Ugo Nespolo: Spazi d'evasione.
Intervista a cura di Michele Beraldo.
B. Lo studio di Ugo Nespolo è quanto mai interessante. Si trova nel centro di Torino, in uno stabile che doveva essere adibito ad officina meccanica, poi convertito in un immenso e funzionale spazio. Quasi a sottolineare i legami culturali con il futurismo e le avanguardie storiche del Novecento, l'artista ha dato forma e soprattutto vita ad uno straordinario ambiente creativo, in cui si mescolano, in uno complessità stimolante e intelligente, i diversi aspetti dela creatività umana. Di fatto si percepisce quanto sia fondamentale l'esperienza culturale nell'attività artistica di Ugo Nespolo, ed è lui stesso a confermarlo attraverso questo nostro dialogo.
N. La connotazione culturale m'è sempre piaciuta e non ho mai limitato i miei interessi alla sola pittura. Ho seguito sia i corsi dell'Accademia di Belle Arti a Torino sia la Facoltà di Lettere moderne dove mi sono laureato con una tesi in semiologia. Non ho mai creduto che l'artista debba usare solo i pennelli, non ho mai voluto crederlo, perché tutte le avanguardie storiche dimostravano il contrario: gli artisti teorizzavano, avevano una velatura culturale che dava una connotazione al loro lavoro. Non credendo che gli artisti debbano essere dei "cretini di genio", tutto talento e niente cervello, ho frequentato molti artisti intellettuali a cominciare da Man Ray e Duchamp.
B. Quanto ha inciso la tua formazione culturale nel processo artistico che è pur sempre il nucleo della tua vita e della tua attività professionale?
N. La mia formazione culturale mi è servita a comprendere dove stavamo andando, cosa stavamo facendo. In questi anni, per esempio, ho lavorato con Gianni Vattimo e ultimamente con Maurizio Ferrarris - assieme al quale sto scrivendo un libro - per cercare di capire come oggi stanno le cose dal punto di vista della creatività. La riflessione più significativa è quella di chiedersi: dove andrà l'arte nel futuro? Quale direzione prenderà? Non credo si possano dare risposte certe.
B. Sembra che l'economia prevalga notevolmente anche nell'ambito artistico, e che i valori effettivi all'opera non siano più quelli artistici ma essenzialmente quelli economici, non credi?
N. L'identificazione del valore con il prezzo porta a degli effetti deleteri, nessuno crede che Jeff Koons valga come quattro Caravaggio, due Canaletto o cinque Picasso, nessuno crede a questo. Secondo me è importante più di prima mettere l'accento sulle cose, avere l'idea esatta di che cosa sta capitando. Si sono sviluppate enormi variazioni da quando io ho cominciato a lavorare che oggi sono difficili da spiegare.
B. Vorrei ci raccontassi dei tuoi inizi e dell'ambiente artistico che hai avuto modo di frequentare negli anni sessanta: il gruppo dell'Arte Povera sorto attorno a Germano Celant, le prime sperimentazioni cinematografiche, insomma il momento nel quale hai cominciato a lavorare nell'arte e a farti conoscere.
N. Torino è stato sempre un centro d'avanguardia. Le prime mostre di "arte povera", curate da Germano Celant, le ho realizzate io assieme a Boetti che era uno dei miei migliori amici. Nel 1968 nella galleria di Arturo Schwarz a Milano ho fatto una grande mostra con quei lavori fondamentali e a vederla vennero tutti, compreso Celant. Ora quelle opere, eseguite in un periodo lontano della mia vita, sono state rivalutate e me le chiedono dappertutto. Bonami le ha volute a Palazzo Grassi di Venezia per la mostra "Italics", sono passate per Stoccolma, alla Kunsthaus di Zurigo e adesso le vuole la Tate Modern di Londra. E'stata comunque una parentesi che sinceramente mi annoiava e priva di interesse culturale. Infatti mi sono mosso in altre direzioni aprendomi una strada mia, più eclettica.
B. Non vorresti quindi essere catalogato come "poverista", sebbene questo comporti oggi un vantaggio?
N. Considero un vantaggio poter disporre della libertà creativa, non essere obbligato da un codice di comportamento che ho ritenuto, nel caso dell'Arte Povera, culturalmente povero. Ho sempre pensato che l'aspetto teorico non dovesse essere secondario, come era diventato invece dagli anni sessanta in avanti, e l'ho sempre considerato basilare. L'Arte Povera di teorizzazione non ha nulla se non quattro assiomi molto precisi.
