Marcello Scuffi: L'ora eterna. Testo critico a cura di Giovanni Faccenda.
Dovremmo cominciare a chiamare «pittori» soltanto i pochi virtuosi rimasti a praticare un genere tra i più nobili e alti in cui possa manifestarsi l'ingegno umano; la pittura, appunto. Per l'ignoranza o la scaltrezza di coloro che continuano a non distinguere termini come arte e artigianato (e, dunque, ad equivocare l'una per l'altro), ci troviamo dinanzi ad una tale confusione di interpretazioni, spesso ridicole e bizzarre, al punto che chiunque usi un pennello e impasti, poco e male, dei colori su una tavolozza deve, a buon diritto, essere ritenuto un pittore. No, pittore non è un titolo o una qualifica di cui ci si possa fregiare facilmente, una definizione estemporanea per rendere esclusivo un biglietto da visita; pittore èun giudizio, laborioso e complesso, che esprime il riconoscimento di un talento. Marcello Scuffi èun pittore. Lo è perché vive, pensa e intende la pittura nel modo esatto in cui questa debba, essere vissuta, pensata e intesa, secondo la lezione dei maestri antichi che riecheggia, per multiformi suggestioni, nell'opera di un autore dall'indole e dalla vocazione espressiva ugualmente autentiche. Quanto distingue un lavoro, il suo, colmo di partecipazione sentimentale e indizi che dissimulano vari riflessi interiori, è, in realtà, una iconografia tanto singolare da non trovare che evanescenti riferimenti nello scenario contemporaneo. Come detto, per risalire ad alcune paternità elettive, che si colgono chiaramente nella pittura di Scuffi, occorre risalire al Quattrocento di Masaccio, Masolino, Paolo Uccello e, soprattutto, Piero della Francesca; al secondo Ottocento, simbolista, di Bòcklin; all’aureo primo Novecento della metafisica di de Chirico, in particolar modo, e alle singole interpretazioni che di essa ebbero a dare Carrà, Morandi e Sironi. Andando con ordine a sviscerare tali argomenti, il primo pensiero volge alle meraviglie della Cappella Brancacci, nella chiesa di Santa Maria del Cannine a Firenze. Mentre Rosai era rimasto affascinato dall'umanità e dalla verità di quei volti che incarnavano un destino dolente, un percorso esistenziale che egli indovinava uguale per gli uomini di ogni tempo. Scuffi, al contrario, ha guardato e continua a guardare alla solennità di un paesaggio che ospita severe architetture, con finestre e porte appena dischiuse a partecipare cupi misteri. Pensi alle Storie di San Pietro, alla scena del Tributo cancellate per un attimo dagli occhi le figure di Gesù, degli apostoli e degli esattori, riuniti nella biblica Cafarnao, ecco un lago e quattro alberi spogli, rilievi montuosi sigillati in un digradare di grigi, la casa del dazio silenziosa e austera. Diresti l'impianto figurativo di molti dipinti di Scuffi. Di più: un codice pittorico nel quale toni e mezzi toni suscitano percezioni smarrite nella memoria, l'algida fissità di immagini trasfigurate in una dimensione ideale. Nella loro ora eterna. Quando invece gli azzurri riaffiorano eleganti a sublimare scenari in cui l'acqua è il suggestivo diaframma tra visibile e invisibile, allora la mente avanza verso i cieli di Giotto, ad Assisi come a Padova. Ma sono lampi fugaci, in un viaggio a ritroso nel tempo che percorre in lungo e largo la storia della pittura più aristocratica. Altre soste, obbligate, portano dunque ad Arezzo, Monterchi e Sansepolcro, laddove Piero della Francesca e i suoi capolavori impareggiabili sono le fonti sulle quali scopriamo fondata e tonnata l’estetica del migliore Novecento. Ecco l'origine del circo di Scuffi: la tenda nella quale dorme e sogna Costantino alla vigilia della battaglia contro i barbari di Massenzio, un volume che ritroviamo nella teca tenuta in mano dalla Maddalena nella cattedrale di Arezzo e nel baldacchino, impreziosito di raffinatissime decorazioni, della Madonna del Parto. Gli enigmi che Piero occulta nella Flagellazione di Cristo assumono spettrali declinazioni in quella lunga alba della pittura Metafisica che sorge in coincidenza con alcuni esiti Arnold Bòcklin. In tal caso, è soprattutto profondissima suggestione esercitata dalle acque che lambiscono le rocciose montagne di Prometeo, le spiagge di Ulisse, le Ville sul mare, cosi come le cinque versioni dell' Isola dei morti, a suggerire legittime e significative similitudini tra questi lavori del maestro di Basilea e le Piazze d'acqua che pure Scuffi dipinge come un emblematico