Soffusa eppure decisa, tanto immateriale quanto concreta, la luce di Carlo Bernardini, catturata ed indirizzata grazie alle potenzialità offerte dalla fibra ottica, è il mezzo per definire gli elementi basilari del concetto stesso di scultura: la forma e lo spazio, il pieno e il vuoto. L'essenzialità di una concretezza ridotta ai minimi termini, che ha portato la linea ad assottigliarsi fino all'impalpabile forza condensata, ricevuta e rilanciata, attraverso la suggestione della luminescenza, è frutto di un lento e progressivo processo di ricerca e analisi condotte negli anni dall'artista. Questo lavoro insistito gli ha fatto conquistare quella riduzione massima che, percorrendo le vie di un'astrazione scultorea sempre ripulita dalla ridondanza dell'eccesso, ha ritrovato, in questa nuova dimensione concettuale ed espressiva del disegno luminoso, il mezzo per attivare le dinamiche di senso e di percezione dello spazio-ambiente.
L'elemento lineare tracciato da Bernardini, che sembra rimbalzare da uno all'altro dei punti significanti di un luogo o un contesto architettonico, mette in evidenza, infatti, una nuova dinamica spaziale che sollecita una diversa metodologia di percezione e fruibilità del contesto specifico in cui si predispone. La linea, gradiente basilare dell'esperienza del disegno e del progetto, sollecita, nell'esperienza consolidata del linguaggio di Bernardini, una propria risonanza visiva che disvela una struttura, definita e definibile, che, solo prima immaginata e pensata, ha modo di "accendersi" nel nostro orizzonte visibile. Le forme da lui tracciate, che sanno vivere su scala monumentale quanto raccogliersi in presenze più oggettuali, come nel caso degli Spazi permeabili presenti in mostra, non perdono mai quella loro caratterizzazione mentale e fisica molto lucidamente e sapientemente delineate: né nella piccola né nella grande dimensione viene meno quell'imput generativo di nuove possibilità percettive dello spazio che, grazie alla suggestione suscitata dal fattore luce, vera e propria deflagrazione visiva, pur delicata nella sua proposta, acquisisce una sua specifica e connotante duttilità visuale, mentale, sensoriale e, quasi per assurdo, anche di una nuova natura fisica. In questo modo la luce, che si protende a tessere una trama relazionale tra gli accordi endemici dell'ambiente, si apre all'intuizione di chi la osserva e la vive; abbracciando anche il tempo come strumento che raffina ulteriormente il carico emotivo ed empatico di queste opere, acquisisce poi le nuove coordinate di una lettura individuale, aprendosi in toto alla deducibilità dell'altro.
La duttilità del pensiero artistico di Bernardini supera il semplice ricorso ad un medium tecnologico - che avrebbe potuto mutare, snaturandola, l'essenza e l'anima della sua riflessione estetica - ma, attraverso l'impalpabile bellezza della sua interpretazione e la risoluzione con cui accoglie chi osserva come parte fondamentale per accentuare ed evidenziare i principi chiavi delle sue installazioni luminose, riesce ad amplificare la grazia poetica con cui scrive nel buio il complesso articolato di forme strutturanti che si sospendono tra il reale e l'immaginazione. Bernardini estrae dalla luce una forza capace di concretizzare l'invisibile e l"immateriale in qualcosa di così tanto fisicamente presente, da essere una rinnovata esperienze effettiva in grado di stravolgere l'orizzonte della nostra quotidianità.
Franco Mazzucchelli
Franco Mazzucchelli
Franco Mazzuchelli è stato tra i primi artisti ad esplorare, in modo coerente e continuativo, le possibilità espressive offerte dai nuovi materiali plastici e sintetici, introducendo il PVC come elemento ideale per definire i confini di una nuova espressività scultorea. Il suo lavoro si è configurato sulla proposta di un insieme di opere che hanno sempre cercato una libera funzionalità spaziale – nella piccola e nella grande dimensione – che non fosse vincolata alla canonica staticità e rigidità tipica della scultura, ma si determinasse nelle possibilità di riappropriazione libera dello spazio-ambiente, contemplando anche un'interazione partecipata attuata dalle persone che quel luogo specifico si trovano a popolare. La dimensione ambientale e pubblica dei suoi interventi monumentali sovverte ogni logicità storica e abitudinaria e, non senza un richiamo all'intuizione spontanea dei processi ludici, l'immediata correlazione emotiva ed empatica, con chi ha modo di essere nel luogo-tempo delle sue proposte, si fa interprete di un'arte che vuole un contatto fisico con il reale. Il necessario tema umano e paesaggistico sottrae le ricerche di Mazzucchelli dagli estetismi intellettualistici delle gallerie e portano il suo fare artistico a vivere l'imprevisto della sorpresa, la fugacità dell'attimo, a farsi messaggio ulteriormente efficace proprio con l'accoglimento tacito dell'azione dell'altro.
I suoi "gonfiabili" diventano, in qualche modo, strumenti di sensibilizzazione, di avvicinamento ad un'arte che rivendica un compito etico, sociale; che vuole sottolineare il proprio impegno "civile". L'artista cerca, sfidando l'impalpabilità dell'aria, di cogliere il respiro vitale dell'azione e dell'anima umana e, imprigionandoli in forme libere che ne custodiscono le inerzie sensibili, di scuotere le interrogazioni sopite nelle coscienze. Ogni opera è fatta di quella leggerezza così forte da rimandare alla natura l'esplicitazione della sua esistenza: lo sguardo legge le anomalie determinate dalle forme dei materiali, ne comprende le derivazioni e le origini e poi, senza sollevare perplessità, si lascia conquistare in modo disincantato, pronto ad accogliere nell'anima le rivelazioni nascoste acquisite dalla vicinanza con l'opera.
La precaria inaccessibilità di una forma diventa il tramite e l'interlocutore, il referente esclusivo del messaggio che l'artista affida al materiale sintetico che, allontanandosi dalla retorica di quelli accademici, si avvalora della medesima contemporaneità di cui è frutto; inscritto nel presente cerca e pretende di essere concretamente esperito e non solo osservato da lontano. Con Mazzucchelli la scultura scende dal suo piedistallo, squarcia con la sua presenza l'orizzonte della quotidianità e spinge in altre dimensioni la collettività cui si rivolge. Se si sottrae la presenza palpabile della scultura anche l'ambiente e il luogo delle collocazioni delle opere acquisiscono un'impronta eterea che solleva i sensi da quelle pregiudiziali valutazioni che la vita impone.
Mazzucchelli è l'interprete e il regista, il coreografo di due materiali – la plastica e l'aria – che unite carezzano forme di pieno che si concepiscono attraverso la sollecitazione di un vuoto che resta presente e la cui forza spinge e preme la pelle artificiale della scultura, unico diaframma che trattiene una forma e la offre al mondo. La dilatazione che espande il corpo scultoreo e lo concepisce, né per sottrazione né per accumulazione di materiali, rivendica un respiro che non solo palesa i contorni definibili di un'opera, ma che sempre lascia irrompere nell'arte l'imprevedibile mistero della vita.