B. In quegli anni nasce anche la tua passione per il cinema d'avanguardia, il cinema underground.
N. Insieme a Schifano sono stato da ragazzino tra i primi ad andare in America a conoscere la Pop Art che da noi nessuno sapeva che esistesse. Il mio rapporto con gli Stati Uniti divenne sempre più assiduo, entrai in contatto con il newdada e i post-dadaisti dei movimento Fluxus, frequentai i set hollywoodiani, e con Fernanda Pivano e Mario Schifano portai in Italia il cinema sperimentale. Quello per il cinema era un amore che nutrivo sin dai tempi dell'università ed ho cominciato a fare sul serio, a realizzare cortometraggi, a partire dal 1966, quando assieme ad alcuni amici filmaker ci siamo messi a trafficare con le cineprese a 16 mm. Inoltre conoscevo bene Man Ray ed un giorno a Parigi mi diede un foglietto su cui stava scritto il sintetico testo di un film mai realizzato "Revolving Doors", che divenne presto le mie "Porte girevoli". Ho imparato dagli americani ad usare la cinepresa come un pennello. La cinepresa non era più schiava della tecnica ma diventava erede della creatività espansa. Sino ad oggi ho girato più di venti cortometraggi coinvolgendo direttamente alcuni amici artisti: Merz, Pistoletto, Baj e Fontana si prestavano volentieri e con ironia a recitare in questi film.
B. Fondamentale per il tuo percorso culturale è quindi lo studio approfondito di tutte le avanguardie storiche. Faccio presente, a chi non è mai entrato nel tuo studio, che vi sono più di trentamila volumi e che collezioni molte prime edizioni di testi futuristi e surrealisti.
N. Mi sono sempre piccato di leggere libri sulle avanguardie storiche, conosco bene il surrealismo e soprattutto il futurismo. Ho inoltre raccolto circa 5000 manoscritti di Depero che erano dispersi: lettere, fotografie, manoscritti e cartoline che ho acquistato nel tempo e che custodisco gelosamente. Per certi aspetti nel mio studio ho mimato un po' - non solo in linea davvero letteraria - l'idea dello casa d'arte, quella che i futuristi avevano ben intuito attraverso la "Casa d'arte Bragaglia", per esempio, oppure la "Casa d'arte futurista" di Depero. L'unica casa d'arte che ho potuto vedere personalmente è stato lo studio di Andy Warhol a New York ed era davvero multimediale: si sperimentava la fotografia, il cinema, la pittura, la serigrafia e ogni mattina i componenti della "Factory" si trovavano attorno ad un tavolo da riunioni come se formassero un consiglio di amministrazione. Era tutto molto divertente e l’ho trovato congeniale al mio modo di intendere il lavoro artistico.
B. Hai detto che con il tuo lavoro sei andato alla ricerca di una strada eclettica, come ti definiresti allora?
N. In un'epoca di post-modernità, che non è da intendersi la coda della modernità, mi classificherei un precursore di essa, in quanto include l'idea di eclettismo. Con questo termine non intendo colui che non sapendo che cosa fare salta di palo in frasca, cercando di azzeccare prima o poi qualcosa di buono. Il mio è un eclettismo teorico, mi piace giocare su più tavoli facendomi se vuoi anche fraintendere. Piuttosto che avere quella posizione integerrima e sacerdotale in cui l'artista fa sempre lo stesso quadro, la stessa immagine, preferisco spiazzare, perdere la posizione acquisita. Il mondo oggi è composito e la figura dell'artista deve essere altrettanto composita. Uno che fa sempre le stesse cose appartiene ad un'altra epoca.
B. Per questo il tuo lavoro si diversifica nella tarsia, nel mosaico, nelle ceramiche, nelle sculture in bronzo, nel vetro e in molte altre espressioni della sensibilità artistica moderna come i cartelloni pubblicitari o il cinema?
N. Si, non mi limito a percorrere le strade più certe, quelle consolidate e sicure. Amo estendere il mio lavoro in tutti gli ambiti che hai ricordato, compreso il teatro e le opere liriche dove ho realizzato le scenografie. Sono materiali che prediligo così come non disdegno la stoffa e i ricami che ho eseguito prima ancora di Boetti. Le mie ceramiche o i vetri non sono soltanto la materializzazione tridimensionale dei miei quadri; pretendono di essere un linguaggio autonomo. Mi piace l'idea del rapporto con le oltre discipline, e anche la possibilità che viene offerta dalla pubblicità, dalla comunicazione. Ho ideato moltissimi cartelloni pubblicitari, come "Azzurra" o "Campari", forse i più noti, ed è una cosa che mi piace molto, mi rende versatile e libero. D'altra parte molti artisti l'hanno fatto in passato, pensiamo a Depero e a Munari.
