Incontro Marco Parini storico artigiano, che sin dalla metà degli anni ’50 ha collaborato con artisti dell’arte del ‘900 nazionali e internazionali che a lui si rivolgevano per la realizzazione di opere scultoree in acciaio, ferro, rame e alluminio. Bury, Max Ernst, Lucio Fontana, Nevelson, Man Ray, Raphael Jesus Soto, Jean Tinguely, Twombly, ma anche Getulio Alviani, Enrico Baj, Matta, A. Otero, Pascali, A. Pomodoro, Seuphor, solo per citarne alcuni. Per oltre quarant’anni è stato a stretto contatto con il mondo artistico internazionale, una collaborazione fondamentale per la realizzazione di pezzi unici o multipli che ancor oggi abbiamo la possibilità di ammirare. Con alcuni artisti ha stretto rapporti di sincera amicizia: fra di essi vi era anche Ideo Pantaleoni. E’ con piacere che condivido questa interessante conversazione con “Mastro Parini” fatta di aneddoti e ricordi.
Marco Parini
"Il mio rapporto con il mondo artistico è incominciato grazie a Sergio Tosi noto editore di grafica e multipli che insieme a Fausta Squattriti accoglieva nella sua grande casa sia i grandi maestri che gli artisti emergenti di quegli anni d'importanza internazionale, difatti aveva una predilezione per gli stranieri, ricordo Pol Bury, Nevelson, Man Ray, Raphael Soto, Tinguely e molti altri. In quegli anni io avevo il laboratorio in Via Aleardi a Milano, (zona Paolo Sarpi oggi China town) in un contesto che comprendeva molti altri artigiani e nella stessa corte c’era anche Sergio Tosi. Un giorno Sergio Tosi mi sottopose un’opera di Pol Bury e mi chiese di produrla. Da quel momento nacque la nostra collaborazione e la mia personale amicizia con alcuni dei più importanti artisti del tempo. Oltre quelli citati prima ricordo Cy Twombly, Nike de Saint Phalle e altri ancora; per molti ho prodotto anche pezzi unici. Con Raphael Jesus Soto era nato un felice sodalizio durato fino alla sua morte così come con altri artisti venezuelani: sia io che mia moglie ricordiamo con grande affetto Alejandro Otero, uno dei primi artisti plastici sudamericani. Vivevo a diretto contatto con il mondo artistico e per questo motivo frequentavo sovente le gallerie d’arte invitato alla mostra di questo o di quell’altro artista. Fu proprio durante un’inaugurazione alla Galleria Schettini, sul finire degli anni ’50, che conobbi Ideo Pantaleoni, che poi venne a trovarmi in laboratorio e in quella prima occasione si portò via un po’ di “ferraglia” e poi non lo rividi più finché, anni dopo, doveva essere a metà degli anni 60, lo incontrai al Lido Degli Estensi vicino a Ferrara (località di villeggiatura che frequentavamo entrambi) così ripresero i nostri rapporti che non furono solo professionali, anzi potrei dire che al di là del fare produttivo ci legava una sincera amicizia. Conservo di lui un ricordo curioso… cercava sempre di ricomprarsi le opere che anni prima aveva venduto ai suoi collezionisti, era una strana mania, quasi un’ossessione… chissà perché! Un altro aspetto curioso che ricordo è quello che non amava molto legarsi ai galleristi, se non in casi eccezionali, penso avesse difficoltà a rapportarsi con il fine puramente commerciale del suo lavoro. Non essendo patentato spesso lo accompagnavo nel suo girovagare per gallerie, passavamo molto tempo a parlare di arte, della famiglia e della vita. Durante i nostri soggiorni estivi ci incontravamo quotidianamente in un bar nella località di mare che frequentavamo con la famiglia. C’era un aspetto che mi ha sempre incuriosito: la sua caparbietà e abilità nel non pagare le consumazioni, lasciava sempre “segnato”, così si diceva, e quando il conto lo saldava in una solo volta, magari a fine mese, pagava sempre con cambi delle sue opere; mai e poi mai l’ho visto pagare in contanti. Lui e sua moglie Bianca venivano spesso a cena da noi, apprezzavano molto la cucina di mia moglie, una volta le regalò un disegno “in onore” delle sue doti culinarie. Ricordo tutte le sculture che produssi per lui sia in acciaio sia in ferro. Era un lavoratore instancabile, preciso e attento a ogni dettaglio. L’ultimo ricordo che ho di lui è legato alla vigilia di Natale del 1993, ci fu una conversazione telefonica che durò più di due ore, era oltre mezzanotte quando ci salutammo con l’intento di risentirci il giorno dopo. Purtroppo la mattina seguente sua moglie Bianca ci telefonò per comunicarci che era venuto a mancare, così improvvisamente e inaspettatamente. Fu un grande dolore e oggi ricordo il Pantaleoni con affetto e ammirazione, la nostra fu un’amicizia fondata sulla collaborazione e il rispetto reciproco".