Paolo Scirpa
Paolo Scirpa
La luce è la presenza seducente, colorata, multiforme che, addomesticata, scritta, solidificata da Paolo Scirpa, agisce con effetto incantatore e ammaliante per il nostro sguardo. Il colore luminoso, caldo o freddo, ci richiama e ci accompagna nell'esplorazione di opere che diventano speciali contenitori di un nuovo spazio che buca, oltrepassa, attraversa le dimensioni conosciute del nostro ambiente. L'effetto sensibile del neon, piegato e controllato, sottratto alla quotidianità di un uso canonico, trasforma la sua stessa abituale essenza cromatica: l'artista utilizza, infatti, il proprio vocabolario formale per "accendere" lavori in grado di maturare una sensibile essenzialità differente verso il fattore luce che, non più rappresentata, diventa la protagonista assoluta dell'opera, essendo ora reale e partecipe, interattiva ed effettiva. Inoltre, l'impaginazione nello spazio del "quadro" ne accoglie, grazie all'azione moltiplicatrice degli specchi, la profondità dell'infinito incidendone l'incomprensibile sua imponderabilità e trasferendola poi nel nostro universo sensibile. Questa cosa, intuita fin dal principio nel suo spunto ideale, porta ad un'inesauribile ripetizione suggestiva il segno luminoso, capace, quindi, di andare oltre la superficie limitante di quello che, forse un tempo era il dipinto, e di rivendicare la sua anima più tangibilmente assoluta.
La luce colora, la luce ambienta e, nel caso di Scirpa la luce sa aprirsi, con le sue forme, allo spazio del vero fino a risucchiarlo in una nuova, possibile, dimensione di conoscenza, mai ipotizzata solamente e sempre verificata nell'esperienza, come testimoniata dalla presenza nelle sue opere: quasi in un rinnovato atto ludico, osservare il "pozzo", la speculazione angolare e la geometria il-logica dell'artista, che si aprono sotto/davanti allo sguardo sempre senza fine, riproduce ogni fattore ed elemento suggerito dalla luce stessa vaticinando la sua proiezione in un passaggio successivo. Ecco allora che la loro luce rinnova il suo essere soglia dimensionale e profetizza quegli elementi altri che la in-seguono fino a dilatare, oltre l'esperienza umana, l'iniziale dato limitante delle nostre verità.
Scirpa ci fa guardare la luce e ci fa trovare lo spazio sospendendoci in quel paradosso in cui convergono gli opposti: utopia e verità, illusione e realtà si corrispondono, si intrecciano, si contaminano, sospendendo ogni nostra facoltà di giudizio attorno alla costante messa in discussione delle abituali, acquisite, certezze. Lo specchio e i suoi misteri, spesso oggetto di riflessioni profonda da parte di letterati ed artisti, incontra e gioca con la luce lasciando le figure semplici di Scirpa ad indagare un confine sinistro, duplice, alterabile che tocca il senso del nostro limite e della nostra finitezza.
Lavori come Pozzo. Espansione+traslazione cilindrica, Ludoscopio o Cubo multispaziale, in modo diverso eppure estremamente coerente, investono le nostre facoltà percettive intuitive - se non addirittura fisiche - introducendo una materia che, impalpabile, si fa presente e poi torna a sprofondare nell'illusione dell'immagine. La luce serve per rendere attiva e presente questo pre-sentimento: l'artificio illusorio della rappresentazione paventa un luogo di presenza che ora diventa distanza, replicando in noi l'impalpabile idea di un accenno di infinito e del suo illusorio orizzonte che, fuori o dentro a noi stessi, conduce l'opera e le sue materie a diventare un sottile diaframma che separa due universi generati dalla sua interpretazione e visione.
Luce e spazio sono una situazione, controllano le apparenze intoccabili, forse ingannevoli e aleatorie, delle loro forme. Subentrano, nel nostro immaginario interpellato e sollecitato, all'urgente priorità mosso dall'aspetto esteriore dell'opera il cui pretesto sa travalicare l'estetica fino a riportarci ad una messa in discussione totale del dato sensibile.
Emanuela Fiorelli
Emanuela Fiorelli
È un'infaticabile tessitrice Emanuela Fiorelli che, tra peculiari trame ed orditi, prova a fissare lacerti di proiezioni spaziali che, quasi tensioni materiche in pronunciamento, cercano la loro specifica evidenza tridimensionale e concreta. Un moto in divenire quello "disegnato" dall'artista che rimane sempre appena accennato nell'inconsistenza del filo, materiale con cui si sottolinea e manifesta una sequenza variabile di orientamenti spaziali e di consistenze geometriche. Tesse, in questo modo, coordinate e direttrici che dalle sue congetture ideali affiorano impreviste allo sguardo: si sollevano, si inclinano, si incrociano, si protendono, si allungano mettendo in tensione un'elasticità sorprendente che accentua ulteriormente quel dinamismo plastico tanto voluto.
L'emancipazione della fase progettuale e del disegno avviene nell'opera compiuta e questa, trattenuta nel suo sospeso divenire, resta come porzione di un'azione infinita; è il risultato visibile che fonde le dinamiche specifiche dei suoi intimi processi costitutivi nell'originalità unica della propria forma, ripetibile come variabile eventuale in altre soluzioni successive. La geometria astratta non si chiude in un semplice ritmo segnico, ma afferma gli elementi di un innovativo codice espressivo che, con una sensibilità tutta particolare, elevano la pesantezza e la fisicità delle forme alla logica bellezza della trasparenza onirica, della delicatezza effimera, della leggerezza di una visione incorporea. L'immaginario pensato e ideato da Fiorelli trova corso attraverso il filo (ininterrotto) del suo agire che, lasciando intuire i fenomeni che prova a raccontarci, mette alla prova le nostre facoltà percettive, ci costringe a rivederle, a riconsiderale e a osservarle con maggior attenzione, perché nulla possa essere dato per certo, ovvio e scontato.
Un'importante dimensione di senso nella sua ricerca, forse poco esplorata criticamente, è il raffinato dialogo con l'imprendibile consistenza dell'ombra, statuto del visibile che, in Fiorelli, accede alla possibilità di quella provata volumetria che naturalmente le dovrebbe essere preclusa: non limitandosi mai ad un confine prestabilito proietta nuove moltiplicate figure nello spazio dilatando le melodie incarnate dal filo come fossero le ombre di entità non visibili, effimere presenze rese concrete dall'emancipazione dalla loro (ideale) sorgente. L'equilibrio figurale e scultoreo sembra fissarsi in tutta l'ambiguità con cui l'artista ci introduce alle sue opere: Textur box e Sculptur box sono esempi che definiscono come il suo intervento sia un insieme di regole, di formalismi geometrici, di ritmicità in sequenza che cercano di focalizzare l'attenzione sul dualismo tra consapevolezza ed istinto, tra ragione e sentimento, tra equilibrio e libertà, tra controllo e distacco, predisposto per individuare una logica necessaria per coesistere.