omaggio a Giorgio de Chirico. Il quale resta, per varie implicazioni, il riferimento più solido rispetto ad un’opera annegata nel silenzio e resa oltremodo intrigante dal fantasma dell'uomo che aleggia per case disabitate, labirinti acquatici e depositi di treni in disuso. Già, il treno: il simbolo dechirichiano per eccellenza, l'allegoria che adombra il tema del viaggio, ma, più ancora, il ricordo del padre, l'ingegnere Evaristo, responsabile di una compagnia ferroviaria, morto quando Giorgio è poco più che un adolescente. Il treno che sbuffa tra i porticati del Viaggio inquietante, all'orizzonte del Sogno trasformato e dell' Incertezza del poeta, nei fondali di molte tele dipinte da de Chirico durante il suo primo soggiorno a Parigi, così come nelle Piazze d’Italia, eloquente rappresentazione dei vari ritorni alla prima stagione della Metafisica, quando, smessi di citare i grandi maestri del passato, egli ne emula uno soltanto: se stesso. Ecco, quel treno che nell'opera di Scuffi sosta come un cane vecchio e abbandonato presso la sua dimora estrema, il deposito enigmatico e surreale che riunisce, talvolta, curiose accumulazioni, suggeriva da tempo il sospetto che esprimesse anch'esso qualche riferimento autobiografico. Ma troppo era immaginare che, come già in de Chirico, anche in Scuffi il treno riverberasse intimi ricordi patemi: cosi è, invece, come lo stesso pittore ci ha confermato, rispondendo ad una nostra domanda che una sera lo invitava al racconto esplicativo. Dipingere, del resto, è sintetizzare una somma di impressioni che appartengono al proprio vissuto. Così, dinanzi a certi lavori di Scuffi, in cui trovi molteplici analogie rispetto al Pino sul mare di Carrà, più giusto è allargare la riflessione alla Versilia che accoglie l’artista in alcuni periodi dell'anno; così come di fronte all'isolamento di edifici, che rimandano alle deserte periferie di Sironi, bisognerebbe pensare al fascino di taluni luoghi stabili e palpitanti nelle reminiscenze di Scuffi. E allora, guardando quelle Nature morte o Vite silenti che egli chiama Tavolozze realiste, quegli oggetti che rammentano gli umili interlocutori di Morandi, quella frutta di stagione composta su un piano, ove, in qualche pregiato caso, si assiste all'apparizione di un uovo - l'uovo di Piero sospeso a mezz'aria nella Pala di Brera ci è dato di scoprire un mondo di valori antichi e di emozioni vivide, che sono poi quelle che abitano in Marcello Scuffi da sempre. Un pittore che è anche un abilissimo disegnatore. Un uomo raro, oggi, da incontrare.
Claudio Olivieri L'urgenza di accadere
Claudio Olivieri - L'urgenza di accadere
Claudio Olivieri: L'urgenza di accadere.
Testo scritto da Riccardo Guarneri.
Caro Claudio, mi fa piacere scrivere una piccola cosa in occasione di questa tua mostra personale da Ferrarin. Si tratta di una breve lettera di auguri, amicizia e stima per il tuo lavoro sempre bellissimo. Agli inizi delle nostre ricerche pittoriche eravamo (in senso opposto) i due pittori più invisibili di quel tempo. Allora la nostra pittura rientrava in quel filone, per la verità assai poco frequentato dagli altri artisti, denominato ''bassa percezione". "Tu elaboravi quadri molto scuri dove i bruni caldi e i blu intensi e freddi erano difficili da distinguere sulla superfìcie della tela. Al contrario, io mi cimentavo con i bianchi, o con i quasi bianchi nell'idea ossessiva del colore/luce. Entrambi abbisognavamo, per i nostri quadri, di lunghi tempi di osservazione, infatti io definivo i nostri lavori "opere a lento consumo". Poi le riproduzioni sui cataloghi... che disastro! Era impossibile distìnguere le sfumature i passaggi più tenui. Ombra e luce in una astrazione lirica, leggera e impalpabile ma sempre rigorosa nel suo farsi. Poi col tempo tu hai schiarito i toni verso una maggiore luminosità cromatica, io verso una maggiore visibilità. Ma a ben guardare tutte le modifiche apportate alla nostra pittura hanno prodotto un cammino continuo e lineare. Per entrambi quelle opere di cinquant'anni fa sono ancora la documentare, a ribadire il nostro pensiero sulla qualità della pittura. Questa idea sulla qualità è stata una nostra ossessione da sempre. Impegno questo del nostro essere pittori, del nostro esistere,
Grazie, Claudio, per la bella pittura che hai dato e continui a dare a noi tutti.
Con affetto e stima,
Riccardo Guarneri Firenze, aprile 2012
Testo scritto da Claudio Verna.