Susanne Capolongo 03 luglio 2014
Susanne Capolongo intervista Paolo Berra
Susanne Capolongo intervista Paolo Berra
In occasione di questa mostra alla Galleria Ferrarin di Legnago, sua città natia, torna all’attenzione del pubblico l’arte di Ideo Pantaleoni, con una esposizione che propone opere degli anni ‘50 del periodo MAC e giunge fino agli anni ‘70 con le opere tridimensionali. Sono capolavori che fanno parte anche della storia personale di Paolo Berra, che di Pantaleoni è l’erede.
Susanne Capolongo (S.C.) Signor Berra, come nacque la vostra amicizia?
Paolo Berra (P.B.) - La mia amicizia con il Maestro Ideo Pantaleoni inizia negli anni della mia infanzia. Siamo nel 1961, avevo sei anni e giocando a pallone, nel giardino del condominio di Milano in via Wildt al 5 dove abitavo, calciai la palla che finì nella finestra dello studio di Pantaleoni. Per fortuna era aperta e non feci danni.
Quel fatto mi torna spesso alla mente, perché allora non potevo pensare che Ideo Pantaleoni avrebbe colmato – in un grande rapporto di complicità intellettuale e affettiva – il vuoto lasciato alla fine degli anni settanta dalla repentina scomparsa di mio padre, che dell’artista era stato amico e collezionista.
S.C. - L'eredità che ha ricevuto è una grande responsabilità morale e affettiva nei riguardi di Pantaleoni, come vive questo “incarico”?
P.B. - Ha ragione nel definire che è una grande responsabilità morale e affettiva perché per riuscire a ricoprire questo difficile ruolo ho dovuto far tesoro di tutto quanto avevo visto e appreso nell’arco di 44 anni frequentando Ideo Pantaleoni e sua moglie Bianca Magri. Per loro, che non avevano figli, ero il nipote adottivo a cui raccontavano aneddoti, moti d’animo, storie fantastiche, il significato celato di atteggiamenti e azioni. Mi hanno raccontato e reso partecipe delle loro vite, motivo per cui cerco di valorizzare quanto ho appreso nel modo migliore, per quanto mi sia consentito.
S.C. - Ci vuole narrare qualche aneddoto particolare?
P.B. - Ho un aneddoto, di cui ho un ricordo indelebile e che mi ha sempre colpito, legata alla storia del proprio destino che tutti noi abbiamo scritto già al momento della nascita. Siamo nel 1944, Pantaleoni sfollato da Milano si trova su un treno diretto a Cantello in provincia di Varese dove aveva trovato rifugio, dato che il suo studio di Milano in Via Fontana era stato completamente distrutto in un bombardamento. E’ seduto su un vagone gremito di persone. Si alza per affacciarsi al finestrino e prendere una boccata d’aria, quando si sta per ri-sedere il suo posto è stato occupato da un'altra persona che con modi prepotenti gli fa capire che non ha nessuna intenzione di alzarsi. Pantaleoni per evitare discussioni si accomoda nel corridoio in piedi. Qualche minuto dopo il treno parte, c’è una sparatoria e il posto, che era stato occupato dal prepotente individuo, è perforato dalle pallottole che non lasciano scampo all’occupante. Lui mi ricordava questo vissuto dicendo che tutti noi abbiamo un destino, siamo legati da un destino, la casualità esiste sia nella vita che nell’arte, destino e caso sono un tutt’uno e questo lo rendeva sempre fiducioso.
S.C. - Quali erano i ricordi di Ideo Pantaleoni della Milano degli anni 30/40 e successivi, dove frequentò Sironi, De Pisis, Carrà, gli amici del Gruppo Mac in primis Gillo Dorfles ma anche Munari, Soldati, Fontana e molti altri.
