Gualtiero Nativi: Tensioni nello spazio. Testo Critico a cura di Luciano Caramel.
Gualtiero Nativi fu tra i maggiori protagonisti dell'arte italiana dai tardi anni quaranta del Novecento per qualità e novità, nutrite da un'intelligenza sottile e colta che si sposava a una sensibilità tanto riservata quanto ricca e a un accanimento rigoroso sul valore della forma a, con essa, della tecnica, delle materie, del mestiere. Complice la sua discrezione, il suo lavoro, pur largamente apprezzato, non si è però imposto come sarebbe dovuto avvenire, nel campo almeno dell'arte costruttiva, in cui il pittore raggiunse vertici tra i più alti, su di un piano anche internazionale. Anche a livello critico avrebbe meritato, e meriterebbe, una più larga attenzione, lo stesso, e me ne dolgo, non ebbi l'occasione (ma avrei dovuto cercarla) di dedicargli uno studio monografico. Richiamai il suo contributo in scritti di respiro generale sull'astrattismo di quel tempo, sottolineandone sì l'autonomia irriducibile a gruppi, fosse pure quell’Astrattismo classico di cui, con Vinicio Berti, Bruno Brunetti, Alvaro Monnini e Mario Nuti, Nativi fu promotore, fondatore ed esponente, e l'estraneità a koinè formalistiche, senza però l'approfondimento sistematico che la stesso sua novità avrebbe richiesto, e che sembrò profilarsi negli anni novanta addirittura nell'ipotesi, che non ebbe seguito, di un catalogo generale di cui si parlò in un incontro nel suo studio. Ho tuttavia seguito con interesse continuo l'attività dell'artista dagli anni cinquanta, incontrandolo più volte. La prima nel 1960, presentato da Giusta Nicco Fasola, che con la sua apertura, inusuale in uno storico dell'arte antica, mi introdusse nel clima in cui tra gli anni quaranta e cinquanta la pittura e la poetica di Nativi presero corpo, anche col suo appoggio Intellettuale, che accompagnò gli astrattisti fiorentini con scritti illuminati, a cominciare da quell'importante libro Ragione dell'arte astratta che uscì nel 1951, l'anno in cui Nativi con gli altri membri della pattuglia di Astrattismo classico espose alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma nella mostra Arte astratta e concreta in Italia. Che segnò il riconoscimento pieno delle esperienze dei toscani nel contesto delle ricerche astrattoconcrete svoltesi nel nostro paese dal 1947-1948, quando a Roma e a Milano sorsero Forma e il M.A.C., il Movimento Arte Concreta, ma anche la conclusione effettiva dell'avventura comune del gruppo, Che spiccò per il suo coniugare la modernità del linguaggio con un impegno nel sociale inteso e praticato come "forma nuova in corrispondenza di nuova realtà, capace di improntare la realtà", per usare le parole di Nicco Fasola per il catalogo di quella mostra romana. Impegno certo fondato ideologicamente, come quello degli artisti di Forma, ma con differente orientamento, pragmatico, aperto a destinazioni che la pura ricerca formale travalicano, nel rapporto, anche, con l'artigianato, in un fare postulato e vissuto fuori di restrizioni individualistiche: “Lavoro" - scriveva il filosofo Ermanno Migliorini nel manifesto di Astrattismo classico, da lui redatto - “per la collettività, ma anche lavoro collettivo, lavoro di bottega, mestiere", intenzioni radicate nella congiuntura politica coeva e condivise da Nativi, che ne derivò soprattutto, e in seguito esclusivamente, l'interesse primario per la struttura, in connessione con l'architettura, oltre che il ricordato privilegiamento del fare, delle sue regole, del mestiere, appunto, e della bottega. Che rimarrà fondamentale nel pittore, e da valutare nel suo valore intrinseco, al di qua di intenzionalità e passioni politiche. Allora, nel clima dell'immediato dopoguerra, più sensibili e maggiormente avvertite dai fruitori, con una partecipazione, un distacco o un rigetto che contribuiscono a spiegare la difficoltà di Nativi e compagni a essere accolti in una città oltre tutto tradizionale, ancorata al passato, per il “peso" medesimo di una storia ricca di cultura e d'arte. Che d'altronde lasciò in positivo tracce sensibili nella "classicità" strutturata di Nativi, nel suo rigore limpido, nella netta organicità delle sue strutture. In quell'inizio del settimo