La Sicilia contemporanea ha le sua fondamenta nella Magna Grecia, ma non solo; troppo spesso non si tiene conto di quanto quella terra debba alla cultura araba che, prima delle altre (normanna, spagnola eccetera), ivi si è radicata. Queste culture non sono state episodi “imperialistici” bensì fondativi di quella cultura siciliana che è sempre stata di grandissimo spessore in tutte le sue manifestazioni, dalla pittura alla filosofia, dalla letteratura al teatro, dalla scultura al cinema. In più la Sicilia, sebbene sia un’isola, proprio grazie alle influenze sopra ricordate, ha sempre vissuto fuori dall’isolamento, tipico dei territori staccati dalle piattaforme continentali, arricchendosi invece di contatti, di scambi, di accoglienze e fortificando il suo evolversi nel tempo proprio con il costruire su basi solidissime, un po’ – se mi si passa la metafora – come i palazzi di Catania che si ergono da un sottosuolo lavico, durissimo e fortissimo. Eppure molti degli artisti lì nati per lo più hanno dovuto subire quella “morbida diaspora dalla Sicilia”1. Non è un caso se è Milano la città metropolitana che solitamente gli artisti siciliani scelgono come nuova patria – da Verga a Vittorini, a Quasimodo e a molti artisti di cui qui si parla – pur senza rinnegare quella di origine cui, con mille fili anche sotterranei, restano legati nonostante il loro percorso completamente “internazionalizzato”, nel senso non solo del riconoscimento del loro valore in Europa ed Oltreoceano, ma anche in quello per cui l’arte, al di là di ogni possibile genius loci, è tale solo se riconoscibile e valida in ogni tempo e in ogni luogo. È stato giustamente affermato che “restare in Sicilia è la consapevolezza dell’isolamento volontario riferito al grosso problema della distanza geografica. Inoltre per controparte è la posizione di totale indifferenza di un popolo ancora rimbecillito e schiavo tradizionalmente della propria sicilianità e indifferente al mondo, neppure sospettato, che già da tempo vive negando tutto il passato. [… Allora molti giovani] reagiscono con una fuga più responsabile «(rivelatrice come sempre di una situazione)»2. Se i più anziani dei nostri artisti, Carla Accardi, Pietro Consagra e Antonio Sanfilippo si “fermano” a Roma, e qui sarà anche Turi Simeti che poi si trasferirà a Milano, dove da giovani erano venuti Paolo Scirpa, Pino Pinelli, Emilio Isgrò, e arrivarono poi anche Ignazio Moncada dopo aver girato per l’Europa e l’Italia e lo stesso Consagra; Elio Marchegiani invece, nel suo “nomadismo”, non ha mai vissuto nella città meneghina anche se qui ha esposto numerose volte. Senza forzature, mi pare che possiamo elencare tre elementi che stanno alla base dell’opera dei nostri artisti i quali, ovviamente ognuno con la sua poetica, la sua tecnica e il suo stile, rendono il loro accostamento non un mero fatto contingente: infatti questi artisti, tutti connotati da un’espressione concettuale ed astratta, esprimono un forte senso della spazialità e dell’analiticità, ed usano un segno particolare, l’arabesco. Ebbene, alla ricerca delle origini, non posso non sottolineare il senso particolare dello spazio che la cultura e l’architettura greche hanno prodotto: dall’agorà, al teatro, al tempio; e nemmeno posso tacere il fatto che la cultura greca, la sua scienza e la sua filosofia, riprese e/o sviluppate da quelle arabe, si siano molto concentrate sull’analiticità – “analitici” si chiamano due parti dell’Organon di Aristotele, “analisi” è anche quella “matematica” eccetera –; infine rammento che l’arabesco, come dice il nome stesso, è di origine araba. Ogni uomo porta impresso nel suo deposito visivo tutto ciò che, consciamente o inconsciamente, ha