P.B. – Vividi ricordi accompagnavano sempre le nostre lunghe chiacchierate, Pantaleoni ricordava con affetto Morandi dal quale aveva appreso, in qualità di allievo, il gusto della composizione delle nature morte, marcatamente evidenti in molti suoi lavori . Con il trasferimento a Milano e le nuove frequentazioni, tra queste quella di Sironi e di Carrà gli furono di notevole aiuto per migliorare l’uso cromatico dei grigi e le composizioni delle vedute in generale. Negli anni quaranta Pantaleoni ha un suo stile riconoscibile, per tecnica e composizione, ma il contesto con cui si confronta gli impone nuove scelte che lo porteranno ad abbandonare, se non in modo definitivo, il figurativo per concentrarsi sull’astratto. Il M.A.C. sarà il punto di partenza per la sua nuova visione e ricerca artistica, ricerca che sarà sempre presente in chiave rivisitata fino agli ultimi lavori che eseguì a quasi novant’anni nel 1993.
S.C. – Ideo Pantaleoni ha iniziato a dipingere all'età di otto anni e ha proseguito per tutta la sua vita, un'esistenza consacrata alla pittura espressa con raffinata maestria in tutti i suoi cicli artisti, secondo lei cosa ricercava nell'arte?
P.B. - Una cosa sola: l’equilibrio della composizione unita alla cromaticità, che a volte poteva essere quasi monocroma, basata su infinite gradazioni di grigi e azzurri oppure ritmica, con l’uso di colori vivaci, come se fosse una rappresentazione musicale di Beethoven o di Mozart. Pertanto definirei che ricercava un “equilibrio ritmato”, da Morandi l’ equilibrio della composizione, il ritmo dalla sua amata Parigi.
S.C. - Il piacere dell'arte non è un’ esclusività dell'artista che la pratica, ma anche del fruitore che la osserva, lei che è l'erede di tutta l'opera di I.P. come vive la passione per l'arte?
P.B. - La mia vita si divide fra la Famiglia, Lavoro e Arte e devo dire che l’Arte fa da frizione a tutti i vari problemi quotidiani. Per me l’arte rappresenta una finestra aperta all’immaginazione che non ha limiti, in particolare l’arte di Pantaleoni è a mio avviso ancora tutta da scoprire e valorizzare. A volte mi chiedo come mai certe opere non sono ancora esposte in grandi musei dove migliaia di persone tutti i giorni le possono ammirare? Mi sono dato già una risposta e spero di riuscire a mettere in atto il mio pensiero così ripagherei la fiducia accordata.
S.C. - In realtà parlavo solo di pittura, invece Pantaleoni si dedicò anche alla scultura e alla ceramica, grazie anche ai consigli di Lucio Fontana, opere poco conosciute dal grande pubblico.
P.B. - In effetti Ideo Pantaleoni sul finire degli anni ’50, durante i soggiorni estivi ad Albisola, si dedicò alla ceramica, dove si narra che con la complicità dell’amico Lucio Fontana realizzò una serie di sculture. Anche in questo caso, come per Morandi, le sculture risentono dell’influenza del Maestro trasferita all’allievo e talune opere sarebbero eseguite a quattro mani, una sorta di anticipazione a quelle che oggi si definisce “collaboration”. Sebbene per fattura e soggetti fossero di grande classe, e sicuramente sarebbero state apprezzate dal collezionismo, la quasi totalità delle opere non fu mai esposta e venduta da Pantaleoni ma rimase sempre nel suo studio, forse per ricordare e conservare gelosamente l’esperienza del lavoro artistico con Lucio Fontana. La tridimensionalità era già presente nelle opere sin dai primi anni ’40, la possiamo trovare nei bozzetti cartacei per la realizzazione di sculture, rilievi e gioielli geometrici che furono in seguito realizzati e oggi di grande attualità.
S.C. - Pantaleoni ha vissuto con Parigi con rapporto speciale, si relazionò con artisti di livello internazionale come Hartung, Klein, Poliakoff, Seuphor e Soutine, ma anche con galleristi e Musei come il Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris. Le parlava di quel periodo così culturalmente interessante?