Sospirano questi suoi lavori, si lasciano attraversare dal vuoto, si sorprendono nella loro capacità di essere strumenti di comunicazione tra piani sensibili differenti, uniti e messi in relazione proprio dalle linearità tessute. Lo stato tensivo del materiale che Fiorelli ci trasmette sospende la concretezza abituale; la struttura e la destruttura portandoci ad una nuova riorganizzazione della realtà, semplicemente in punta di filo.
Arcangelo Sassolino
Arcangelo Sassolino
Nel caso di Arcangelo Sassolino parlare di materia risulta riduttivo, se non si pensa a quest'ultima in termini di pura speculazione filosofico-estetica o metaforica: l'artista, infatti, ci presenta un'antologia estremamente ampia di materiali assai differenti che, isolati singolarmente e/o combinati – in modo da evidenziarne analogie o diversità – in insiemi variabili, alienano le loro individuali concretezze effettive per portare la visione all'esito di un accadimento imminente. Sassolino sollecita, mette alla prova, sfida, corrompe, altera, "innervosisce" le qualità chimico-fisiche dei suoi materiali per spingerli al limite di una frattura, di una rottura, di un'implosione, di un'alterazione irrecuperabile e definitiva che ci lascia attoniti testimoni di un atto prima impensabile, o forse solo ipotizzabile. L'aspetto e la risoluzione delle sue opere, allora, si propone come la necessaria rivendicazione di una interrogazione dell'invisibile, di quello che atavicamente resta definito dalle sue s-conosciute leggi che, ora, il processo estetico dell'organizzazione in opera prova a cogliere e suggerire al nostro pensiero traducendolo attraverso le sostanze di comune esperienza e conoscenza.
L'esito dell'osservazione di suoi lavori ce li fa considerare come fossero dispositivi, macchine, marchingegni imponderabili o organismi autosufficienti che, bizzarri e insoliti, lontani dalla logica nostra aspettativa, sono capaci di agire e, vincendo la fissità imperturbabile e monumentale della scultura, di abbandonarsi ad una lenta staticità progressiva – o pregressa – di cui l'assemblaggio scultoreo diventa documento esclusivo, prova accertata di quell'energia invisibile che li abita silente, la quale d'improvviso sa muoversi, cambiare e alterare gli stati inerti e potenziali delle sostanze e poi, sempre, rinnovarle nella forma, nel contenuto e nell'apparenza.
Atto creativo e processo fisico si incontrano nell'azione documentata da Sassolino che, nel suo gesto creatore, si limita a evidenziare la possibilità espressiva dei singoli elementi che trovano la libertà di corrompere la propria fisicità e di annullarne lo status quo. Le materie, quindi, nella loro ricchezza, che prevede vetro, legno, metallo, cavi, gomme, dispositivi elettronici, eccetera, amplificano la portata essenziale delle loro potenzialità introducendo un peculiare dinamismo che si definisce nell'ampia produttività creativa del potenziale artistico.
Siamo persuasi di qualcosa che è stato, che diviene o che potrebbe presto essere, perché nulla resta immoto: il fare di Sassolino non si congela in un minimalismo formale, ma predispone l'osservazione ad un accadere tangibile a quell'esclusiva sollecitazione che, indotta dall'artista, sfida il materiale, consapevole della scientificità dei processi fisici che si sottintendono. Con questo pone la concretezza della verità del mondo al suo limite, sospendendo tutto in bilico sul crinale pericoloso del suo abisso più profondo e impensabile. L'aspetto minimale delle composizioni, la pulizia formale della presentazione e l'ordine estetico dell'immagine profilati da queste opere vengono vanificati dalla realtà cruda indotta da quell'insieme di forze invisibili che, se opportunamente attivate, sanno sconvolgere la verità abituale della nostra percezione. Il dato conosciuto, pensato, riflettuto o solo ipotizzato nel nostro mondo, nell'azione proposta da Sassolino, ha modo di trasferire ad altri livelli di conoscenza e di ritrovare il fondamento di una più sconcertante e inalienabile verità.
Paolo Radi
Paolo Radi
L'esperienza artistica di Paolo Radi, quantunque la concretezza dei suoi materiali sia evidente, così come la tridimensionalità aggettante delle forme sia del tutto inquadrabile entro i parametri di una concezione scultorea, molto del suo fare si apparenta anche con i modi e i termini della pittura. Questi due linguaggi in lui sanno coesistere e trovare un punto di congiunzione che si traduce in una personale e originale interpretazione delle forme, del materiale, delle consistenze, e, quindi, nell'immagine, attraverso una rielaborazione di tali elementi basati sul principio di alleggerimento delle sostanze impiegate che, stratificandosi su piani diversi, trovano modo di amplificare la loro leggerezza e il loro silenzio in un'appropriazione ancestrale di oscurità e bagliore.
Radi sa miscelare e combinare, con risoluzioni inestricabili nel loro pulsare emotivo, la luce e il buio, lo splendore e l'ombra, a volte animando il magma cromatico metallico dal chiaro in altre dallo scuro, nel tentativo di trovare un nitore capace di attraversare quella concretezza opalescente e mimetica che connota ogni sua opera. Con questa sollecitazione continua la sostanza concreta ed effimera che si palesa allo sguardo - o che tenta di farlo - si modella entro i canoni di una bellezza che intercetta e guida l'esclusività della risonanza cromatica agita da Radi: fatte di luminosità silenti o di oscuri clamori che affiorano plasmando e modulando la materia dell'involucro semitrasparente che le trattiene, assistiamo alla lenta evoluzione di opere che sono visione concreta di un concetto allo stato pupale, pronto e desideroso di accedere alla pienezza della vita e, quindi, di chiarirsi nell'universo definibile dell'esistente.
La concezione analitica dei lavori di Radi lasciano intravedere la possibilità di decifrare il mistero insolvibile dell'immagine e del suo valore intellettivo e conoscitivo, pertanto la prassi del suo fare artistico assume i contorni di una ritualità sacrale che, opera dopo opera, cerca di concedere allo sguardo del mondo la decifrazione di una teofania, di una apparizione trascendente, che superi il limite-confine del reale.