decennio in cui conobbi personalmente Gualtiero, si era già sufficientemente "vaccinati" - in una realtà economica e sociale ormai diversa e con quanto si affacciava a Milano e Padova con i Gruppi 7 ed N e con l'Arte Programmata - nei confronti del rischio di subordinare, in positivo o in negativo, il giudizio estetico alle componenti, diciamo così, contenutistiche, che avevano invece gravato sulla lettura e la fortuna dei contemporanei. Con una disponibilità peraltro minore di quella consentita dalla congiuntura in cui viviamo, che consente di comprendere appieno le qualità formali dei dipinti di Nativi di quella stessa stagione giovanile documentata in questa mostra da pitture eseguite tra i pieni anni quaranta e i primi cinquanta (4 del 1947, 6 del 1948, 6 del 1949, 1 del 1950, 3 del 1951, alle quali se ne aggiungono un paio più tarde, del 1953 e del 1956) di grande rilievo, che si impongono proprio per quelle caratteristiche di qualità e novità di cui si diceva aprendo queste righe. L'avvio della ricerca di Nativi, dopo un primo momento di esperienze figurative, è legato all'articolata flessibilità formale del postcubismo, che segnò l'apertura dell'arte italiana postbellica all'Europa, seppur spesso con una libertà solo di superficie, compositiva e meccanica. Subito, dal 1947, tuttavia, la scansione neocubista si dilata in Nativi in larghe campiture geometriche, dapprima con riferimenti antropomorfi, in una serie di Figure sedute, Figure dinamiche, Madri mediterranee nelle quali sono avvertibili anche ricadute degli incastri formali futuristi di Balla e delle stesure piatte del primo Magnelli astratto del 1915. Quest'ultimo presente anche quando, sempre nel 1947, Nativi passa a Strutture aniconiche, dalle quali si sviluppano i primi lavori qui esposti, del medesimo anno, ove lo sguardo è puntato oltr'Alpe, ad Arp, ad esempio, nelle forme ameboidi inscritte in strutture triangolari e trapezoidali di Composizione in grigio e rosso, per approdare subito a composizioni più essenziali, solidamente congegnate e vivacemente animate da colori timbrici uniformi, sempre con intersecazioni di piatte figure geometriche stagliate su fondi di diverso colore e chiarezza e presto, dal 1948, d'una dilatata uniformità, dialogante con i dinamici primi piani (le coppie di Composizione orizzontale e di Costruzione polidimensionale, appunto del 1948, ma anche, nello stesso anno, i più articolati incastri e la coeva Composizione). Con la ricerca, tra l'altro, di trasparenze, che richiamano Moholy Nagy, forse attraverso il Manlio Rho degli anni trenta, al quale è avvicinabile soprattutto, sempre per limitarci alla opere presenti in mostra, una Costruzione di quell'anno, a tempera su carta intelata, come la maggior parte di queste pitture, anche se non mancano tempere su tela, su cartone ed anche qualche raro olio, tecnica maggiormente usata dal 1949, dipinte sempre con estrema pulizia e accuratezza, che sottolinea si rigore razionale delle strutture. La linea che si accampa decisa in questi quadri si svolge sempre più spesso in diagonale, con un'accentuazione dinamica già in questa fase solo di rado frenata da tagli orizzontali e da scansioni ortogonali, di cui Nativi si serve talora per creare una dialettica col piano di fondo, nel quale solo troviamo siffatte definizioni strutturali, enunciazione, quasi, di un credo geometrico-strutturale con cui si confronta lo scatto energetico delle già sperimentate (Simboli, del 1947) forme rigide puntute e zigzaganti, ascendenti e quindi subito precipiti, con ritmo lineare continuo oppure ondulato. Così in special modo nelle due Costruzioni pluridimensionali del 1948 esposte, nella loro sintesi grafica quasi come dei diagrammi, su tre livelli spaziali, per l'ombra" frapposta tra la forma in superficie e quella dello sfondo. E sempre sul registro di una varietà sperimentale motivata da intenzionalità di adesione a svolgimenti non assoluti, ma fenomenicamente diramati e attivi. Fuori quindi del tempo sospeso e dell'immobilità mondrianesca, in una dimensione fenomenologica, che sarà quella del neocostruttivismo degli anni sessanta, dopo il richiamo appunto fenomenico, della rottura informale, qui preannunciato e precorso. Altro