P.B. - Parigi era la sua vita, l’atmosfera magica e frizzante che percepiva era fonte inesauribile di creatività. Parigi era sempre presente in ogni conversazione e il suo grande rammarico fu che dopo il secondo infarto degli anni ’80 non riuscì più a tornarci. Che fosse amico di grandi artisti è comprovato da numerosi cataloghi e libri con dediche “ad personam” e opere di piccolo formato che figuravano nella sua collezione, sicuramente fonte di scambi o regali. Le opere di Pantaleoni eseguite a Parigi si contraddistinguono per l’eccezionale esecuzione del tema che si trattati degli ultimi figurativi /cubisti del 1947/48 al M.A.C. o dell’astratto informale o gestuale degli anni ’60, quasi sempre sono realizzati su tele con telai a misura francese, come fosse un marchio a conferma dell’origine dell’esecuzione dell’opera. Segnalo opere esposte in musei, fra cui il Musée de la Ville de Paris, e al Salon des Realites Nouvelles.
S.C. - Pantaleoni ha esposto in rinomate gallerie italiane e francesi, è stato un artista apprezzato dal mercato e dal collezionismo, così come dalle Istituzioni, ricordiamo le partecipazioni: alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale romana e alla Triennale di Milano. Come viveva il rapporto con galleristi e collezionisti?
P.B. - Pantaleoni ha vissuto il rapporto con le grandi istituzioni con notevole spirito altruistico e collaborativo, difatti vediamo presenti le opere in fondazioni e musei, fonte di donazioni negli ultimi anni di vita e all’inizio della carriera a fronte di acquisizione per riconoscimenti e premi, vedi premio Bergamo e molti altri. Diverso è stato il discorso del mercato, con taluni galleristi stabilì collaborazioni ultra trentennali, ma con alcuni mercanti e altri galleristi è risaputo che non accettò mai di abbassarsi alle richieste di produzioni seriali per soddisfare le esigenze del mercato, volle essere libero di presentare le sue continue ricerche, anche a discapito dell’aspetto economico e del rapporto commerciale. Difficile dire se fu una strategia vincente. Forse spetta a me valorizzare i vari percorsi artistici della Sua vita.
S.C. - Avendo frequentato per molti anni lo studio del maestro si può dire che è tra gli amici che ne hanno l'intima conoscenza. Chi era e come era Pantaleoni?
P.B. - Un uomo generoso, sensibile, schivo e molto intelligente. Quando dico generoso desidero sottolineare il fatto che era sempre disponibile con tutti i suoi colleghi del tempo, non mancava mai di supportarli sia per consigli morali, etici e privati ma era anche disponibile ad aiutare chi si trovava in difficoltà economiche, peccato che pochissimi gli furono riconoscenti. Sensibile perché riusciva a percepire emozioni che altri, come il sottoscritto, non hanno e il bello sta proprio nella capacità che aveva nell’esternare questa sensibilità raffigurandola con le sue composizioni e cromatismi. Tutti i suoi cicli hanno questa caratteristica come fosse una sua seconda firma. Schivo perché non amava i rapporti sociali/politici/strategici e prediligeva visite discrete e pochi rapporti interpersonali, aveva solo i suoi famigliari ai quali dedicava quasi tutto il suo tempo e il restante al suo lavoro. Conosceva moltissime persone ma con poche stringeva amicizia. Quando definisco Pantaleoni particolarmente “intelligente” è per far meglio comprendere la grande figura enciclopedica che era, vissuto fuori dall’epoca dei Computer oggi lo definirei un “Motore di Ricerca” sapeva tutto nel campo dell’Arte a partire dall’Arte Egizia ed Etrusca, per non parlare della musica. Per me fu una grande scuola di pensiero. Dalla Sua scomparsa mi manca tantissimo “Lo Zio Panta”, così ero solito chiamarlo. Lo ricorderò sempre con grande affetto.