veduto o semplicemente percepito, così gli artisti, per esempio, americani hanno nelle loro radici un’idea di spazio immenso come sono i loro territori oppure Raffaello aveva nel suo patrimonio di immagini le colline umbro-marchigiane, quindi nulla di più naturale che i nostri artisti abbiano introiettato quegli spazi siciliani a volte “desertici” ma soprattutto caratterizzati da una continua “inondazione” di luce, per cui si potrebbe dire che in Sicilia a creare lo spazio è soprattutto la luce, e non solo quella solare ma anche quella che riverbera dal mare, dalle spiagge, dai “giardini” (agrumeti) e da tanti altri fattori. Ed ancora, sembra quasi che le opere di questi artisti “assorbano” profondamente la luce che poi è modulata nelle varie cromie, plurime o singole, più che “emettano” luce, con l’eccezione di Scirpa nei cui lavori la luminosità è “materiale”, dato che l’artista lavora con i neon; mentre nelle opere di Accardi, Consagra e Sanfilippo troviamo un gioco di chiari e di scuri già nelle declinazioni dei segni e delle forme, ma anche, nei lavori successivi dell’Accardi, con le trasparenze (sicofoil); così Isgrò trova una spazialità “lineare” con la “cancellatura” che provoca anche un ritmo di luce e di buio, e Simeti con le sue estroflessioni costruisce, al di qua della tela, spazialità e ombre che dialogano con la monocromia della superficie. Anche Marchegiani nelle sue “grammature di colore” realizza costruzioni “primarie”, una sorta di pareti intonacate, impreziosite dagli slittamenti di colore sempre delicati e, direi, lirici. Infine, in Moncada lo spazio è quello delle superfici su cui accadono gli eventi riccamente cromatici – verrebbe da dire: come i colori intensi e plurimi della Sicilia –; in Pinelli invece la spazialità è più complessa, realizzandosi con una “collaborazione” imprescindibile con il muro su cui si “disseminano” le masse di colore, come se fossero “esplose” da un quadro intero, compatto. Si tratta di una disseminazione mai caotica ma sempre articolata ora geometricamente ora con allestimenti più elaborati – e, a questo proposito, non dimentichiamo anche quell’altra grandissima sedimentazione storico-culturale della Sicilia, il Barocco; un Barocco certamente ricco e suntuoso ma mai ridondante come quello, ad esempio, romano. Se poi consideriamo la seconda categoria che mi pare caratterizzi i Nostri, vediamo come l’analisi sia un altro elemento comune. Nei più “anziani” – Accardi, Consagra, Sanfilippo – appare come sia forte la ricerca di un segno alfabetico nuovo che va a costruire una sorta di “immagine” in cui le “lettere” si aggrumano, si dividono, si scandiscono ritmicamente; mentre Isgrò fa un’operazione inversa cioè cancella le parole, sovrapponendo il codice artistico/visivo su quello verbale. Moncada, che guarda al Giacomo Balla divisionista/futurista, più che la luce ama analizzare e rappresentare, con un codice astratto, il “movimento”, vuoi del “vento” vuoi della “danza”. Scirpa, invece, crea degli assemblaggi percettivi, delle accumulazioni di segni, tutti realizzati con neon colorati, quasi a ridurre dei solidi in elementi di geometria piana – come ad evidenziare le linee perimetrali delle loro superfici – che poi, riassemblati, creano a loro volta l’immagine, lo “scheletro” di un cubo, di un parallelepipedo o, addirittura, di una specie di “tunnel” infinito. Con Marchegiani e, ancor di più, con Pinelli siamo nella vera e propria “arte analitica”, quella affermatasi negli anni ’70 con le teorizzazioni di vari critici dei quali, senza dubbio, il primo e il più accreditato fu Filiberto Menna. Il primo, con le “grammature di colore”, già nelle titolazioni evidenziava un elemento di analisi (“gramma” in greco antico era la “lettera” dell’alfabeto, la scrittura) e con le “gomme” costruiva sulla parete elementari strutture, a scacchiera, a file parallele di rettangoli e così via, entrando nella corrente della Pittura Analitica in modo, direi, tangenziale. Pinelli è stato, e lo ha sempre rivendicato, “pittore analitico” con una sua caratteristica personalissima e originale: la disseminazione3, per la quale elementi geometrici o, in certi periodi, scaglie frattali tridimensionali vanno a collocarsi, a disseminarsi, sulla parete, sempre con un ordine che è logico ed estetico al contempo. Infine l’arabesco che, come dice Friedrich Schlegel, “è la forma più antica e originaria della fantasia umana”4, è già presente nell’arte degli Sciti nel II Millennio a. C. e lo troviamo poi in tutti i tempi e in tutti i luoghi come segno riconoscibile, ma anche come “forma originaria perché contiene ogni forma possibile”5. Orbene, se i segni dell’Accardi e di Sanfilippo, o le sculture e i disegni di Consagra, oppure le disseminazioni di Pinelli hanno nella loro stessa struttura un nesso evidente con l’arabesco; in Isgrò lo possiamo rintracciare quando l’immagine da cancellare ha una certa forma, come le mappe delle stelle (1970) o un planetario (2008), o quando cancella con le “formiche” (2009); in Simeti lo scorgiamo nei movimenti delle estroflessioni dei suoi elementi rotondi, mentre in Scirpa nelle spirali di luci al neon; ed anche l’“astratto” Moncada dal 1989 arricchisce le sue composizioni non solo di colori ma anche di segni che sono dei veri e propri “arabeschi”. Infine è da dire che Marchegiani è forse l’artista, tra quelli di cui stiamo parlando, che meno si è servito di questo segno, se non in parte nelle opere giovanili degli anni ’50 e ’60. Dunque, in conclusione, possiamo parlare di “sicilianità” nel lavoro dei nostri artisti? Certamente no, se con questa parola indichiamo un “localismo” vernacolare, superato non solo dalla globalizzazione degli ultimi decenni, ma già nei secoli precedenti dalla cultura “vera”, se la cultura greca, quella araba, la normanna e, poi, quella italiana hanno offerto all’umanità prodotti che reggono ogni confronto con lo spazio e con il tempo. Pur tuttavia, come qualche cosa degli avi si conserva nel codice genetico di ogni essere vivente, così anche gli artisti, e naturalmente anche quelli di cui qui si parla, mantengono sempre nel loro linguaggio, che certamente attraversa gli anni e i territori, qualcosa del loro primo patrimonio visivo, delle loro origini storiche e culturali, dell’atmosfera che li ha accolti, dal primo vagito alla loro “dolce diaspora”.
1Achille Bonito Oliva, Il sublime inquieto, in I percorsi del sublime, catalogo della mostra, Palermo, Parco di Palazzo d'Orléans e Albergo delle Povere, 15 maggio – 15 luglio 1098, Edizioni Mazzotta, Milano 1998, p. 11. 2Nicolò D'Alessandro, Situazioni della pittura in Sicilia (1940/1970), Celebes Editore, Trapani, 1975, p. 74. 3Su questo argomento, mi permetto di rinviare al mio La disseminazione. Esplosione, frammentazione e dislocazione nell'arte contemporanea, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2009 e di ricordare che “disseminazione” nel greco antico ha la stessa derivazione di “diaspora” (dal verbo “diasperéin” = “disseminare”), entrambi concetti che, non a caso, si addicono a Pinelli. 4F. Schlegel, Dialogo sulla poesia, ed. or.. 1800, in F. Schlegel, Frammenti critici e scritti estetici, tr. it. Vittorio Santoli, ed. Sansoni, Firenze 1967, p. 198. 5Franco Rella, Limina, ed. Feltrinelli, Milano 1987, p. 21.
Moderna Magna Graecia
Testo di critico a cura di Francesco Tedeschi
Moderna Magna Graecia. Persistenza di un Genius Loci.