motivo denotativo di queste composizioni è il ritmo, che nel 1947-1948 dinamizza le composizioni geometriche con contrappunti di campiture cromatiche e di linee diversamente scandite e orientate e dal 1949, come poi lungo tutta l'attività creativa del pittore, di barre di differenti dimensioni e colori che si incastrano, ancora, o intrecciano, o scontrano con attrazione centripeta, presto, dal tardo 1949 (si veda in mostra Tensioni nello spazio) e poi in misura caratterizzante dal 1950-1951, con una sorta di deflagrazione trattenuta, nella quale riaffiora l'eco del futurismo, ora sul registro delle linee-forza boccioniane, non più con l'eleganza gioiosamente decorativa di Balla. Con soluzioni che possono essere avvicinate alle coeve Geometrie di Emilio Vedova, pur nella sostanziale alterità nei confronti dell'irruenza e dell' horror vacui dei grovigli del maestro veneziano. C'è sempre, infatti, in Nativi un distacco, che è mentale ma si concreta nella forma e nel colore, freddo, in genere, e come ghiacciato in una fissità minerale. Che con-vive con la temporalità dell'immagine nel suo diramarsi nello spazio, anche multicentrico e diversamente direzionato in una conflittualità frenata che esalta un'energia allo stato potenziale, piuttosto che in atto. Ciò anche quando, col passare degli anni, ma fin dall'aprirsi del sesto decennio, considerato in questa retrospettiva, va affiorando e poi rinforzandosi quella che Nativi chiamava "disintegrazione", con una più forte dinamizzazione che ha riscontro nei titoli, quali, nei dipinti qui presentati, Spazio dinamico, Energie spaziali e Combinazione di forze, tutti del 1951, Seguiti però nell'esposizione da un olio del 1953 che, ancora nel titolo, qui Da un punto, sottolinea, con l'apertura centrifuga, la centralità dinamica della struttura. Accostamento invero opportuno per segnalare l'irriducibilità dell'astrazione di Nativi a schemi, non solo a quelli manieristico-ripetitivi di tanto astrattismo geometrico italiano del secondo dopoguerra, ma al diffuso predomìnio del modello neoplastiio, con una qualche affinità, piuttosto, con l'antitetica "necessità interiore" di Kandinsky, che mi ha indotto a inserire Nativi nella recente mostra dedicata nel Palazzo Reale di Milano al rapporto tra il maestro russo e l'astrattismo in Italia tra il 1930 e il 1950. Affinità attiva, del resto fondatamente segnalata dalla critica. Da Elvio Natali, ad esempio, nel suo bel saggio per l'antologica dell'artista del 1985 alla Galleria Civica d'Arte Moderna di Gallarate, in cui si legge che "le forme [di Nativi] muovono dal mondo che lo circonda, che egli supera attingendo quella necessità interiore"', appunto, "di cui ci ha fatto convinti da tempo Kandinsky, L'operazione dell'artista affonda oltre la scorza del fenomeno; ma ciò non significa 'astrarre' dalla natura dimenticandola, quando piuttosto penetrare, 'addentrarsi' nel profondo dei naturale, entrare in contatto spirituale e mentale per esaltare la sostanza calata nelle forme percettibili. Non estraniazione, ma assunzione di forme nel regno superiore della ragione". Entro quindi, sempre, coordinate compromesse con l'esistente, individuale e sociale, ma non ad esso sottomesse, in un dialogo serrato, più che in un confronto, che dalla metà degli anni cinquanta si farà più allarmato, fino, alla conclusione del decennio, ad una inquietudine drammatica, chiusa nelle Immagini prigioniere (titolo quanto mai sintomatico) del 1959, anche talora con una partecipazione all'informale che incrina e incupisce la nettezza delle linee, l'equilibrio delle forme e la luminosità del colore, come in forti, disperate Lacerazioni di quell'anno, da considerare, nonostante la loro eccezionalità, per non limitare la comprensione, e il giudizio, delle stesse successive costruzioni, di nuovo "in positivo" in una ritmica possente e serrata che continua però a sottendere una sensibilità complessa e ricca, che si allarga nella tarda attività ad una aerea, eppure determinata, solennità, in uno spazio-luce trasparente e adamantino che non senza giustificazione ha fatto ricordare i precedenti dei sommi toscani Beato Angelico e Piero della Francesca.
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