Susanne Capolongo intervista del 5 giugno 2014
Il percorso concreto di Ideo Pantaleoni
Il percorso concreto di Ideo Pantaleoni
IL PERCORSO CONCRETO DI IDEO PANTALEONI
Che cosa spinge un artista ormai più che quarantenne, di impianto espressivo più che tradizionale, in un’epoca difficile come l’immediato secondo dopoguerra, a sperimentare un astrattismo tanto radicale da poter essere definito “concretismo”? In questo senso la storia di Ideo Pantaleoni – perché è di lui che stiamo parlando, e non di Lucio Fontana, che pure potrebbe rispondere, mutatis mutandis, alle stesse caratteristiche appena esposte… - è paradigmatica di un momento difficile per la cultura artistica italiana, e al contempo di una capacità di ricerca, di esplorazione, di rinnovamento di cui molti “piccoli maestri” (nella cui categoria annoveriamo anche il nostro) diedero prove tanto interessanti quanto accantonate dalla cosiddetta “grande storia”, così veloce nel dimenticare, nel guardare soltanto ai filoni principali di ogni fenomeno. Certo, oggi – e da almeno un trentennio – anche le vicende del concretismo italiano sono state indagate nelle loro linee guida, ed è stato riconosciuto il posto che spetta a questa tendenza nel novero delle ricerche susseguenti al “crollo” ideale, concettuale e ideologico di tutto l’apparato novecentista che aveva retto quasi tutta l’arte italiana nei vent’anni precedenti la fine della guerra, e tuttavia l’occasione di una rassegna come questa consente ulteriori indagini, più accurate, persino più intime sulle motivazioni personali, sui moti dell’animo, sulle pulsioni individuali connesse agli stimoli esterni, alle sollecitazioni culturali, che possono aver condotto nel breve volgere di pochissimi anni un artista da una pittura memore di quella di Armando Badodi, il “chiarista” vicino al movimento di Corrente – mi vengono in mente a questo proposito le riproduzioni de “il mio studio” e “La mia camera di sfollato” rispettivamente del 1942 e del 1943 – alle geometrie astratto-concrete prive di ogni narratività o riferimento a situazioni psicologiche o personali. Di sicuro, quegli anni consentivano cambiamenti repentini, e in un certo senso li imponevano. Tutto ciò che era avvenuto “prima” della fine della guerra era comunque contaminato da valori, da compromessi, da una retorica che sembrava aver qualcosa a che fare col totalitarismo del regime fascista, anche se si trattava di una natura morta o di un paesaggio, per cui tutti gli artisti già attivi sullo scorcio degli anni Trenta – e Pantaleoni era nato nel 1904, per cui la sua attività era già matura allora – in un certo senso si autoimponevano di rigettare quello che era lo “stile” d’anteguerra, e di cercarne uno nuovo, che rispondesse prima di tutto ai canoni “politically correct” di un’arte per così dire “democratica”. Pantaleoni, che aveva partecipato al Premio Bergamo (il premio d’arte “progressista”, voluto dall’intellettuale fascista Bottai) e a qualche mostra sindacale, tipica dell’epoca, ma che nella sua vita d’artista era stato indifferente alle seduzioni del regime, e ne era stato ricambiato con altrettanta indifferenza (a parte le puntuali recensioni di singoli intellettuali molto attenti alla vita artistica) si trovava di fronte all’unico bivio linguisticamente possibile in quegli anni: la strada postcubista e picassiana da un lato, l’astrazione dall’altro. Si noti che entrambe queste strade passavano comunque per Parigi, anche se la strada dell’astrazione ci arrivava per così dire “via Svizzera”, e talora persino nella sua parte tedesca, mentre quella postcubista era diretta, maestra, e infinitamente più frequentata. Picasso era diventato “il” pittore progressista, l’esempio fulgido di intellettuale impegnato, di artista schierato, e per di più – ma spesso questo sembrava essere un mero accessorio – era un grande pittore, un caposcuola, l’immagine stessa della modernità, sia con la “M” maiuscola che con l’iniziale minuscola. Nel contempo Parigi era tornata ad essere la città degli artisti per eccellenza, il luogo dove tutti si incontravano e dove tutto era accaduto, e sarebbe accaduto ancora (solo pochi si accorgevano del sorgere di nuove capitali dell’arte, ma