Il rapporto con la terra d’origine spesso non ha un ruolo fondante per il linguaggio artistico o per determinare l’atteggiamento nei confronti delle scelte estetiche della contemporaneità, eppure qualche traccia delle radici culturali del luogo di nascita forse accompagna sempre l’artista, il più apolide dei creatori, in quanto il linguaggio delle forme non appartiene strettamente a quello di matrici linguistiche determinate dall’uso della forma primaria di comunicazione, la parola. Ciò può valere per tanti autori che definiscono i percorsi di una contemporaneità che si è nutrita implicitamente del passato, di un passato che si conosce attraverso le pietre, il paesaggio, lo spirito dei luoghi, più che per una tradizione nella quale si trovano immersi, intrecciandosi nel mondo le più diverse potenzialità di relazione con le culture del presente. Da qualche tempo, per varie ragioni, la numerosità, ma soprattutto la qualità degli artisti siciliani attivi nell’ambito della modernità e del suo rinnovarsi, è stata sempre più riconosciuta, e alcune rassegne di un certo livello hanno inteso portare attenzione alla presenza dell’arte siciliana non solo in una rilettura complessiva del Novecento, ma come componente attiva oggi, secondo accenti che le sono peculiari1. La scelta di elaborare un percorso che comprende alcuni degli artisti più rappresentativi della contemporaneità, raccolti attorno alle comuni origini siciliane - esponenti di posizioni diverse della ricerca artistica del secondo Novecento, non intende però qualificare in modo specifico una dimensione di “sicilianità”, ma muove dal presupposto che, per varie ragioni, di natura individuale più che per corrispondenze derivate da legami specifici fra di loro, numerosi sono i protagonisti di diversi aspetti tra i più avanzati dell’arte italiana che hanno in comune origini siciliane, tanto da far supporre che si possa riconoscere un carattere di eccellenza a qualche fattore che travalica la dimensione esistenziale. Una specie di Genius Loci attivo sotto traccia. Come dice Giorgio Bonomi nel suo testo, la “diaspora” di chi lascia la propria terra d’origine e trova altrove la forza di esprimere le potenzialità individuali, è un fenomeno che non può essere ribaltato per ritrovare meccanicisticamente la presenza di elementi originari. Non si può nemmeno, però, prescindere del tutto da questi, pur senza voler individuare dei caratteri comuni fra autori con poetiche e direzioni di lavoro molto differenti fra di loro, come è plurale l’esperienza della modernità. La scelta dei nove autori che rappresentano varie fasi di un dialogo fra le radici personali di ciascuno, connotate da un rapporto anche lontano con la propria terra, recuperato a volte per vie imprevedibili, e le posizioni individualmente assunte nel corso del tempo, vuole essere in primo luogo esemplificativo di alcuni percorsi che connotano l’arte del secondo Novecento. Un elemento di raccordo fra il distacco e l’appartenenza può essere individuato nella difficile relazione fra l’esperienza dell’origine e la proiezione di nuovi modelli e proposte. Un concetto che può essere utile a questo proposito è proprio quello del Genius Loci, inteso non come dimensione unitaria e stabile, forma tradizionale e immobile, ma come elaborazione culturale e dialettica dei caratteri di una “localizzazione” destinata a contenere non solo i fattori stabili di una memoria radicata in un tempo e in un luogo definiti, ma l’insieme dei tratti che compongono la qualità del “luogo” nella sua entità e identità dinamica. Come dice Christian Norberg-Schulz nel suo acuto saggio sul tema, il Genius Loci di una città, per esempio, “per poter ‘mettere radici’, dovrebbe contenere lo spirito locale e radunare anche contenuti di interesse generale, trasferiti per mezzo della simbolizzazione, e che hanno le loro radici altrove…”2. Le riflessioni di Norberg-Schulz, svolte nell’ambito di una sapiente e approfondita disamina del rapporto fra natura e cultura, fra la dimensione del paesaggio e quella della sua trasformazione per atto della progettazione umana, ma anche della sua capacità di interpretazione del senso del luogo, mettono in luce le necessità di una lettura che unisca attenzioni per il carattere geografico e quello storico, convergendo natural-mente verso la possibile definizione di una “geo-storia” dell’arte3. In questa prospettiva i riferimenti alla natura originaria dei luoghi e del paesaggio non sono nutriti dal malinconico rimpianto di una lontana concezione di perfezione, ma sono necessariamente