B. Nel tuo lavoro principale, quello per il quale sei conosciuto - il quadro-tarsia lo vorrei chiamare - riesci a saldare la tradizione artigianale della lavorazione del legno con il presente tecnologico e postmoderno. Non ti senti anacronistico?
N. Mi è sempre piaciuta l'idea della esecuzione, una sorta di rivalutazione della manualità che si è persa da cinquantanni. In fondo l'artista è sempre stato un artigiano ed è inutile volersi affrancare da questo. L'idea di "tagliare" il supporto per avere una "nitidezza" d'immagine mi permette di ottenere un effetto di rigidità straniante. Un turbine di immagini, il mondo intorno - insomma - un flusso a colori; le mie opere si generano come in una fantasyland senza fine, ma non senza fatica.
B. Come è nata l'idea della tarsia?
N. Nel 1967 trascorrevo da solo a Torino un'estate caldissima, mio padre mi chiamava dal mare ma io preferivo godermi la città semivuota. Mi balenava l'idea di trovare una tecnica che restituisse nitore all'immagine. Avevo un grande pannello in legno e sono andato a cercare un artigiano che potesse tagliare e sagomare le forme che avevo disegnato, poi sono andato da un carrozziere, le feci verniciare e la cosa mi è piaciuta molto, in seguito realizzai dei quadri con questa tecnica e Marconi, il famoso gallerista di Milano, cominciò ad esporli, il primo ad acquistarne uno è stato Enrico Baj. Non lo conoscevo e da quel momento siamo diventati amici, è nato un sodalizio per tutta la vita. Baj era il prototipo dell'artista colto e raffinato, che aveva conosciuto i grandi dell'avanguardia storica, uno con cui non ti annoiavi a stare insieme, raffinato e con una grande personalità e umanità. Assieme abbiamo collaborato a lungo, in particolare a Milano dove nel 1972 abbiamo fondato il "Premiato studio d'arte Baj & Nespolo". Gli devo moltissimo e lo considero uno dei maggiori artisti del Novecento italiano.
B. I temi che ricorrono nei tuoi quadri riflettono il tuo modo di vedere la vita, portano alla luce interessi letterari e culturali ma aprono anche verso spazi di evasione e di gioco. Sembra quindi che il motivo dello spiazzamento, del non prendersi troppo sul serio, appartenga alla ragione del tuo lavoro. Quali temi hai scelto per la mostra che realizzerai da Ferrarin?
N. La riflessione che precede la domanda è giusta e come ho detto prima non ho mai voluto impersonare il ruolo dell'artista che mette in attesa il mondo soltanto perché sta creando! Quanto alla mostra da Giorgio, ho apprezzato innanzitutto il suo entusiasmo col quale ha voluto iniziare questo lavoro. Mi sono trovato in sintonia quando ha voluto che si realizzasse qualche cosa di nuovo, di diverso rispetto alle solite esposizioni a cui sono abituato. Accanto ai lavori finiti presentiamo anche i bozzetti. In questo modo sarà possibile cogliere il momento esatto della preparazione del lavoro, il nascere e lo svilupparsi assieme dell'idea. I soggetti su cui mi sono soffermato sono i luoghi della nostra cultura, così ho ripensato al mondo dell'arte, a quello della letteratura e della musica. Andando poi ben oltre quelle che sono le richieste solitamente accettabili, ho accolto l'invito di Giorgio a realizzare una veduta del teatro Salieri di Legnago in omaggio al grande compositore.
B. Il tuo proposito di aprire delle finestre verso il mondo equivale forse ll'enunciato delle avanguardie storiche e cioè di portare l'arte nella vita?
N. Ho scritto proprio un libro che si chiama "Arte e vita". Basilare è l'idea che l'arte non debba essere un corpo morto dal contesto sociale. L'arte oggi non ha nessun rapporto con la sfera reale, è così impermeabile a quello che succede nel mondo che è diventata insignificante, se non dal punto di vista esclusivamente collezionistico. Oggi l’arte non interessa a nessuno. Non è come un tempo quando Duccio di Buonisegna nel trasferire la Maestà dal suo atelier sino in duomo a Siena veniva seguito da un corteo di popolo. Quindi l'arte è fuori dalla vita, non ha incidenza, e questo è un grave danno.
