Marcello Morandini: Racconti in bianco e nero.
Colloquio di Giorgio Bonomi con Marcello Morandini, a cura di Federica Boràgina.
Giorgio Bonomi: La sua arte è stata definita in vari modi: arte costruttiva, concreta, optical, minimal, cinetica, programmata eccetera. Credo che tutte queste definizioni vadano bene ma con dei limiti: del resto tutte le classificazioni, sebbene utili per un discorso storico, poi a ben guardare sono troppo larghe o toppo strette. Lei si ritrova in queste definizioni e, inoltre, quale è la ragione per la quale il suo lavoro spesso non è esposto nelle mostre di genere in Italia, ma ad esempio è documentato largamente al Museo d’Ade Concreta di Ingolstadt, fino al punto che la sua scultura davanti all’ingresso, composta dalle forme geometriche essenziali (triangolo, cerchio, quadrato), è stata presa come logos del museo stesso?
Marcello Morandini: Le ragioni sono in parte spiegate nel testo di François Burkhardt, scritto lo scorso anno per la mia esposizione personale alla Casa del Mantegna a Mantova. Lui chiariva però solo l’aspetto ideologico e politico della mia scelta di essere stato un artista emigrante. Da parte mìa posso dire che vi sono state due ragioni precise per cui il mìo lavoro, dopo il 1972, non è stato più esposto ufficialmente nelle “mostre di genere in Italia”: la prima è proprio nella sua domanda, che elenca almeno sei definizioni diverse sulla natura del mio lavoro, anche se di queste nessuna singolarmente ne esaurisce l’appartenenza e quindi da qui è nato il problematico inserimento del mio lavoro in mostre specifiche. Problema continuato in seguito anche da curatori dì mostre ufficiali che non conoscevano in Italia il mio lavoro. La seconda è che, dopo le iniziali mie partecipazioni ufficiali per l’Italia alla Biennale di S. Paulo in Brasile nel 1967, con la sala personale alla Biennale Internazionale di Venezia nel 1968, la presenza alla mostra italiana alla Pollock Gallery di Dallas e all’Europalia a Bruxelles nel 1969, dato il clima violento e ottuso di contestazione, in Italia non ci fu più un interesse e una grande attenzione a quanto i miei colleghi ed io, con coerenza, proponevamo. Fu proprio allora che ricevetti, dal mondo della cultura tedesca, inviti ed attenzioni (documentati nella mia biografia), che mi allontanarono professionalmente per molti anni dall’Italia, dove ritornai definitivamente nel 1998 per la nascita di mia figlia Maria Enza, del resto anche lei concepita ad Heidelberg!
G.B. Non sono del tutto d’accordo sul fatto che il campo dell’arte italiano, dagli anni ’70 in poi, non riservasse attenzione ai problemi delle arti programmate o come si voglia definirle: lo dimostrano le mostre su questi temi tenutesi proprio in questi anni o la grande considerazione che aveva il nostro comune amico Gianni Colombo. Ma, al di là di questo, che per altro richiederebbe giorni di colloquio, vorrei sapere come nasce la sua opera. C'è prima un’immagine mentale, un’idea, e poi un calcolo matematico o prima c’è un calcolo matematico e poi la forma? Mi rendo conto che può sembrare il problema dell’uovo e la gallina, ma è interessante conoscere l’origine di un’opera. Credo che i grandi artisti del Rinascimento con le loro eccezionali opere “matematizzate” (la prospettiva, la sezione aurea ecc.) avessero già nella mente le loro immagini matematizzate più che trovate dopo calcoli così complessi che, in vero, sono stati sciolti molto dopo solo con il computer.
M.M. Ogni opera è un racconto di forme. Nel corso degli anni, il mio modo di lavorare è molto cambiato: all’inizio si trattava di un piacere grafico, legato all’atto del disegno e, da questi disegni, talvolta, nascevano le sculture, in diversi materiali. Ora, invece, penso quasi sempre ogni mio lavoro direttamente in tre dimensioni. A volte, addirittura, riduco la scultura a disegno, a modelli di carta. Prima l'origine era il disegno geometrico, ora sono le forme. Guardo il mondo, e ogni cosa è per me un esercizio per la mia esigenza maniacale di leggere e conoscere ogni forma.