complemento di un respiro che da quelli si allarga a comprendere la dimensione di un “ambiente” in cui l’uomo (di ogni tempo) trova una sua connotazione temporale e spaziale: “il paesaggio naturale diventa perciò paesaggio culturale: l’ambiente in cui l’uomo ha trovato il suo posto significativo entro la totalità…”4. Tale concezione dinamica e dialettica del Genius Loci può benissimo corrispondere a quanto accaduto storicamente in un territorio come quello della Sicilia, per la sua natura e per la sua posizione storico-geografica, ma potremmo, in senso traslato, considerarlo valido per ciascuno degli autori qui considerati. Ogni artista si afferma infatti per le proprie qualità individuali, andando a costituire in sè un’isola in cui si intrecciano le radici con le componenti composite dell’altrove. L’attenzione non va quindi indirizzata a riconoscere i fattori di una esperienza ancestrale comune, ma, nell’apprezzare e riconoscere il valore delle scelte specifiche, l’accento posto sul linguaggio e sul confronto con i linguaggi della modernità non elimina rapporti che nel corso del tempo ognuno di questi artisti è andato recuperando o nuovamente intrecciando, anche solo per ragioni esteriori, con una terra che ha avuto e ha un ruolo particolare nella produzione artistica contemporanea, quand’anche la loro stessa vicenda di formazione e di sviluppo sia avvenuta altrove. Presentando lavori di individualità spiccate e differenti, che si sono diversamente incontrate nel corso del tempo, ma che non si possono riconoscere all’interno di una storia unitaria, questa occasione espositiva non ha pretese di ricostruire una vicenda storico-artistica che può essere solo accennata, per frammenti, evidenziandosi piuttosto una possibile spinta alla qualificazione di percorsi specifici, che ritrovano per vie e ragioni diverse rapporti con un luogo d’origine, ombelico dal quale ciascuno ha poi preso la propria strada e verso il quale ha ritrovato, nel corso del tempo, particolari ragioni di ritornare, almeno idealmente. Un crocevia per la definizione di una presenza di artisti siciliani decisiva per le vicende dell’arte italiana del Novecento è rappresentato indubbiamente dalla figura di Renato Guttuso, sia in direzione della sua diretta implicazione, intellettuale e fondativa, in un rinnovarsi della pittura in direzione etica, partecipata, per quanto legata a una matrice che si andrà sempre più confinando nell’ambito di una scelta ideologica in chiave figurativa, sia per le sollecitazioni in certo senso avverse che egli stesso finirà a suscitare, per la sua azione diretta a sostenere un realismo che appare limitare le possibilità di indagine sulle strade di una rinnovata internazionalità nell’immediato secondo dopoguerra. Dal punto di vista storiografico si è approfonditamente impegnato Enrico Crispolti, nel riconoscere il ruolo di una compagine siciliana nell’arte italiana degli anni Trenta in chiave antinovecentista, che vede necessariamente in Guttuso il primo interprete, anche e almeno dal punto di vista della definizione di posizioni critiche alternative rispetto a quella che nei primi anni Trenta appariva assestarsi come dominante, in un richiamo a una “sincerità” che si può intendere come espressione di una prima relazione con condizioni istintuali ed emotive originarie5. Il riconoscimento di una effervescenza, per non dire propriamente di una “avanguardia” siciliana nel contesto artistico dell’Italia tra le due guerre, può condurre a considerarla solo una declinazione localista di un coacervo di vie esplorative che animano in maniera tutt’altro che monolitica quella stagione, se non fosse tra i passaggi più fecondi per gli sviluppi dell’arte dell’immediato secondo dopoguerra. La presenza del gruppo siciliano che vede in Renato Guttuso e in Renato Franchina i suoi maggiori esponenti ebbe allora la dignità di mostre in alcune delle principali gallerie italiane, dalla milanese Galleria del Milione (1932 e 1934), alle romane galleria Bragaglia fuori Commercio (1935) e Galleria della Cometa. Complessivamente, veniva rimarcata ancora alla fine del 1937 quasi come una curiosità la loro appartenenza a un clima culturale quale quello siciliano, che nell’ambito artistico veniva considerato periferico, rispetto a quanto poteva accadere in campo letterario, se ancora nel catalogo della mostra tenuta nella galleria della Cometa del 1937 si vedevano in Franchina, Guttuso e Lia Pasqualino Noto artisti “all’inizio di un viaggio”, di cui si auspicava l’evoluzione “in una terra felice laddove il nostro passaporto