Nel superbo lavoro intitolato Trittico del grigio dorato tale esercizio sacrale trova una risonanza ulteriore nel riappropriarsi di una struttura compositiva che immediatamente rimanda alle formule dell'antico: al suo interno, invece che al rinnovarsi rituali di sacre conversazioni, dedicazioni, estasi o crocifissioni, Radi accoglie una nuova modalità espressiva per attuare quell'intrinseca esegesi del visibile che lega le diverse tipologie di sue opere. Anche in questo lavoro composito si celebra il rito dell'immagine che affiora e germoglia; che anima un proliferare di essenze vive e mai appagate di doversi chiudere entro una bidimensionalità non più sufficiente. Non soddisfatte della loro condizione "pittorica" queste molteplici forze espressive agiscono esercitando una pressione che si fa spazio concreto, visibile e rintracciabile nel reale, e sono in tensione, al limite, pronte ad irradiare tutta l'energia vitale che le attanaglia o ad implodere in un nulla che lascia sempre spazio alla speranza di altre e nuove apparizioni.
Riccardo De Marchi
Riccardo De Marchi
La cifra caratteristica del linguaggio di Riccardo De Marchi si basa sul ritmo determinato da una costellazione di buchi e fori che trapassano, marcano e modulano la superficie e il corpo delle materie da lui impiegate. Mappe, traiettorie, coordinate di rotte, composizioni scritturali sono frequenze che, ripetute incessanti con un'attenzione severa e misurata, attivano la concretezza apparentemente imperturbabile delle cose e permettono loro di vibrare e risuonare di una serie di "tracce", identiche e differenti allo stesso tempo, che impressionano plausibili narrazioni le cui proprietà semantiche si estendono tra un arcaismo essenziale e una contemporaneità rinnovabile. Tempo antico e tempo attuale si vivificano nell'esperienza costruttiva di De Marchi che assottiglia al grado zero l'espressività potenziale dei materiali stessi: questi, generalmente metallo e plexiglas, lavorati in misura minima, evidenziano l'attività estremamente concentrata dell'artista che, allontanatosi da ogni apparentamento figurale, recepisce la possibilità di acuire, nella rarefazione, il valore iconico del suo segno-simbolo.
L'elemento "buco" insegue le forme di una grafia che non determina il suo senso primo, non incarna interpretazioni o trascrizioni, ma si limita a tracciare un'azione ripetuta, pensata, centellinata, ascoltata e agita che mira all'essenza delle cose e alla loro possibilità multiforme, nello spazio e nel tempo.
Lo spunto che ci offre l'artista è quello di ripensare al contenuto delle materie, alla loro modificazione incessante che dilata le consistenze oltre il limite della loro natura e genera un'originalità stilistica che sa farsi esperienza rinnovata ad ogni nuova proposta. Non si duplica o non si replica, il lavoro di De Marchi cerca la soluzione in continue nuove contaminazioni di accadimenti che intercorrono tra lui e lo sguardo di chi osserva. Dell'altro intercetta il potenziale attraverso la lettura-visione delle opere che carezza, quindi, il loro apparire ambiguo e ne comprende nuove interpretazioni: l'accettazione del vuoto o del pieno, della presenza e dell'assenza, della manifestazione o della sparizione intercettando una dualità espressiva che innerva un modo nuovo di leggere la realtà.
Le materie spesso sono legate in una commistione che lascia in bilico l'opera tra plasticità e pittoricità, le due differenti nature che la definiscono; le tracce fendono superfici, passano attraverso ogni elemento risolvendo in una naturale bellezza l'invisibile trama lineare che evolve in qualcosa ora leggibile e percepibile.
Le diversità recepite sono le possibilità che oltrepassano l'intrinseca specificità del materiale nella sua naturale e scontata conformazione: De Marchi estende il punto d'origine imprimendo una costellazione che aggiunge e sottrae simultaneamente, che sa come connettere la scrittura alla sostanza, l'azione inseguita e quella pensata e, soprattutto con l'uso di superfici specchianti o trasparenti, le presenze pregresse che si assorbono, fisicamente e non più solo concettualmente, nel riflesso sulla loro caratteristica superficie.
Pino Pinelli
Pino Pinelli
Questa mostra offre l'occasione straordinaria per osservare una parte quasi inedita del lavoro di Pino Pinelli che porta la concretezza della sua pittura a confrontarsi con la matericità della ceramica. Momento particolare, quindi, per ammirare con attenzione una produzione particolare dell'artista che, nonostante la diversità di approccio che questo materiale implica, non tradisce la rispettosa devozione rivolta alla pittura cui ha dedicato, infaticabile, tutta la sua lunga e coerente ricerca e sperimentazione. La scelta ceramica neppure trasgredisce la sua considerazione per un colore inteso come elemento vitale dell'espressione pittorica: Blu, Giallo, Rosso e Oro sono opere che, anzi, inquadrano ancor meglio la poetica del maestro, la ribadiscono con efficacia e ne attestano tutta la sensibilità tattile nel concepire le consistenze delle sue testimonianze cromatiche quale fattore coloristico che è essenza tangibile e concreta. La ritrovata tridimensionalità del materiale cromatico non lo ha mai spinto al compiacimento della ripetizione, ma ha sempre orientato la sua mano ad una costante interpretazione analitica di una pittura che ha saputo emanciparsi da se stessa. Pinelli, infatti, ha estratto il colore-materia dalla dimensione del dipinto e, avendone letta e compresa l'essenzialità gestuale e tangibile, lo ha trasferito oltre il supporto, oltre la cornice, oltre la dimensione tradizionale del "quadro". Segno, gesto e volume, quindi, in lui si traducono in corrugazioni epidermiche che, abbandonate le forme e gli elementi ovvi della pratica del pittore, rendono evidente e presente la formalità della scrittura pittorica: la pennellata si trascrive concreta nello spazio e nell'ambiente, rendendo senza tempo e assoluto il gesto del dipingere, visivamente incarnatosi nell'esperienza presente.
Emancipandosi dalla necessità di dover interpretare idee figurali o astratte in senso stretto, Pinelli conquista una caratteristica autonomia individuale che porta la pittura ad essere evento esclusivo, singolare, assoluto nell'esplicitazione filosofico-estetica delle sue organizzazioni minime: le forme si allargano, s'ingrandiscono, assumendo la formulazione di disseminazioni le cui geometrie oltrepassano le abituali coordinate formali ed esatte; in ciascun elemento si rivendica l'energia magmatica che anima la sostanza di cui sono fatte e se ne esterna tutta la vitalità espressiva.