G.B. Allora è il mondo ad essere "matematizzato", come voleva Galileo, oppure siamo noi a compiere l'operazione, inventando all'uopo numeri e forme, aritmetica e geometria?
M.M. Viviano su una sfera! Ogni presenza, ogni vita, persino ogni emozione, ha una formulazione e conoscenza matematica geometrica; non quindi una scoperta dell'uomo, ma un'incredibile realtà della natura. Personalmente utilizzo le mie limitate conoscenze del mondo della matematica e della geometria come mezzo per conoscere, sviluppare e progettare forme e trasformazioni che, in questo modo, posso controllare con regole leggibili, verificabili e credibili.
G.B. In questa mostra, lei presenta anche i disegni progettuali delle opere che, pur essendo progetti, mi sembrano avere un'autonomia formale ed estetica. E' interessante questo accostamento embrione - nascita, disegno - opera; quale significato ha per lei?
M.M. Non propongo quasi mai miei disegni originali, che del resto sono gli unici "prodotti" che realizzo personalmente. Da loro è nata, progressivamente, la mia professione. Giorgio Ferrarin, ha voluto che ne esponessi alcuni nelle sua Libreria. Ho scelto quindi sei piccoli disegni del diametro di cm 35, corrispondenti ad altrettante sculture, che saranno esposte: credo che la presenza di questi disegni, abbinati alle opere, permetta una migliore reciproca lettura.
G.B. Disegno, scultura, architettura: mi sembra che lei pratichi e viva queste modalità operative su un piano di identità e soprattutto senza “ideologia”, al contrario di alcuni aspetti del pensiero dì Argan che, invece, aveva “'ideologizzato'’ il design che, per le sue virtù salvifiche, avrebbe portato alla “morte dell’arte”, cosa che è avvenuta, poi, con l’Ikea e non con Sottsass! Lei sembra avere, invece, una “idealità” del design, dell’opera, in fondo in modo “platonico" seppur senza intralci metafisici.
M.M. Non ho alcuna ideologia alla quale riferirmi per il mio lavoro; penso nel miglior modo a me stesso, perché sono sicuro che è il miglior modo di pensare agli altri! Ho l’assoluta convinzione che ì temi espressivi ed operativi, disegno, scultura, architettura e design, siano per me senza tempo ed assolutamente al di fuori di definizioni codificate o soggette a comportamenti sociali o culturali limitati nel tempo. Per quanto riguarda il senso del mio lavoro, è un continuo contributo culturale “quotidiano”, contrario a oodifìcazioni temporali o inserimenti storici cimiteriali. Per quanto riguarda il design, inventato dai “Nostri Primitivi'’ con la prima ruota, da allora viviamo quotidianamente sempre meglio, con il positivo contributo più di sconosciuti designer che di famose superstars. Il vero valore del design non è l'espressione di un critico, e non sono i vari Sottsass, ma il "progetto di design" appartiene logicamente a chiunque migliori quotidianamente ogni cosa che utilizziamo nel rispetto dei nostri sensi. Il mio contributo al mondo del design, tende sempre a reinventare prodotti esistenti, dando loro una nuova funzione e dove è possibile anche una "nuova anima"; attitudine che è il risultato del metodo di analisi e progettazione che ho per l'arte.
G.B. Sono molto d'accordo, e posso dirle che il compianto Dino Gavina, che ha non poco contribuito a divulgare il design del '900, una volta, in una accesa discussione, mi disse che i più grandi designer sono quelli che hanno inventato il tappo di ferro per le bottigliette delle bibite e il cartone sagomato per contenere le uova! Vediamo però, ora, un altro punto fondamentale del suo lavoro: rifiuta il colore per il timore che possa avere influenza psicologica, però le sue costruzioni, col chiaro e scuro, col bianco e nero, sono, per così dire, di forte impatto cromatico. Inoltre, al di là della concettualità costruttiva, le sue sculture e i disegni hanno una forte armonia, equilibrio, "bellezza": sensazioni ed emozioni che non provengono solo da uno sviluppo culturale, ma anche dalla fisiologia, dato che si è scoperto che le forme simmetriche, armoniche mettono in moto dall'occhio al cervello le cellule del piacere, della soddisfatta tranquillità.
