Testo di: Agostino Bonalumi - Alter Ego

Agostino Bonalumi: Alter Ego.
Testo Critico a cura di Vincenzo Guarracino.

E' una poesia dura, refrattaria ad ogni lenocinio estetizzante, che dà vita ad una sorta di enigmatico teatro della mente, nei cui ambulacri si aggirano in inarrestabile e tempestoso clinamen atomi e fantasmi di pensiero, prospettive sfuggenti di sguardi sulla realtà, che oscillano tra avanzamenti o arretramenti, in un processo esplorativo di totale illuminazione e messa a fuoco dal punto di vista concettuale oltre che metrico, interrogandosi sulla propria consistenza, sui propri fondamenti, a partire da un nuoto esterno, decentrato, che non è quello istituzionale della letteratura. Una poesia-pensiero, dunque, tanto più esemplare e significativa in quanto appartiene a un autore che fa tutt'altra professione (se pure professione potrebbe essere) da quella del “poeta” e di cui qui il titolo della silloge quanto mai significativo di Alter ego rende ragione. Sì, perché è un “eccentrico”, Agostino Bonalumi, la cui “carriera” poetica è andata sviluppandosi nel tempo in singolare concorrenza con la sua attività più propria che è quella dell'artista, tra i più importanti e significativi, della famiglia degli spazialisti, accanto alla quale ha trovato accoglienza la parola scritta. Dapprima sotto forma di approccio a testi altrui, da sempre letti e presto tradotti in libri d’artista (Petrarca, Goethe, Emilio Villa, tra gii altri), poi come pratica diretta di scrittura concretizzatasi in diverse raccolte, dapprima in Scherzo, io, 2000, poi via via in Difficile cogliersi, 2001, in Da te ascolto tornare le cose, 2001, in Giusto provarci, 2006, fino più recentemente in E' stato un nulla, 2008, Si diceva atomi e fantasmi di pensiero. E proprio il “pensiero”, il fantasma che ossessivo si aggira nei testi di Agostino Bonalumi, tramandone il tessuto formale stesso dei testi, che, come ha rilevato l'amico Concetto Ponzati già a proposito di Da te ascolto tornare le cose, si dispongono come scale strofiche, vere e proprie partiture concettuali e sonore, attivate da “cose”, da immagini concrete: “Un pensiero apre un pensiero, non condiziona un pensiero; il pensiero che aspetti è spesso inatteso,..”. Un fantasma che determina il ritmo delle cose e della loro apparizione, dunque, e che al tempo stesso costituisce il fulcro della prospettiva di chi scrive in rapporto alle cose stesse. E una modalità che si ritrova praticamente in ogni testo di questa silloge: sotto forma di flussi per così dire analogici di immagini, che riflettono l'ansia di riconoscimento del movimento stesso di trasformazione della realtà attraverso una scintilla e il suo stesso “precipitato” verbale, in una sorta di progressiva proliferazione cellulare; altre volte come vera e propria interpellanza del “pensiero” e della sua sostanza ermeneutica. Si pensi, per il primo caso, solo per fare qualche esempio, a testi come taciuto (“la voce che non ha detto / le parole che restano / la ragione che ripiega il profilo / un incavo che si scava / il tempo che scorre fisso / la notte dei sonni tranquilli / che mette, labbra / dì silenzio malato”), o come non eri tu (“il giallo che mi figuravo / salire le scale / muore ,/ nei passi che non salgono // dalia finestra / alta sulla piazza grigia / avevo visto scendere / la diagonale / sopra due gambe viola / un ombrello giallo”), dove sembrano scorrere linfe concettuali e stilistiche affini e coerenti con le opere pittoriche, sotto forma di scomposizione del movimento, in “una sorta di meccanismo barocco”, come l'aveva a suo tempo definito Roberto Sanesi. Per il secondo caso, valga come esemplare ritorno a sé, in cui pare rivelarsi e consistere il segreto della conversione stessa alia parola poetica non come surrogato e sostituto, ma piuttosto come un linguaggio forte e autonomo, dotato di una valenza per così dire allegorica. Leggiamola la prima parte di questo testo: “l'inconsistere delle cose / alla soglia incerta della mente / il fantasma del monte / nel riquadro della / forse finestra / sulle spalle le ombre delia stanza / la tensione che gonfia / pesando il resistere / di un pensiero”, E' testo, questo, che val la pena di citare non solo per il suo titolo emblematico, ritorno a sé (p.112), che dice di un'esigenza