Se il gesto disperde prolifico un insieme coerente di presenze, queste, nel proprio corpo, mantengono viva quella forza vigorosa il cui dire, appena trattenuto, sta per espandersi in tutte le sue in-dicibili narrazioni. La contemporaneità e l'attualità del valore della ricerca dell'artista sta nell'accogliere dentro il colore tutta la storia della pittura e di rilanciarla attraverso il risultato dell'intenzione e dell'azione, dell'idea e del gesto che, combinati, prima di assecondare ogni formalismo rappresentativo, depositano colore su superfici. Dentro l'anima-corpo del colore vive l'immaginazione di Pinelli che ci accompagna ad una percezione differente dell'elemento cromatico: presente in ogni suo titolo, il binomio pittura-colore, cattura la nostra attenzione con quello spessore e con quelle tattilità che sorprendono la nostra sensibilità. Lavico, mediterraneo, caldo a prescindere dalle tinte, il fare pittorico di Pino Pinelli ha subito un processo di esorcizzazione dei suoi strumenti e di riscatto dai suoi supporti e rimarcare il concetto di un colore inteso come materia effettiva. Essa sola bastante a determinare la validità di una raffigurazione totale che nulla ha da spiegare o introdurre se non la sua reale possibilità di diventare un fenomeno artistico, capace di plasmarsi e modularsi come manipolazione di una sostanza primaria autosufficiente e di cui l'artista resta l'esclusivo e visionario esegeta. La sua trascrizione, la sua modellazione, la sua intonazione fanno trasmigrare al nostro sguardo i postulati con cui definire gli estremi di un nuovo modo di intendere e percepire il colore.
Grazia Varisco
Grazia Varisco
Figura di spicco dell'arte italiana contemporanea, Grazia Varisco è tra gli artisti che maggiormente si identificano per un rigore e una logica di ricerca essenziale che, dall'eccellenza della visione innovativa delle sperimentazioni ottico-cinetiche iniziali degli anni Sessanta con la partecipazione al milanese Gruppo T fino ad arrivare alle ultime e recenti, in termini cronologici, proposte del presente, ha saputo continuamente e infaticabilmente corroborare di nuove energie, nuovi spunti, nuovi stimoli, capaci di rigenerarla attualizzandola, la coerenza analitica della sua sperimentazione estetica e visiva.
La geometria e la sua articolazione/disarticolazione fisica sono termini imprescindibili del fare dell'artista che, appropriandosi di figure semplici, lineari, conosciute, le ha interpretate poi in una variabile differente di materiali che hanno saputo esercitare un'influenza specifica sulla dimensione percettiva di ogni suo singolo intervento, risolvendo l'identità di un oggetto-figura, senza snaturala, in una variazione dinamica in-finita. Quella che è stata sempre una lettura figurale di forme compiute e logiche, in Varisco trova allora un'insperata concretezza e una dinamicità tridimensionale tangibili, non solo ideali quindi, per la loro estensione effettiva nello spazio fisico della loro verifica, processo che, inevitabilmente, incontra il conseguente coinvolgimento dell'esperienza sensoriale di chi le osserva. Varisco porta a compimento, con la lettura delle differenti possibilità mutabili dell'immagine su cui opera, una scala di valori inediti e ne sa estrarre la radice indentitaria e anomala, connotante e rivoluzionaria, ordinaria e trasgressiva, in cui, alle regole appena disattese e smentite, ne sa definire altre impensabili. L'equilibrio assoluto di questa costante variazione e modellazione della "fisicità delle cose" non impone la finzione astratta dell'illusione, ma sa agire sulla materia-forma sollecitandola in quelle apparenti debolezze che spostano la loro riflessione sui meccanismi e i processi della percezione viva, sensibile, umana, fisica.
Le sue opere, che pure evocano, in taluni casi, la pittura apparentandosi ad essa, ma senza mai esserlo compiutamente, vivono di un precario equilibro che sa essere l'epicentro della stabilità della loro forza: nell'incertezza del divenire, abbandona lo sguardo ad una ripetuta e costante intimazione a riguardarsi e riferirsi alla freschezza dell'intuizione. Sarebbe un errore pensare alla Meridiana o ai Quadri comunicanti come ad un mero esercizio estetico intellettuale, in Varisco l'asciutta e concisa dimensione astratta ha sempre modo - ma si direbbe anche il dovere - di connettersi e confrontarsi con la fisicità delle "cose reali", di incontrale nella loro dimensione spazio-temporale effettiva e diveniente. Emblematica da questo punto di vista è la serie degli Gnomoni, il cui nome deriva dall'ago della meridiana, oggetto che, fisso e solido, definisce nell'alter ego immateriale della sua ombra mobile, la variazione del tempo e degli istanti, nonché del loro fluire incessante. In questi il modulo del quadrato si appropria dello spazio moltiplicandosi in una sequenza eccentrica che, pur nella continua progressione che segue un preciso protocollo, fa sua ogni anomalia, costringendo, nella lettura mobile a 360°, a viverlo come fatto di esperienza presente.
L'immagine sospirata, trattenuta, volubile e irrequieta, forse anche irriverente nel suo offrirsi al di fuori dei canoni stabiliti, rende vive e attive le sue creazioni guidandole ad una sollecitazione a tal punto variabile, da renderle quasi "fenomeni" che, oltre ad un necessario riferimento all'esperienza, rimodellano il principio stesso della loro intima conoscenza.
Giovanni Campus
Giovanni Campus
Equilibri di forme e misure regolano da sempre l'azione indipendente e autonoma della ricerca di Giovanni Campus che, con la coerenza della sua indagine, ha saputo attivare un codice espressivo che vive nella feconda commistione tra scultura e pittura. In uno spostamento semantico continuo l'artista modella la superficie pittorica fino a elevarla a intervento plastico, allo stesso modo, con un'azione quasi opposta, il plasticismo dinamico e tridimensionale della scultura tende ad azzerarsi nello stadio primordiale dell'ampio campo del monocromo pittorico e non solo.
La sua azione, schietta e semplice, pur nella sua complessa dinamica concettuale, agisce sullo spazio fisico, lo sollecita nelle sue urgenze, lo anima attraverso la riscoperta determinante delle sue recondite energie e forze invisibili: Campus rivela tanto la concretezza delle consistenze delle sostanze e la loro materialità visiva, quanto le loro collocazioni dinamiche ed evolutive e il loro statuto permutante. In questo modo ne imbastisce un nesso relazionale capace di coagulare la semplicità risoluta della nostra dimensione spazio-temporale. La scelta della sua esplorazione geometrica non avviene mai secondo una rigorosa determinazione logico-matematica; gli schemi dei piani pittorici, intrecciati e uniti alle direttrici concrete delle linearità da lui colte con le barre metalliche, estendono al reale, senza essere mai un elemento assoluto ed ultimativo, la visione particolare dettata dall'intuizione dell'artista stesso. In questo modo l'insieme delle opere si traduce nella relazione con lo spazio. L'uso di questa forma di intervento gli permette di dare, inoltre, un accento personale ad uno spettro diverso di soluzioni, modulando un'intensità sensibile che fa da coordinatrice a forme che cercano una relazione con la dimensione fluida del tempo. La potenzialità determinante offerta dalla materia rende definibile e meglio intuibile tutta la gamma attraverso cui si rendono infinite le possibilità espressive del segno: la "scrittura" di Campus impone alla scultura-pittura di connettere le proprie intime istanze con quelle del mondo circostanze, spingendo la tensione ideativa a manifestarsi nella mutevole cangianza del reale.