la tradizione italiana era tutta rivolta alla Francia, una volta tolte di mezzo dagli avvenimenti storici quelle poche e deboli possibilità antagoniste mitteleuropee), per cui il “viaggio a Parigi” era un momento obbligatorio per ogni artista che volesse anche nei fatti dichiarare il proprio rinnovamento. Di più, a Parigi, oltre alla forte “colonia” italiana degli anni Venti e Trenta, prendevano piede quegli artisti italiani che vivevano là, ma che erano stati marginalizzati dalla cultura italiana perché lontani stilisticamente dal Novecento e dintorni, come il Gino Severini di certi anni e soprattutto Alberto Magnelli, affiancati da altri, come Silvano Bozzolini, che avevano deciso di trasferirvisi subito dopo la guerra: tutto faceva di Parigi la meta di una sorta di Grand Tour al contrario. Pantaleoni non fa eccezione, e vi si reca nel 1948 per la prima volta, rimanendone tanto affascinato da decidere di prendere subito studio là, dividendolo con quello di Milano. Resta tuttavia da comprendere il punto cruciale perché abbia scelto la via dell’astrazione rispetto a quella più consueta, e francamente più conseguente rispetto alla sua pittura precedente, di un picassismo aggiornato e riconosciuto. Alcune biografie dell’artista parlano effettivamente di una primissima fase francese di postcubismo con aspetti surrealisteggianti ma a parte un paio di “nature morte” datate 1948 ed esposte alla Biennale di Venezia dello stesso anno non siamo riusciti a rintracciarne molte altre (c’è una foto dell’artista che lo ritrae con sullo sfondo alcuni lavori di matrice postcubista…), mentre già dalla stagione 1950/1951, tornato a Milano, Pantaleoni entra a far parte del M.A.C. (Movimento Arte Concreta), il movimento fondato da Gillo Dorfles, Gianni Monnet, Bruno Munari e Atanasio Soldati, su basi rigorosamente astratto geometrica e, appunto, “concretiste”, cioè ispirate ai concetti di forma, di non narratività, di assoluta mancanza di ogni “psicologismo” (parola che allora comprendeva ogni idea di espressione individuale) e “contenutismo”, di concretizzazione di forme astratte, di coincidenza tra segno e significato. Non sappiamo se l’adesione di Pantaleoni – e soprattutto la sua rivoluzionaria svolta stilistica in senso davvero concretista, assolutamente impensabile solo pochi mesi prima – sia maturata a Parigi o nelle frequentazioni milanesi di quei convinti astrattisti (l’amicizia con Lucio Fontana, di cui abbiamo sicura testimonianza nel periodo di Albisola, qualche anno più tardi dunque, potrebbe essere iniziata molto prima, e un disegno di Lucio Fontana è già presente nella “Prima Cartella del M.A.C.”, serie di dodici multipli pubblicati quasi come “manifesto” del Movimento nel dicembre 1948), ma nel breve volgere di qualche stagione Pantaleoni è un concretista a tutti gli effetti, senza alcuna reminiscenza evidente di altre tendenze, di precedenti periodi, rapidamente dimenticati e apparentemente senza alcun rimpianto: i cosiddetti “Bollettini del M.A.C.” del primo formato fortemente rettangolare, e della seconda stagione 1950/51, presentano Pantaleoni come socio italofrancese, mentre l’opera pubblicata non ha più nulla di riconducibile a quelle “nature morte” di matrice bracquiana esposte a Venezia nel 1948, se non nella presenza compositiva di forme contrapposte. Da allora e almeno sino al 1957, Pantaleoni (che si fa chiamare e talora firma anche “Panta”, con un chiaro riferimento alla moda futurista di nomi veloci, dinamici e, appunto, futuristi …) è un concretista per così dire “di stretta osservanza”, e gli anni 1954-1955 sembrano i più prolifici e autonomi: è in queste stagioni che il suo linguaggio astratto si precisa e si concentra, e che la composizione si divide quasi equamente tra un andamento orizzontale dinamico, con linee spezzate sovrapposte a campiture di colore, e forme più compatte e semplici, con campiture “à plat” molto presenti e volutamente ingombranti sulla superficie, che si equilibrano sia dal punto di vista geometrico che da quello cromatico. Sono stagioni in cui Pantaleoni vive il suo maggior momento di internazionalità: nel pieno delle forze, diviso tra due capitali riconosciute dell’arte – Milano e