di ricupero di vitalità e di accelerazione emozionale, ma anche soprattutto per l'atteggiamento dell'io di fronte alla sua stessa ricerca, atteggiamento rivelato dall'attacco senza la marca trionfale della maiuscola, quasi a dire di una volontà restaurativa di uno spazio tutto privato all'insegna della discrezione e modestia, di un ricupero delle proprie risorse morali e creative senza alcuna protezione retorica. E' su questa scena che appare evidente il vacillamento delle “geometrie della ragione”, di una razionalità che si credeva assoluta e onnipotente ed è indotta invece a fare i conti con la “sorte”, con la “consunzione” del corpo e la vertigine del dolore. Il risultato è una sensazione di limbale sospensione e di progressivo sprofondamento in vacui ambulacri di non-pensiero, di fronte a cui la “mente” si ostina a respingere la tentazione della deriva e dell'abbandono, aggrappandosi a “fantasmi” di vita, impigliata com'è in quell'avverbio “forse” (“nel riquadro della / forse finestra”), che tradisce la volontà di resistere e reagire, E' questo ciò che pare emergere in questo testo, tra “ombre”, “lontananze", inconsistenze e attese. Questa volontà di reazione forte emerge soprattutto nella parte conclusiva, dove il “forse” si tramuta finalmente in presa d'atto del proprio stato ma anche in certezza di riacquisizione delle proprie risorse energetiche (“l'attesa di raggiungermi / dove ancora sono”), non senza il possesso di una piena padronanza di sé (“oggetto / che mi verrà pensiero”), ancorché nella consapevolezza del “poi avaro” (di cui si dice in un altro testo, in luna celtica) e nella coscienza dell'umana precarietà (“sul limite concesso al vedere / l'immagine che pensa cercarsi / è ansia d'ascoltarsi sentire / eppure pensare”, in Sul limite, p.109)), dove comunque l'essenziale è l'esserci “quasi toccando /il pensiero pensarsi”). E' nell'insistenza del “pensiero”, che si annida il “fantasma di liberazione” (in aspettando), inteso come attesa e come speranza, come antidoto e pharmakon alla disperazione? E' nel pensiero, che vuole pensare e pensarsi nonostante tutto, che consiste la volontà e la certezza del “ritorno a sé”? Nel pensiero che sa distinguere tra “ragione” e “ragionevolezza", tra “esistere” ed “essere”, e che sa dire con fierezza “io piuttosto ricomincio ogni giorno da capo / ogni mattino un mattino”? Io credo di sì. Credo che solo in esso consista la capacità di essere se stessi: di lasciarsi sorprendere e cercare dalla vita in ogni, istante, nelle sue immagini “tentando la promessa / di un significato” (come dice in dove cosa perche) e traducendone le molteplici possibilità in infinite occasioni di ascolto, per sé e per gli altri. Per concludere, due testi, fine secolo e contemporanea, che chiamano in causa l'artista e il mondo abituale che lo circonda con le sue problematiche e i suoi distinguo, istituendo un. duplice binario tra attività artistica e scrittura poetica. Nel primo, dell'arte d'oggi (di una pittura-scultura fatta di “gestualità / e segnarci”, praticata ormai da artisti che “l’ispirazione / l'hanno nel polpastrello”) viene evidenziata la sua qualità di “dire / senza concepimento non diversamente da quella della poesia, che appare irrimediabilmente come “un andare spigolando stimoli” per una “intuizione... / senza destino” e senza grazia. Nel secondo, che varrebbe la pena citarlo per intero, prende corpo a contrarlo una lucida definizione del proprio “fare arte” come rigorosa corrispondenza a un progetto di ricreazione del reale attraverso una pittura e un segno di grande energia, quale è quello che si è andato svolgendo nella sua opera di artista: la prima, ridando col colore luce e fisicità all'oggetto; il secondo, conferendo forza e dinamismo coi suoi grafismi capricciosi e guizzanti, in un processo per così dire sinciziale, di inarrestabile proliferazione cellulare e addirittura di fuoriuscita dallo spazio istituzionale del quadro, a testimonianza di una consapevole volontà di emozione e interazione con lo spazio e l'ambiente circostante. Non diversamente da ciò che si prefigge la scrittura poetica, intesa come scelta di un “parlare” umano e per uomini che ancora credono, come diceva Leopardi, in un fecondo “commercio di sensi”.

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