Pieno e vuoto, spazio e tempo, forme piatte e forme tridimensionali accolgono una complessa e avvincente pluralità di manifestazioni capaci di rinnovare continuamente il valore affermativo dell'intuizione e dell'immaginazione dell'anima astratta di Campus, approfondendo un pensiero che non rinuncia mai ad un rigoroso e complesso insieme di processi che portano a concatenare, nel divenire delle storie, l'autonoma soluzione rappresentata da ogni singolo lavoro. Opere come Determinazione interrelazionale del campo o Tempo in processo sono emblematiche di questo ricorso ad un dialogo che rimanda e cerca l'altro: connettersi con il mondo, diventare epicentro di una moltiplicazione di riflessioni sono i principi chiave del loro apparente costruirsi caotico che disperde, spezza, allunga, dilata ed estende il contenuto delle immagini oltre le abituali loro coordinate. L'uscita dal "grafico" dell'opera, la dilatazione degli elementi oltre un campo definito, la collocazione di immagini che paiono frammenti di un tutto più grande in Campus sono la necessaria prassi per rivelare quella volontà di presenza costituita dall'opera stessa. L'esigenza affermativa dei suoi lavori non si imprigiona in un estetismo ascetico, ma vuole legarsi sempre al vivere presente correlandosi con il luogo e l'istante della visione. Le sue opere si dichiarano attraverso uno spirito dilatativo e moltiplicatore che incontra e invade l'ambiente del nostro orizzonte universale. Queste non si lasciano solo ammirare dal nostro sguardo, ma necessariamente ci chiedono di essere agite tanto dai nostri sensi, quanto dalla nostra coscienza.
Paola Pezzi
Paola Pezzi
Per riflettere sulla ricerca di Paola Pezzi, più che di materia, sarebbe necessario parlare di materie o, meglio ancora, di materiali: le serie diverse di opere, che nel tempo hanno rafforzato quel suo caratteristico immaginario e la sua inconfondibile e semplice interpretazione formale delle "sostanze" usate, per dichiararsi nella visione dell'opera, infatti, si sono sempre composte di materiali comuni che, nella maggioranza dei casi, sono stati "trattati" da lei secondo una minima e leggera alterazione. Per mezzo della sedimentazione, dell'accumulazione e dell'organizzazione successive, regolate e studiate in ogni loro equilibrio e minimo scarto compositivo, Pezzi ha potuto cogliere e fissare un'energia e una mobilità immaginativa capaci di far trasferire l'oggettualità, compiuta e partecipata nell'esperienza reale dell'oggetto-opera, ad una sua nuova dichiarazione poetica. La concretezza delle cose sbiadisce i propri contorni, per introdurre altre categorie di giudizio e valutazione. Carte, feltri, sugheri, matite, stoffe, legni … si traducono in un nuovo linguaggio che porta le loro essenze ad innescare le proprietà intrinseche del loro stato attraverso la semplicità di una composizione-componimento che pare fiorire, fluttuare, emergere, zampillare, ondeggiare, svolazzare, germogliare… Insomma, nella moltiplicazione della Natura ne fissa i canoni della sua atavica bellezza, e, in questo modo, si dichiara alla vita. Particolarmente significativa ed interessante, da questo punto di vista, è l'opera Natura armata, in cui rami affioranti da una dispersione ambientale terminano, all'estremità superiore, con la forma di matite appuntite e ben temperate. La mina rossa messa in evidenza, pare contraddire il contenuto espresso dal titolo, enunciando una passionalità sentimentale plausibile ed ipotetica. Quelle esposte, invece, presentano una mina metallica, pronta a ferire per difendersi e proteggersi, mostrando, in questa versione, come la sensibilità di pezzi riesca a connettersi, metaforicamente e con garbo, senza banalità o superficialità, alla realtà del momento.
Pezzi non si limita ad organizzare solo le sostanze, ma le ascolta, le asseconda, le esplora, le analizza, l'interroga e, forse, persino la provoca, fino a interpretare, come un'abile regista, la proprietà stessa della materia per renderla consona ad un senso altro che ha l'urgenza di doversi manifestare: attesa e svolgimento riportano i suoi interventi ad uno stadio diveniente e progressivo, mai allineato con le posizioni di una compiutezza ultimativa o esclusiva, che, per quanto solida e concreta, rigenera la complessità, variabile e libera, dell'essenza esclusiva delle cose. Tra novità e citazione, tra riuso e creazione, tra figura e simbolo, la pittoricità e il segno - elementi cui ricorre dialetticamente l'artista - inducono la scultura ad evolvere dal suo preciso esercizio formale della dimensione strettamente fisica - che ribadisce sempre e comunque la profondità del proprio apporto - ad un superiore grado di lettura intellettuale. Il confronto con sensorialità differenti, con memorie e vissuti diversi, permette a Paola Pezzi di incontrare il favore visivo dell'altro, il cui sguardo segue le tracce, da lei riunite, per acuire quell'attraversamento, emotivo ed emozionale, che dagli strati della materialità si radica in quelli complessi dell'animo.
Giuseppe Uncini
Giuseppe Uncini
Tutto il lavoro di Giuseppe Uncini è indicativo di quel nuovo approccio, caratteristico di molte ricerche del Secondo Dopoguerra, che vedeva nel materiale impiegato dall'artista la prima irrinunciabile dimensione di senso dell'opera; era questo il prodromo indispensabile al sostegno dell'immagine che nel lavoro compiuto si sarebbe poi risolta in modo permanente e definitivo. La conoscenza profonda delle materie, che si traduceva in una scelta totale, fino a spingersi spesso ad un radicalismo cercato e osservato con assoluta devozione, rimandava l'identità stessa dell'artista a definirsi con quelle sostanze da lui impiegate: ecco, quindi che il destino artistico di Uncini si compie attraverso il cemento.
Componente basilare dell'edilizia, sostanza che modella il vivere e la geografia architettonica dell'uomo, il cemento viene introdotto dall'artista come mezzo per ottenere un nuovo pensiero estetico, una risposta altra e diversa della stagione informale: antiaccademico, apparentemente freddo e senz'anima, totalmente "tecnico" e senza possibilità di veicolare alcuna poesia artistica, nel fare di Uncini si leggono le sue inattese peculiarità profonde e, attingendo dal panorama della nostra realtà, impone la sua forza costruttiva impiegandola nelle superfici e nel corpo delle sue opere. La solidità monumentale di queste sculture ricorda le pareti delle grandi strutture architettoniche moderne, rimanda al cantiere, al pulsare di un'urbanizzazione che avanza e cresce, che delinea l'ambiente antropico; è la presenza dello spazio industriale, ci riporta agli ambienti di produzione. Il suo grigiore, freddo e atono, parrebbe allontanarsi dall'immersione in un immaginario sensibile e vivo, anche se, quasi ne fosse stato profeta, Uncini sapeva che la sua attualità lo avrebbe visto protagonista di una rivalutazione estetica. Sappiamo bene come, oggi, questo materiale sia stato introdotto, puro e schietto (come il suo), nella dimensione della nostra quotidianità, frequentemente presente nelle forme negli spazi delle nostre abitudini. Del cemento Uncini ha saputo, tra i primi, conquistare l'intrinseca bellezza.