Parigi -, accolto in entrambe tra i gruppi più esclusivamente ristretti, se accanto al M.A.C., entra a fra parte anche (nel 1948) delle “Réalitès Nouvelles” francesi, e verrà portato come tipico esempio di appartenente al Groupe MAC-Espace, quando questo nascerà nel 1955 dalla fusione tra concretisti italiani (e soprattutto milanesi) e astrattisti geometrici francesi, l’artista italiano produce le sue opere storicamente più importanti, concettualmente e formalmente più compiute, quelle che oggi sono maggiormente ricercate in virtù del risvegliato interesse per tutte le neoavanguardie europee e in particolare italiane. Tuttavia, come accade spesso per i singoli artisti che hanno vissuto una stagione perfettamente consonante col proprio tempo, per poi proseguire su strade diverse, più individuali, anche Pantaleoni sembra essere vissuto ed esistito – nel sistema e nel mercato dell’arte – solo per quei pochi anni concretisti: una volta esaurita quella vena, e intrapreso strade prima vicine all’Informale, dal 1957 almeno sino al 1964, poi a un cromatismo gioioso dagli echi francesi (Gerard Schneider, Vieira Da Silva, e Jean Paul Riopelle, per esempio, che pur non essendo francesi avevano fatto di Parigi e della cultura francese il proprio riferimento), l’artista rientra in quel grande flusso di produttori d’arte capaci, attenti, anche creativi, ma non più “in linea” con la cosiddetta “tradizione del nuovo”. Eppure, per Pantaleoni, il decennio dei Settanta costituisce una ripresa di quei motivi concreti, nell’autonomia di una maturità, anche anagrafica (ha ormai sessantacinque anni quando inizia), ormai indiscutibile. E’ in questi anni, infatti, che concepisce degli altorilievi monocromi in legno o in anticorodal (una lega di alluminio), preceduti idealmente da una serie di tele e disegni con forme simili realizzati utilizzando l’aerografo sui contorni delle “dime”, ottenendo così un risultato formale “negativo-positivo” (tanto per ricordare un titolo del concretista Bruno Munari…) di grande interesse grafico, e concettualmente vicino a certo futurismo oltre, che, naturalmente, al concretismo di vent’anni prima. Ma se le tele mostrano questa composizione da “civiltà delle macchine”, le sculture – che tecnicamente sono degli altorilievi a parete, con pochissime eccezioni – appaiono subito più misteriose, a causa della loro monocromia. Come per l’aerografo, ma con un effetto infinitamente più sottile, anche nelle sculture la forma è definita per così dire “in negativo”, perché è l’ombra dello spessore del materiale che fa riconoscere la forma, come se ne disegnasse il contorno. I pannelli dunque mostrano e non mostrano la composizione, a seconda della luce che vi batte sopra, e così facendo variano costantemente, su una struttura ovviamente progettata (probabilmente è per questo motivo che Gillo Dorfles, in una breve presentazione dell’artista dei primi anni Settanta, richiama addirittura il concetto di “programmazione”): ma è proprio la variazione di luce, sostanzialmente imprevedibile, a creare il dinamismo, molto di più di quel vago ricordo di strani ingranaggi di “macchine inutili” (toh, ancora Munari!...) che, alla fine, fa semplicemente da “supporto” alla luce, vera protagonista delle opere. Potrà sembrare strano che un artista possa vivere stagioni tanto diverse, perché a ciascuno di noi si chiede coerenza, e a un artista ancor di più: difficile allora coniugare tutte le esperienze di Pantaleoni sotto un unico comune denominatore, se si guarda ai suoi risultati formali, e se si avvicinano questi esiti alle tendenze e ai movimenti della storia dell’arte, tuttavia, se ci si spinge un poco più indietro alla ricerca delle pulsioni emotive, dei motori che spingono alla creazione, si potrebbe dire che è la “luce” il minimo comun denominatore di tutte le fasi artistiche di Pantaleoni. Ricerca comune a moltissimi artisti, si dirà, ma questo non è certo un ostacolo o un difetto: è una constatazione che restituisce unità a un percorso altrimenti troppo dissociato, e rende giustizia alla ricerca creativa di Ideo Pantaleoni.
Marco Meneguzzo
Luigi Cavadini - Un artista ancora da scoprire.
IDEO PANTALEONI. Un artista ancora da scoprire.