oggi li avvia…”6. Di lì a qualche mese, del resto, Guttuso veniva salutato quale autore dotato di una spiccata individualità, nella prima sua mostra personale, tenuta nella stessa galleria della Cometa (marzo-aprile 1938). Sempre nella Galleria della Cometa qualche mese dopo si tiene una mostra di disegni di Vincenzo Gemito che ha in copertina il curioso disegno “geografico” eseguito nel 1908, appartenente alla collezione Minozzi, che vede la coincidenza fra la figura femminile di una matriarcale donna del popolo e una carta del territorio siciliano. In questa felice e inusuale espressione di una modernità linguistica insospettabile in un autore come Gemito si può leggere la rivendicazione di una dignità dell’arte meridionale che vede nella Sicilia (o nella “sicilianità”) l’essenza di quella possibile “arte mediterranea” che Savinio, nel presentare quei disegni, affermava come qualità precipua di Gemito, nel suo essere punta avanzata di un Ottocento italiano autonomo nei confronti delle patinature francesi. Con i piedi bagnati nel Mediterraneo, l’arte italiana del secondo Novecento trova in una nuova pattuglia di artisti di origine siciliana alcuni degli interpreti più originali per avviare una nuova avventura di modernità e di modernizzazione, oltre lo scoglio della contrapposizione fra realisti e astrattisti, che pure da questa trae le sue nuove ragioni. Insieme a Dorazio, Perilli, Guerrini e Turcato, un nutrito gruppo di “siciliani” che fa capo allo studio di Renato Guttuso, e di cui fanno parte Pietro Consagra, ospite dello studio di Guttuso dal 1946, Concetto Maugeri, Carla Accardi, Ugo Attardi e Antonio Sanfilippo, pubblica nel 1947 “Forma 1”, il giornale con il quale essi si presentano come “marxisti e formalisti”, cercando di unire la ricerca del nuovo con una fede politica, secondo una visione che genererà i noti problemi di accettazione e di comprensione in un clima pronto ad accendersi nelle polemiche e nelle contrapposizioni di una fase di rapido movimento. Nel momento di elaborazione delle idee di quel manifesto, il gruppo vive però la scissione fra diverse prospettive, che non erano solo quelle del realismo e dell’astrazione. Lo si può cogliere, a distanza di anni, nelle memorie di Pietro Consagra, che ricorda come il viaggio a Parigi compiuto alla fine del 1946 con Maugeri, Turcato, Accardi, Attardi e Sanfilippo sia stato motivato non tanto da un atto di adesione a scelte estetiche specifiche, quanto da una volontà di apertura a diverse temperature: “Tornammo a Roma gonfi di gioia. Eravamo la generazione aperta all’Europa. I problemi di Guttuso non erano più nostri… (…) La nostra visita a Parigi doveva dare a Guttuso un grande turbamento, una delusione, che la sua passionalità e affezione non sopportavano. Avremmo voluto essergli amici lo stesso e si fece di tutto per non fargli pesare quello che ormai succedeva fuori da qualsiasi intenzionalità. Non era più il nostro polo di attrazione. Gli doveva capitare…”7. Non è in senso meccanicistico che il distacco da Guttuso si può considerare anche un distacco da quella “sicilianità” che accomunava le origini di autori destinati a pesare individualmente, più che come nucleo omogeneo all’interno di un gruppo caratterizzato da due componenti di formazione diversa, ma che si erano pienamente integrate, fra 1947 e 1948, in un esperimento collettivo di superamento del neocubismo in direzione astratta. Di certo l’aspirazione a una internazionalità che non fosse di secondo grado, come adesione a matrici nate altrove, ma da intendersi come via di costruzione di una specificità da spendersi nel confronto con una diversa “tradizione del nuovo”, di più ampio respiro, pare potersi considerare come presa di coscienza di un’altra prospettiva, proiettata all’infuori e nel futuro, più che immersa nelle proprie radici, e questo vale sia per i “siciliani”, sia per i “romani”, Dorazio in testa. Se questo può essere vero per quel particolare contingente storico, può essere anche considerato il motore di una aspirazione alla contemporaneità che pare volgere le spalle a tutto ciò che sa di origine, di immobilità, di passato, almeno nelle impressioni e nei giudizi immediati. Emergono allora altre direzioni di ricerca, in grado di illuminare le peculiarità delle poetiche dei singoli: la scoperta della forza autonoma del segno, che diventa forma, grafia, arabesco; o della “frontalità”, come carattere qualificante una diversa modalità di concepire la scultura, forse da subito da considerarsi in senso “ambientale” o “ambientato”. Accenni che