzione ben più elevata rispetto al mero prodotto immediato, addirittura una funzione di realizzazione interiore. Non a caso, in entrambi i casi si parla di “maestri" e di "discepoli" e solo ai più degni tra questi ultimi il “maestro” rivelava al momento giusto il proprio “segreto", “il tocco del maestro”. Raggiunta questa consapevolezza teorica, Zappettini si mise al lavoro e per realizzare attraverso le opere pittoriche quella che egli stesso, mutuando un termine alchemico, chiama I’«Opera» finale. Le differenti opere di quest’ultima serie “La trama e l’ordito", esposte in questa mostra, possono essere lette come pagine di diario sempre uguali eppure sempre diverse, il diario di un monaco zen, testo-fexfus-tessitura che vogliono dare al contempo una lettura della vita e dell’arte, ma che in primis non possono che essere documenti di Pittura. In un suo scritto del 2005, il simbolismo della trama e dell'ordito, Zappettini chiarisce perché sia così interessato al tema. Questo tipo di dualità - spiega l’artista - rispecchia e fa parte della categoria di dualità che contraddistinguono la realtà che ci circonda: giorno e notte, caldo e freddo, sole e luna, maschile e femminile, yin e yang costituiscono quella situazione reale da cui partire per raggiungere una superiore Unità, in cui gli opposti non si distinguano più e l’Opera possa dirsi completa. Nella tradizione della tessitura, i fili verticali dell’ordito e quelli orizzontali della trama hanno valenze simboliche di cui ormai abbiamo perso memoria: l’ordito rappresenta l’immutabilità ma anche il susseguirsi di tutti gli indefiniti stati di un essere, la trama rappresenta invece la variabilità ma anche l’insieme di tutti gli esseri sul medesimo stato (ad esempio, tutti gli esseri umani). È l’unione di due complementari il cui risultato è la croce, simbolo denso di alti significati, non solo in ambito cristiano: non a caso con questa struttura primaria si sono confrontati numerosi pittori in passato, da Piet Mondrian al già citato Dolla. Un tessuto, realizzato anch’esso come il quadro su un “telaio”, è l'insieme di un numero indefinito di intersezioni, maglie di una rete che raffigura la struttura di tutto il cosmo manifestato, a volte rappresentato anche come un Libro in cui i caratteri formano il testo (in latino textus, da cui deriva anche la parola “tessuto”). In quest’ottica, va da sé come anche l’uso dei colori segua criteri ben più rigorosi che non la semplice ed estemporanea sensibilità del momento: il rosso è tradizionalmente associato sia alla passione sia alla gnosi, ovvero alla conoscenza; il blu rappresenta la notte cosmica ovvero tutto quanto non sia manifestato; il grigio-nero è il «giusto mezzo» tra il bianco e il nero, punto di incontro e di confine tra due opposti. Eppure ci troviamo sempre di fronte a dei quadri, documenti di Pittura - come si diceva sopra - che non possono e non devono sfuggire ad una lettura più tecnica e procedurale, peraltro non esclusa da una lettura simbolica. “La trama e l’ordito” è una serie iniziata nel 2004 che continua ancora oggi. Nel corso di questi anni vi sono state necessarie variazioni nella sequenza delle opere (per citare la più evidente: al blu che dominava all’inizio si sono affiancati poi il rosso, il grigio-nero e ultimamente anche il bianco), ma alcune caratteristiche si sono mantenute costanti. La prima è appunto la struttura della trama e dell'ordito, linee orizzontali e verticali che solcano la superficie, realizzate manualmente da Zappettini su uno strato di particolare resina. In secondo luogo, la trama e l'ordito non ricoprono tutta la superficie; una o più linee emergenti delimitano un bordo verticale o orizzontale (o entrambi) al di là del quale non c'è più strutturazione: lì, dove il colore predominante del quadro ne incontra un altro (ad esempio, il blu incontra il rosso), la divisione tra le tinte non è regolata da linee e sulla tela regna una sorta di «caos primordiale». Terza costante (se si eccettuano i primissimi lavori di questa serie) è la presenza di più linee dello stesso spessore di quelle delimitanti i bordi, che attraversano ortogonalmente o diagonalmente lo spazio bidimensionale; Zappettini in pratica sembra voler isolare, ingrandire e distorcere uno o più fili verticali od orizzontali sottostanti, concentrandovi l’attenzione sua e dello spettatore, come se fossero tirati da una mano angelica - per dirla con Zappettini. Nelle ultime opere, questi attraversamenti si sono via via fatti più complessi, fino quasi a diventare nodi: l’artista ci pone di fronte ad un simbolo, il legame, nella sua duale accezione di forte contatto e di impedimento a procedere. Si tratta in definitiva, spiega Zappettini, di tensioni, di increspature che possono sia rappresentare un intoppo, sia una tappa da cui ripartire ancora. Così, dallo «stato tensionale» dei “bianchi” Anni Settanta si è passati a «tensioni nel colore» (per citare il titolo di una sua recente mostra personale), dal «processo» si è arrivati al «metodo», ma l’indagine di Gianfranco Zappettini è sempre fissa sui fattori interni delia Pittura, sulle strutture intime che la regolano, sui lemmi che ne costituiscono il

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