La presente mostra, che celebra i 110 anni dalla nascita di Ideo Tommaso Pantaleoni, si inserisce in un periodo intenso che riguarda la sua opera. È infatti in fase avanzata di realizzazione il catalogo generale della sua produzione, che interessa circa sessant’anni di vita e di professione artistica. Solo alla fine di questo lavoro, che arriverà a documentare almeno un migliaio di opere si potrà veramente conoscere la storia di un maestro che, partito da un naturalismo che aveva come soggetti gli interni, le nature morte, i paesaggi e le composizioni di figure, sviluppa una ricerca che sa prima, nell’immediato dopoguerra, far tesoro delle esperienze delle avanguardie che hanno saggiato un’astrazione di carattere geometrico e, più avanti, comprendere la forza espressiva dell’informale e svilupparlo in modo originale sulla scia delle acquisizioni tecniche e delle sperimentazioni in atto in quegli anni. Discrimine importante nella “storia” artistica di Pantaleoni sono stati senza dubbio gli anni della seconda guerra mondiale, dopo i quali per lui come artista (ma in genere per tutti quelli che l’hanno vissuta) nulla era più come prima. E la sua pittura si trasforma, passando da rappresentazioni atmosferiche di nature morte e paesaggi, a costruzioni di interni in cui è evidente la necessità di semplificazione estrema che porterà da una parte all’astrazione geometrica e dall’altra alla definizione di forme per macchie di colore, attivando percorsi ben tracciabili nelle due stagioni cronologicamente successive. Riassume bene Gillo Dorfles – che Pantaleoni ha conosciuto fin dalle prime esperienze del M.A.C. – Movimento Arte Concreta di cui fu uno dei fondatori – la precocità della sua “geometria” quando sottolinea che “nell’immediato dopoguerra, quando l’arte non figurativa di tendenza geometrizzante-costruttiva - in una parola l’arte concreta - iniziava una sua timida riaccensione sulla scena artistica italiana, Pantaleoni fu uno dei primi ad accostarsi a questo schieramento”. Qui Dorfles parla di “riaccensione” perché in ambito italiano si era già avuta una stagione di arte astratto-geometrica negli anni Trenta con le due “scuole” - parallele e coeve - facenti capo alla Galleria del Milione di Milano (Oreste Bogliardi, Virginio Ghiringhelli, Mauro Reggiani, Atanasio Soldati, Osvaldo Licini, Fausto Melotti, Lucio Fontana) e al gruppo di artisti-architetti di Como (Manlio Rho, Mario Radice, Carla Badiali, Aldo Galli, Carla Prina, Giuseppe Terragni, Alberto Sartoris). Di questi artisti alcuni aderiscono poi al M.A.C. , fondato nel 1948 da Atanasio Soldati, Gillo Dorfles, Bruno Munari, Gianni Monnet, alla cui attività Pantaleoni partecipa fin dalle prime esposizioni. Il periodo concretista di Pantaleoni, copre più o meno tutto il decennio di storia del M.A.C. (1948 - 1958) non limitandosi alla produzione pittorica, ma partecipando anche ad alcune delle esperienze di sintesi delle arti che il movimento ha fra i suoi obiettivi e che trova una delle sue massime espressioni nella “casa sperimentale b24” presentata alla X Triennale di Milano nel 1954 in cui si fa appunto “sintesi” delle esperienze architettoniche e artistiche di Mario Ravegnani, Antonello Vincenti, architetti, e Bruno Brunori pittore (dello Studio b24) che progettano l’edificio in stretta collaborazione con Ideo Pantaleoni e Renato De Fusco, entrambi pittori. La ricerca di Pantaleoni non rimane chiusa nelle maglie rigorose del concretismo, ma matura negli ultimi anni Cinquanta una diversa sensibilità che lo porta pian piano, con passaggi graduali, ma rapidi, a sovvertire l’ordine della geometria per muoversi in ambito informale. Dalla perfezione al caos, verrebbe da dire, anche se, in verità, nel suo informale si riconosce un rigore costruttivo che si sfalda – o sembra sfaldarsi – nei dipinti in cui prende il sopravvento un movimento che agita la composizione che hanno lontane origini nel futurismo. Le varie declinazioni dell’informale trovano quasi tutte una declinazione all’interno del percorso di Pantaleoni, che usa macchie di colori e segni che racchiudono e mimano l’azione per comporre interessanti strutture che ora si raggruppano attorno a nuclei in apparente espansione, ora costituiscono frammenti di una esplosione, ora si dispongono come elementi in dispersione casuale su più livelli di una evoluzione spaziale. E sempre più, nel passare degli anni – anche quando torna, più avanti, alla geometria - lavora su valori atmosferici in cui le macchie-segni di colore ora si sfaldano in una tridimensione estesa, ora si fanno materia liquida che si distende sul piano prima di gonfiarsi e farsi “corpo”, ora si raccolgono – atmosfera pura – nel vibrare di cerchi rettangoli, triangoli e altri elementi euclidei. Ed è un percorso che non finisce mai, pieno di invenzioni, di cui appare chiara, in una visione retrospettiva, una continuità sorprendente dove il rimescolamento delle esperienze riesce sempre a creare qualcosa di nuovo. Un percorso che ha un esito felice di cui l’artista è pienamente consapevole: «sono sbarcato – scrive – in un mondo di tutto colore con una traccia ragionata di composizione “poiché penso che la pittura sia per me ora soprattutto colore”».
Luigi Cavadini Curatore del Catalogo generale di Ideo Pantaleoni
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