Per Claudio Olivieri. Nel 1960, durante una delle mie frequenti puntate a Milano, da Firenze dove allora abitavo, mi capitò per caso di vedere la prima personale di Claudio Olivieri al mitico Salone Annunciata. Naturalmente non lo conoscevo, ma capii subito di trovarmi di fronte ad un pittore vero, colmo di energia e di grande qualità. E siccome anch'io avevo appena inaugurato la mia prima mostra alla galleria Numero di Firenze, ecco, pensai, un possibile compagno di strada. Sarebbero passati altri dieci anni prima di diventarne amico ma, nel frattempo, in qualche modo diventai anche un suo collezionista. Ad un gallerista un po' restio a pagarmi, chiesi dì saldare i! suo debito con una piccola tela di Olivieri del 1963 che avevo visto nel suo studio e che conservo ancora. Chissà se Claudio lo sa..... Da allora le nostre strade si sono incrociate spesso, nelle situazioni più disparate, ma tutte vissute ne! comune amore per la pittura. Le polemiche nei confronti dei suoi detrattori, scontri anche duri, ci hanno tenuto compagnia, rafforzando una consapevolezza del nostro essere artisti fatta di studio e di sperimentazione, ma soprattutto di lavoro devoto e appassionato. Ognuno, naturalmente, geloso custode della propria identità. Parlare di pittura con Claudio significa affrontare argomenti apparentemente anche i più diversi che ad un certo punto, però, ti accorgi hanno a che fare con la nostra condizione, i nostri dubbi certo, ma anche la nostra dedizione totale ad una scelta-non-scelta in cui siamo immersi. Non sempre, naturalmente, le nostre posizioni hanno coinciso, ma ho sempre considerato le sue un punto di riferimento inevitabile anche quando, nella foga delle sue escursioni polemiche, esplode letteralmente nel paradosso. Ma, a parte il fatto che spesso il paradosso è più vero del vero, devo riconoscere a Olivieri una particolarità tutta sua: più si infervora più il suo discorso sì fa lucido, precìso, i suoi giudizi taglienti. Non stempera le sue opinioni, le esalta; non cerca il compromesso, si compromette. Insomma, vive la sua avventura con grande generosità, senza risparmiarsi e i suoi quadri ne sono la testimonianza più eloquente. Ecco, senza addentrarmi in analisi critiche che non mi appartengono, posso almeno dire che considero il suo un lavoro radicale, lontano dalle piacevolezze della "bella pittura" ma insieme aperto alle suggestioni più impreviste, liriche o drammatiche, che possono emergere dalla storia dell'arte come dalle esperienze de! vissuto. Claudio Olivieri non mette in campo didascalie di idee pur nobili, ma elabora i suoi quadri con la passione di chi si gioca tutto ogni volta, con i rischi che questo comporta, ma convinto che solo così può aspirare a risultati degni di una vita dedicata all'arte.
Claudio Verna.
Claudio Olivieri: L'urgenza di accadere. Testo Critico a cura di Giovanni Maria Accame.
La pittura dì Olivieri si presenta di fronte a noi nel suo accadere. Accade facendosi luogo e sostanza. Nasce come evento e dall'evento non si discosta. Non rappresenta, non indica, non simboleggia, resta nel movimento che l'alimenta e la sottrae a quanto le è estraneo. E' caratteristica dell'evento trovarsi in una posizione di solitudine, non perché manchi la comunicazione o, tanto meno, l'emozione di un riscontro, ma perché tale è la sua connotazione. L'evento accade quando tutto il resto si ritrae. Da ventanni, da quando gli ultimi, erranti, segni hanno lasciato le tele di Olivieri, ciò che avviene in questi quadri, avviene nel silenzio che li circonda. Un silenzio avvolgente che cì coinvolge e porta a un ascolto totale: la pittura non è solo quella che abbiamo di fronte, ma il luogo che abitiamo. Non possiamo, se si è compreso ciò che accade, essere all'esterno, ma all’interno del fenomeno. Anche perché l'esterno di questa pittura è quanto della sua interiorità si vede. E in ciò si conferma ancora l'accadere dell'evento, che non si fissa, non si costruisce, ma ci sorprende e ci affascina per il suo esserci. Oscura, inquieta, notturna anche quando accoglie la luce, questa pittura fa del colore la propria tonalità. Fluido e mobile, il colore trova la sua consistenza nell’inquietudine di un respiro incessante e profondo. Mai fermo, anche quando sembra chiudersi nelle cromie più profonde, scorre e si rigenera. Qui il colore non si organizza in forme, non insegue figure, ma si distende pienamente, nella libertà che gli deriva dal non subire ordini e quindi avendo per sé soltanto il proprio ordine, il depositarsi, sovrapporsi, trasformarsi, è di questo colore che conserva, della