ci riportano agli assunti sviluppati nel corso del tempo dai tre artisti qui considerati che a quel momento hanno direttamente preso parte, vale a dire Pietro Consagra, Carla Accardi e Antonio Sanfilippo. Limitandosi solo ad alcuni accenni essenziali, nel trattare delle opere che questa mostra propone, possiamo muovere, in termini cronologici, proprio dall’ultimo di questi tre, Antonio Sanfilippo, che va definendo nel corso dei primi anni Cinquanta il suo linguaggio, teso ad unire segno e spazio in una inscindibile unità pluridimensionale. Ne sono prova le opere del 1956, tra quelle nelle quali si verifica l’incontro evidente fra le due componenti di un lavoro che integra l’aspirazione alla forma e l’idea di uno spazio che ne trascende le condizioni immediate, secondo quanto lo stesso artista precisava allora nei suoi appunti8. Per passare alle realizzazioni tra pittura e scultura di Pietro Consagra, che dagli anni Sessanta-Settanta in poi, con la sempre maggiore pregnanza del colore, quale materia e componente significante, anima i suoi lavori in senso plastico ed espressivo insieme, dove le forme ottenute dalla sua ideazione paiono fecondare in un territorio spazialmente neutro, ma dotato di forti qualificazioni ambientali, per effetto della fedeltà dell’artista ai principi di una frontalità che conduce ad amplificare nel senso delle relazioni di “trasparenza” i lavori dotati di minimo ingombro fisico. Le opere di Carla Accardi sono tutte di un momento molto avanzato della sua attività, quando la progressiva estensione del segno grafico-formale sulle tele grezze raggiunge un grado di ampliamento che le rende frammenti di un discorso unitario, dove la spinta verso i bordi delle elaborazioni pittoriche va aumentando il senso di movimento interno e le potenzialità plurali del suo alfabeto formale. Se le opere, pur scandite in epoche diverse, dei tre artisti che sono stati tra i protagonisti di Forma e dell’astrazione a Roma degli anni Quaranta-Cinquanta, esprimono alcuni caratteri accostabili, accenti diversi qualificano le altre personalità di artisti, fiorite soprattutto fra gli anni Sessanta e Settanta, che costituiscono gli ulteriori percorsi delle ricerche formali qui rappresentate. Emilio Isgrò viene presentato con alcuni lavori recenti, dove il carattere sottilmente filosofico del suo agire sul segno mediante la cancellatura si arricchisce di attenzioni per il valore civico dei testi di riferimento e per la dimensione simbolica che la sua azione va a compiere su di essi, sia nel caso emblematico della Costituzione della Repubblica italiana, sia in quello di altri testi di natura giuridica o di pagine di quotidiani scelti per la loro qualità di immagini in grado di rappresentare un messaggio che dalla cronaca va verso la storia. Di Elio Marchegiani, che ha avuto una tensione esplorativa e sperimentale in varie direzioni, di natura fisica, concettuale, esistenziale e simbolica, sono presentati alcuni esemplari della sua stagione forse oggi più riconosciuta, almeno a livello di presenze in luoghi espositivi, vale a dire quella delle “Grammature di colore”, con le quali, alternando lavori su intonaco chiaro e su lavagne scure, egli sospende le sue linee di colore in una tensione astratta, misura del tempo oltre che dello spazio. Un altro linguaggio di originale ideazione è quello di Paolo Scirpa, che si apparenta parzialmente alle ricerche tecnologiche e ambientali dell’arte cinetica, portando alle conseguenze di una costruzione virtuale di uno spazio percepibile le ricerche ottiche, nella congiunzione di luce al neon, pertanto diversamente colorata, e specchi che scompaiono all’interno dei suoi lavori, trasportando il piano fisico in un’altra dimensione del reale, fino a generare dei veri e propri “luoghi” sospesi. Con i lavori scelti di Ignazio Moncada si affiancano esiti di quelle che possiamo riconoscere come due stagioni dell’artista, che in vario modo riportano la sua ricerca linguistico-formale a radici “mediterranee”, sia nell’Archeologia astratta, termine con il quale, nella seconda metà degli anni Settanta, l’artista ha creato composizioni che nei colori austeri e nella strutturazione spaziale richiamano lo spirito di una dimensione storico-archeologica, sia nelle composizioni della serie “Respiro vento”, dove invece la liberazione del colore avviene sulla concezione di una spazialità aperta, disseminata. Proprio la “disseminazione” è uno dei temi fondanti del linguaggio di Pino Pinelli, nella sua creazione di fo
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