M.M. Volevo qui riproporre una parte di quanto scrissi tempo fa in merito a questo aspetto del mio lavoro e della sua fruizione visiva ed emotiva, ma ora non trovo questo testo e me ne dispiace. E' vero però che molti, negli anni, mi hanno “parlato”, vedendo alcuni miei lavori con un’attenzione emotiva particolare ed intensa, di una fruizione di armonia, equilibrio e serenità. In una mia esposizione a Lisbona, un giovane visitatore, fermo davanti ad un'opera per lungo tempo, asseriva che questa aveva attorno un’aura di luce verde; in quel momento non volli approfondire con lui questa visione, che probabilmente si operava nei suoi occhi non per mio merito o demerito, ma per ragioni a me sconosciute. Un aspetto curioso dei bambini che visitano le mie esposizioni è che loro vedono e descrivono le opere presenti, senza complicazioni o strane storie, ma solo razionalmente come appaiono.
G.B. Elemento che fortemente denota il suo lavoro è il movimento, che indica anche il tempo e lo spazio della musicalità, nel senso che esprime un ritmo, ora più veloce, con o senza brio, ora più lento come un adagio...
M.M. Mio padre era un tenore, ma io, con rammarico, non ho mai coltivato l’affascinante mondo della musica. In molti anni di attività, spesso i critici o il pubblico mi hanno domandato perchè non approfondivo le relazioni che potevano esistere fra il mio lavoro e la musica. In effetti, mio malgrado, ma con mia sorpresa, nel tempo vi sono state delle interessanti contaminazioni o sorprese legate alla musica, come a Vienna, dove alcuni musicisti realizzarono un lavoro sulla musica barocca ispirandosi alle mie opere. In Germania, nel Museo di Hattingen, durante un'altra mia mostra, un gruppo di giovani musicisti compose
ed eseguì una sonata dedicata al mio lavoro. A Parigi, in una mostra di design, intervenne un musicista francese che mi consegnò perentoriamente una cartolina con delle formule molte precise, sostenendo fossero gli sviluppi del mio lavoro, nel mondo dei suoni e della musica. Conservo ancora la cartolina, ma non so come utilizzarla... Il mondo della musica mi ha sempre affascinato; ovviamente credo ci siano concreti legami e sviluppi possibili con il mio lavoro, ma per mia mancanza non li ho mai coltivati.
G.B. Dal disegno e dalla scultura all'architettura e al design: quanto le regole di questi due ultimi "pesano” sulla libertà creativa, cioè sono un intralcio oppure sono solo regole e condizioni che non impediscono ma soltanto disciplinano la libertà creatrice?
M.M. La conoscenza progressiva è la mia disciplina. I tre aspetti del mio lavoro, per loro natura, si formano con le stesse regole di conoscenza, anche se è vero che il “fare arte” ha come fine quello di aprire e migliorare la mia conoscenza culturale. Il “fare design” vuol dire usare le stesse regole pragmatiche, ma per avere maggiormente la possibilità e l’esigenza di uscirne, verso uno studio totale, per progettare con tutti i mezzi, coerentemente, nuovi prodotti da usare. Il “fare architettura" vuol dire creare un habitat ideale nel quale fare confluire la nostra “cultura” ed ogni “oggetto” che ci permette di vivere questo ambiente in armonia con i nostri sensi.
G.B. Usa il computer e, se si, da quando?
M.M. No., non lo uso! Venticinque anni fa, quando me lo chiedevano in Giappone, ero scandalizzato! Oggi ovviamente non mi scandalizzo più, non uso il computer perché non ne sono capace, ma i miei due assistenti lo usano, per realizzare rendering, così da avere immagini tridimensionali perfette, per l’archìvio e la stampa. Personalmente non potrei rinunciare al piacere che ricevo dal foglio di carta bianca su! mio tavolo da disegno. E' importante per me confrontarmi quotidianamente, con continua curiosità, con la matita; cercare sul foglio quante ancora non conosco e non conoscerò mai.