B. In che modo potrebbe avere un riflesso nella vita?
N. Soltanto se vi sarà una fusione, un interagire reciproco tra cultura alta e cultura bassa; soltanto a quel punto l'arte sarà uscita di nuovo allo scoperto come è stata in altre epoche, per esempio durante le avanguardie storiche. I futuristi premevano affinché l'arte potesse non solo entrare nelle case dei collezionisti ma andare nelle piazze e nelle strade delle città. Credo che una delle possibilità di salvezza dell'arte debba essere proprio questa; l'artista non deve far finta di essere ai disopra di tutti, su di un terreno privilegiato dove celebra una messa che solo lui capisce, ma deve impegnarsi in una veicolazione più orizzontale e in un connubio salutare con le pratiche basse. In altre epoche c'è stato un fenomeno secondo me molto interessante che era quello dell'arte applicata: l'arte che decorava i palazzi, l'arte che stava in rapporto all'architettura, la scultura che stava nelle piazze. Tutto questo non esiste neanche più, non c'è più, o se esiste si tratta quasi sempre di brutture.
B. C'è spazio ancora per l'arte nonostante tutte le ambiguità e la confusione che essa genera? Con che coscienza e responsabilità l'artista opera oggi nel contesto sociale?
N. L'artista oggi non opera in nessun contesto, se ne sta chiuso quasi sempre nel suo angoletto. L'arte invece non ha alcun risvolto culturale, l'unico aspetto a richiamare l'attenzione generale sono i prezzi che realizzano alcune opere nelle case d'asta. Altre volte prevale l'aspetto scandalistico, se non fosse che non interessa più a nessuno guardare il Papa colpito dalla meteorite o cose del genere: è come sparare le frecce nella mortadella. Non stupisce più nessuno e soprattutto non conta niente. Certe derive concettuali sono orami totalmente insignificanti e prive di alcun fondamento culturale. Qual è il punto di frizione, di connessione, tra l'arte e la società oggi? Nessuno.
B. Cosa significa allora essere un artista del proprio tempo?
N. Significa abbracciare il proprio tempo, significa andargli dentro, prenderlo in considerazione. L'artista non è grande solo perché si estranea dal mondo. Se lo fa, per quanto brillante e intelligente che sia, finisce per diventare un corpo estraneo, una specie di autistico di lusso chiuso nel suo studio. L'arte, specialmente quando la fai, quando è davvero in movimento, quando è militante in senso reale, deve essere strettamente legata alla società e deve incidere sul sociale. L'unico rapporto che l'arte ha oggi con la società è invece di natura scandalistico-economica, per il resto non interessa a nessuno. Ci sarà un motivo per cui i telegiornali tutte le sere non dedichino cinque minuti all'arte e vi sia invece spazio per qualsiasi altro argomento.
B. Non possiamo però credere che la colpa sia soltanto della società; forse a partire dal clima concettuale degli anni sessanta e settanta alcune fuorvianti manipolazioni dell'arte hanno contribuito ad allontanare la gente dalle mostre e dall'interessarsi ad un mondo che diventava sempre piùesclusivo, e a cui nessuno si rivolgeva per il timore di passare per ignorante.
N. Certo, la colpa non è solo della società ma anche dell'arte che ha costruito un sistema che è totalmente al di fuori. Una volta, per esempio negli anni cinquanta, c'era un binario univoco: da New York a Tokio tutti facevano l'informale, ed erano più o meno le stesse cose, da tutti comprensibili. Oggi se vai alla Biennale di Venezia o a Documenta di Kassel, qualsiasi cosa tu veda l'artista ti vuole dire che quella è un opera d'arte. E tu non sai perché, non sei in grado di giudicare se lo sia oppure no! Che cos'è un'opera d'arte? Questa è la domanda che oggi tutti ci facciamo. In mancanza del "binario" c'è il deserto colmo, c'è tutto. Ma il tutto è anche il contrario di niente. Se tutto è opera d’arte anche niente è opera d'arte. Questo può anche voler dire che siamo di fronte alla sparizione dell'arte e forse non sarebbe neanche un male.
B. Sembra quasi che se l'artista è serio (da un punto di vista professionale) e non accetta di entrare all'interno di un sistema scandalistico o economico, ma lavora attingendo dalle sue idee e dalla sua capacità creativa, rischia forse di essere dilegg