L'artista sapeva che ormai questa materia sarebbe sempre più appartenuta ad una memoria collettiva e sarebbe stata sempre più dentro all'oggi: dopo una prima stagione in cui le Terre lo avevano portato a sperimentare quel carattere più vicino all'Informale, proprio con il cemento ha recuperato poi un ordine di idee che concepiscono una nuova tipologia di scultura, a prescindere dalla sua estensione di grandezza. Architettonica, disegnata e composta da geometrie precise, la sua scultura diventa installativa proponendosi quasi come memoria e frammenti di muro, recuperato da spazi senza tempo. In questa concezione puntuale del lavoro, Uncini trova anche una profondità intellettuale, oseremmo dire di tipo rinascimentale. Il cemento, in dialogo con il tondino di ferro, sperimenta una diversa appropriazione del dato sensibile che, nella combinazione di questi elementi, legge due pronunciamenti differenti: da una parte abbiamo il corpo solido dell'opera che, dall'altra, pare dissolversi nella sua forma progettuale e disegnata.
Uncini costruisce e deostruisce, compone e scompone, passa dalla pienezza al vuoto, dal corpo alla sua ombra, lasciando la solida certezza dell'opera sospesa tra una verità concreta e una ideale, tra corpo e ombra, tra disegno e realizzazione, tra progetto e prodotto: attraverso questo pensare l'opera mette a nudo, svelandolo, il suo processo e fa incassare al nostro sguardo la cedola di un senso che dal passato tocca il futuro, proponendo il tempo di un'opera che da reperto può realizzarsi nel seme fecondo di un nuovo, altro e plausibile, inizio.
Renata Boero
Renata Boero
La coerenza della ricerca di Renata Boero, difficilmente definibile secondo categorie convenzionali, sfiora quasi simultaneamente i confini della pittura e della scultura, spostando sempre il valore pittorico nell'affermazione di una tridimensionalità fisica effettiva. Inoltre, accertando una sorta di malleabilità caratteristica della materia, il suo carattere sperimentale sa accentuare l'aspetto poetico e lirico delle sue visioni grazie anche alla compartecipazione di un elemento incontrollabile come quello della Natura. Boero si riferisce e si rifà sempre al mondo naturale non solo per trarre ispirazione per le sue immagini, che ne ripropongono l'essenza figurale ridotta ai minimi termini, ma anche lo contempla proprio come fattore agente indispensabile per un'autonoma possibilità di intervento diretto, e collaterale, a quello voluto e pensato da lei stessa.
L'astrazione ciclica, ripetuta, messa in evidenza da ogni suo lavoro accoglie lo sguardo attraverso un continuo e incessante cambiamento capace di determinare lo stato impermanente delle cose: le essenze cromatiche e concrete impiegate trovano il ritmo di perfetta vibrazione la cui risonanza visiva accarezza la sensibilità di chi osserva. Se lo statuto informale non sottrae né stempera le energie, le forze, le spigolosità e le rugosità dell'epidermide pittorica e la relative concretezze fisiche, l'intenzione del materiale si alleggerisce con la poesia che solo il tempo e la materia stessa sanno imprimere sulle superfici e sulle sue consistenze. Boero sa bene che il suo colore (il Kroma) ha la necessita di incontrarsi con il tempo (il Chronos) e che le loro esigenze specifiche si possono amalgamare per ottenere quella giusta proporzione che si traduce nella sua opera. Con il suo lavoro si esprime, quindi, in termini che trascendono quel rapporto di fisicità esclusiva e, attraverso la specificità del materiale stesso su cui interviene, ce lo ripropone in termini di lirismo poetico o di categoria filosofica. Ogni lavoro dopo essere stato percepito coi sensi, si definisce naturalmente, senza sforzi né intellettualismo alcuno, nel pensiero, illustrando un orizzonte di visioni maggiore di quello che l'oggetto-opera potrebbe contenere nei suoi limiti concreti. Boero pensa al tempo, allo spazio, definisce l'ambito di valore del concetto incarnato nel materiale cromatico per trasformarlo in continuo e incontenibile racconto onirico.
In cicli come quelli delle Sequenze o delle Ctoniografie potremmo pensare alla sua manualità come ad un calibrato e consapevole lavoro concepito a quattro mani: Renata Boero scrive e dipinge con l'ausilio diretto della terra, o meglio avendo questa come strumento ulteriore cui affidare la decifrabilità del dato sensibile dell'opera. Lasciate interrate, le tele e le carte vivono una sorta di maturazione-mutazione che, pur senza subire il controllo o l'intenzione dell'artista, si ultimano attraverso la preziosa interpretazione imposta dalle forze e dalle reazioni ataviche insite nella Natura.
Che siano estratti di erbe, pigmentazioni naturali, l'azione del suolo e del sue risposte, l'esito finale è sempre la forma di una cromo-crono scrittura che l'artista accoglie e prefigura con la sua sensibile intuizione e visionarietà e, facendocene dono, ci porta a comprendere la magnificente bellezza concreta dell'invisibile.
Nunzio
Nunzio
La maggior parte delle opere di Nunzio sottintende un preciso atto di "distruzione" a quello ampiamente creativo definito delle sue sculture: i neri profondi, intensi, vivi e viscerali che le connotano si manifestano grazie al ricorso della combustione in cui il fuoco, elemento distruttore per eccellenza, non cancella, non disperde e non ferisce, ma estrae, scova, fa germinare, in una potenza solenne e incredibilmente suggestiva, il carattere solenne e monumentale che raggiungono le forme scultoree composte dall'artista. Bruciando in modo controllato – e al contempo casuale per l'impossibilità di un governo totale del processo combustivo – Nunzio porta l'impalpabilità corrosiva del fuoco a definire la sensibilità nuova delle stesse superfici combuste che, tanto nel colore, quanto nella consistenza, possono acquisire, nell'esito finale, inedite attribuzioni connotanti rispetto alla primaria materia d'origine. Questa, infatti, trasformata, conquista una nuova natura formale nella struttura ultima dell'opera. Secondo queste scelte di metodo l'artista si ritrova ad essere artefice di un'espressività che è esito di una metamorfosi non solo della stessa materia, da lui sollecitata all'estremo con la sua azione distruttiva e purificatrice, ma anche della dimensione intellettuale del lavoro scultoreo, spinto ad uno slittamento semantico rispetto alla convenzionalità della sua abituale prassi. Con analogo esercizio formale, senza alterarne significativamente la struttura, l'artista interroga le possibilità delle lastre di piombo che, fluttuanti e malleabili, predispongono allo sguardo l'emersione di altre tipologie geometriche che fanno convergere ed incontrare la solidità della scultura con il cenno intuitivo del disegno.