Federica Boràgina: Qual è il legame fra la radice emotiva del suo lavoro e la scelta del materiale?
M.M. Devo essere più razionale possibile nella scelta dei materiali, che non enfatizzano la loro natura, ma che abbiano la caratteristica di essere di ottima qualità e alla fine verniciabili anonimamente di colore bianco e nero. Unica eccezione sono il granito nero assoluto d'Africa e il marmo bianco del Trentino, con i quali realizzo i miei lavori, destinati ad essere collocati all'esterno. Solo il movimento di queste superfici e di questi volumi, così anonimi in ogni progetto, permettono la lettura di un’originale loro nuova entità.
Post scriptum.
Al termine di questa piacevolissima conversazione, avuta con Morandini, durata alcune rapidamente ed inesorabilmente fuggite in un istante, mi piace svolgere alcune considerazioni, per così dire, in solitario, non solo e non tanto sulla sua opera - essendo, per altro, vasta la bibliografia relativa ed avendone qui già parlato - quanto sul suo "essere artista". Mi sembra che il primo dato che risulta più evidente sia il "rigore". Questo, prima che "estetico", è "morale". Immanuel Kant diceva: "Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me", proprio in quel testo, delle tre Critiche, che riguardava la fondazione della morale (Critica della Ragion pratica); non a caso facciamo questa citazione, infatti Morandini dice che cerca nella "natura" le idee e le forme che poi diventano opere (naturalmente non naturalistiche!). Quindi, dato che, come si legge più sopra in questo colloquio, l'artista dichiara che la prima ricerca avviene dentro di sè, proprio per poter essere migliore nei confronti dell'altro e degli altri, riandiamo ancora una volta al grande filosofo di Konigsberg, che afferma come "imperativo categorico" la norma con la quale sola si possono avere comportamenti morali fondati: "Agisci come se la massima della tua azione dovesse essere eretta dalla tua volontà a legge universale della natura", cioè che il principio di ogni nostra azione possa essere valido anche per gli altri (J. Kant, Fondamenti della metafisica dei costumi). Si capisce che, sia per Kant che per Morandini, non si tratta, come un lettore poco attento, o malizioso, potrebbe pensare, di "egocentrismo", tutt'altro: è l'affermazione di un rigore morale che impegna il soggetto e la sua responsabilità verso il mondo. Se poi dalla considerazione di come Morandini si pone quando “opera” - ed anche lui, come molti altri artisti, identifica arte e vita - passiamo ad una riflessione un po’ più freddamente analitico/formale, vediamo che è proprio la reiterazione dei singoli segni - sempre semplici, elementari, essenziali ma fondamentali, come la retta, il segmento, le figure geometriche basilari eccetera - e delle costruzioni complesse, sempre diverse ma apparentemente simili, la “cifra" rigorosa, perfettamente coincidente con il “rigore morale”. Nella storia dell’arte abbiamo altri esempi di rigorosa “ripetizione differente”, secondo la fortunata definizione di Gilles Deleuze, come in Giorgio Morandi o in Enrico Castellani, per fermarci a due grandi artisti italiani contemporanei, le cui opere sono assai diverse, eppure accomunate proprio da quella volontà (di perfezione, testardamente e incessantemente ricercata?) di lavorare sempre sullo stesso soggetto con infinita determinazione, a prescindere se siano “bottiglie” o piccole estroflessioni procurate da chiodi che premono sulla superficie della tela. Ecco, oltre a tutte le possibili, e doverose, analisi che andando in profondità ci porterebbero lontano, dalla ricostruzione storica generale e individuale dell’opera di Morandini, alla considerazione più dettagliata dei punti focali dei suoi lavori (dalla geometrìa al movimento, dal tempo allo spazio, dalla leggerezza alla gravità e così via), mi è sembrato doveroso, e spero utile per il lettore, esprimere queste mie sensazioni e giudizi, con la speranza, ma direi con la certezza, di ritornare sull’arte di Morandini, sviluppando ulteriormente la riflessione e assaporando ancor di più l’emozione che le sue opere provocano.