Nunzio ribalta, sovverte e inverte la definizione della scultura portandola ad una sua alienabilità temporale: già pesantemente agite nel tempo della produzione, le sue opere rimangono come concrete tracce, reperti frugali di un vissuto e un trascorso altro, testimonianze tangibili che non cercano la risonanza dell'infinito, ma nella corruttibilità pregressa ostentano la loro definitiva caducità e mortalità. Pur recependo una dimensione di senso intellettuale, ogni lavoro resta permeato, quindi, di una concretezza che sfida la realtà del mondo nell'essenza definitiva della deperibilità e della trasformazione delle cose vive.
La complessa semplicità del suo repertorio formale indirizza Nunzio ad una trasformazione delle verità presenti, agisce sul corpo della scultura e, quasi fosse un rito di una spiritualità sacrale peculiare, sulla pelle della materia rinnova l'esito di una testimonianza che deve essere sempre, senza ipocrisie e senza compromessi, una prova verificata, una verifica fisica del pensiero, dell'intuizione. L'artista allora concatena, quasi, una serie di esprimenti chimici con cui prova ad accertare la realtà e le sue leggi che, per quanto lontane dal voler coinvolgere immediatamente lo spettatore, non lo lascia mai indifferente o immune da giudizi, da riflessioni, da considerazioni. L'ombra nera delle sue combustioni o le superfici lisce ed epidermiche dei piombi, che sollevano e bloccano, in forme trattenute, il respiro del materiale, diventano l'oscuro specchio in cui si riflette, interiormente, la visione esistenziale di ciascuno e che queste opere totemiche lambiscono e ridestano attraverso la libertà di rivolgersi al mondo attraverso una dimensione visiva silenziosamente più intima.
La lettura alchemica della materia conquista una gestualità taciuta, quasi nascosta, eppure estremamente potente nel suo fare-agire che conduce la plasticità tridimensionale della scultura – anche imponente come in questo mostra, in altri casi su scala ancor maggiore – a mostrare la sua fragilità e la sua intima debolezza: allontanandosi dalla volontà di essere fenomeno estetico, Nunzio concepisce la forza di una riduzione scarna, spinta ai minimi termini, che porta all'abbattimento dell'inutile, all'eliminazione, forse anche in modo cruento e deciso, del superfluo.
Giuseppe Spagnulo
Giuseppe Spagnulo
La scultura di Giuseppe Spagnulo denuncia immediatamente la sua consistente e faticosa esperienza vissuta con la materia: la monumentalità grezza, la tattilità pura, senza compromessi o eccessivi e leziosi virtuosismi, e la vibrazione impetuosa delle sue superfici ci raccontano di un lavoro intenso, espressione di un duro confronto con l'azione della mano che si sforza di ottenere e interpretare, non senza qualche impegnativo sacrificio, il desiderio del pensiero. Carezza le idee, sfiora le suggestioni dell'animo, facendo sempre prima pulsare le membra delle opere; il corpo presente e reale della scultura, infatti, deve precedere ogni atto mentale, lasciando subordinato al dopo ogni riflessione e ipotesi teorica. Lo scultore ha un lavoro peculiare, differente da quello del semplice artista, di questo ne è assolutamente consapevole Spagnulo, perché sa che la sua missione è il rapporto schietto con la materia, deve conquistarla sapendo, di certo, di non riuscire mai a domarne fino in fondo lo spirito e la forza.
Spagnulo è, allora, la risposta evidente, potente e struggente, di quanto più tradizionale ci si aspetta dal lavoro di uno scultore: eppure, l'esegesi del suo esercizio scultoreo ci consegna la sensibilità di un autore che sa concentrarsi sulla vitalità espressiva delle sue forme semplici senza abbandonare mai all'artificio sterile le virtù della nuova forma con cui si traducono i materiali. Questi sanno farsi corpo vivo e presente, riscoprendo il valore e il peso di una scrittura formale che non ha mai nascosto, in lui, la propria fecondità espressiva, incisa nella concretezza piena del materiale che, partendo dalla terra e arrivando al metallo, ha consegnato al nostro sguardo il repertorio sempre differente, ma iconicamente definito, del suo racconto.
Le forme quasi primordiali di Spagnulo, pesantemente presenti per lo sguardo e concretamente incidenti sullo spazio ambientale, si vivono attraverso la sobria eleganza e la liricità rude di un pensatore il cui genio folle ha voluto seguire, senza mai rinunciarvi, la propria vocazione e dedizione nei confronti della sostanza vera del suo agire. Le sue opere si vivono, si toccano, pesano, sono ingombranti: predicano una bellezza non immaginata, ma colta dentro le forme, definita e compresa nella loro fisicità evidente. La bellezza che ne ricaviamo è quanto di più umano possiamo pensare; distante da forme di spiritualità trascendenti, il linguaggio scultoreo di Spagnulo mette radici nel mondo, si traduce dalle sue sostanze primordiali, si abilita nel tempo dell'esperienza della vita dell'uomo e in questa circoscrive lo spazio dei suoi confini.
Questo senso del limite si denuncia, spesso, in lui, anche attraverso il coraggioso atto di lasciare apparentemente incompiute le opere: ci sono i segni delle dita, i tagli grezzi di strumenti meccanici, le crepe, le spaccature, le fenditure, i residui di lavorazioni, le ossidazioni, il segno del fuoco, l'eterno creatore. Ci sono tutte quelle tracce, svelte e veloci, che riportano l'opera non all'imperizia dell'anima, ma alla consapevolezza del limite del tempo umano e alla necessaria rapidità con cui cerca di lasciare l'impronta della propria esperienza di vita. Un lavoro fugge dietro all'altro, consegnando all'ultima testimonianza sempre l'esito migliore, certo che quello successivo verrà superato da un altro nuovo da venire. Sfugge alla logica la gestualità di Spagnulo e conquista uno speciale sapore romantico proprio nell'essenza spregiudicata del suo equilibrio tra quanto è compiuto e quanto accennato, tra quanto è intuito e quanto è dichiarato.
La fatica e il peso di un lavoro, che traduceva in lui l'ansia feconda di produrre cambiamenti nella realtà, deve essere inteso come un esercizio di rischio continuo, di lotta per assecondare al proprio volere l'energia senza tempo della materia. In questa contesa, tra azione e pensiero, c'è la visione rivolta al Sublime che sa riflettersi nella sua scultura. Una scultura semplice e schietta, che respira e vive delle sue memorie, radici e origini, cercando le ragioni per imprimere alla scultura una nuova vitalità in un presente che spesso si distrae dalla ridondanza seducente dell'effimere.
La sua opera diventa insegnamento e ci parla di solidità, di certezze, di tradizione resa sempre attualità.
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