tecnica con cui viene applicato, l'attimo di sospensione prima di raggiungere la tela. Conserva la trasparenza nella stratificazione, allo sguardo è possibile percorrere l'oscurità che comunque rivela ciò che può svelare. I lavori di questi ultimi anni, dal sommovimento in tempi lunghi, riflessivi, delle opere precedenti, portano a un'atmosfera più percorsa da ampie evoluzioni, come da repentine correnti. Olivieri agisce prevalentemente sui lati verticali, provocando movimenti in successione che si rincorrono e sovrappongono, o con attraversamenti diagonali che sconvolgono più internamente la superficie. Questa maggiore mobilità della pittura ne potenzia la fluidità, aumenta la leggerezza, che non intacca la sostanza, ma rende più percepibili le trasparenze. E' soprattutto l'idea di superficie a subire le maggiori variazioni, prima la superficie era il luogo del profondo, cì afferrava nella vertigine silenziosa di un percorso intenso, assoluto. Ora sulla tela è tutto più accelerato. L'attenzione è maggiormente inquieta, meno riflessiva. Agiscono e reagiscono gli impulsi, gli scatti nervosi, lo sguardo è mobilissimo. La maggiore visibilità di ciò che accade, non accresce il possesso di questa pittura, ne indica anzi l'inafferrabilità. L'accelerazione del suo respiro muta anche il senso temporale che, in rapporto al movimento, acquista maggior rilievo. Non scorre più nel silenzio delle sedimentazioni, ma pone con fermezza il problema della sua presenza e della sua incidenza. Tempo incessante di una pittura persistente, testimone del proprio esserci e trascorrere. Presenza, non più di una lontananza che si avvicina ma, ora, nelle opere recenti, presenza immediata, di cui sentiamo l'urgenza di accadere. Il diverso accadere crea una nuova immagine. Si è modificato lo spazio o, per meglio dire, quello che era il luogo delle adiacenze e degli scorrimenti sì è fatto propriamente spazio. Il colore qui si solleva, vibra, la forza che lo muove crea dei vortici, a volte vere e proprie bufere che sconvolgono la superficie. Ma poi, si avverte, c'è sempre all'interno una dimensione profonda. E' infatti questa che ora si dischiude maggiormente e più concede al nostro sguardo. La presenza di un altrove non ha mai lasciato queste tele, i diversi tempi e movimenti che distinguono gli ultimi, dai precedenti lavori, non mutano l'orìgine, ma il termine. Cambia il nostro incontro, l'evento ha un'inquietudine differente. Resta la conferma di una pittura che più si avvicina a se stessa, più si dilata e ci raggiunge.
Marco Casentini Sogno, canto, amore
Marco Casentini - Sogno, canto, amore
Marco Casentini.
Sogno, canto, amore
Davanti a me il tavolo è tutto cosparso di libri e cataloghi di Marco Casentini. Alcuni aperti, di altri si vedono solo le copertine. È la consueta fase di avvicnimento, di familiarizzazione, di studio, di annotazioni prima di attaccare con la scrittura. Ma questa volta mi accorgo di un fenomeno insolito. Chi passa – figli, qualche amico, amici dei figli - si ferma, allunga lo sguardo, e volte anche le mani. Chiede se può sfogliare, incuriosito. Mi domando che cosa in particolare susciti questo interesse, quale molla facciano scattare le opere di Casentini riprodotte e sparse disordinatamente davanti a me. I cataloghi di Marco sono sempre ben curati, hanno copertine molto attrattive e tante volte anche giocose. Spiccano per colori decisi, ma mai spinti ad oltranza: gli spezzoni di immagini che si intravvedono pur nell’energia intensa, salvaguardano sempre un equilibrio, un’armonia nella differenza. C’è un altro aspetto che noto. Sono libri che vien voglia di toccare, prima ancora che di sfogliare; di tenere tra le mani quasi che la consistenza dei colori e delle geometrie avesse anche una dimensione tattile.
Mi perdonerà Marco Casentini se prendo pretesto da una constatazione così terra terra per sviluppare un percorso sulle sue opere alla rovescia. Parto cioè dal tentare di decodificare il modo con cui vengono percepite per risalire poi ad un discorso critico. Ecco allora che dalle mie annotazioni, tra riferimenti storici, parallelismi, sottolineature stilistiche, mi trovo a stralciare tre parole che non appartengono propriamente al lessico critico. Tre parole che sono scivolate dentro gli appunti con molta naturalezza senza che mi saltasse all’occhio una loro eventuale non pertinenza al discorso. Non sono parole arbitrarie, perché tutte incontrabili, in particolare nelle interviste, genere che Casentini ama e in cui dimostra di trovarsi a suo agio (il riferimento è in particolare al bellissimo Talking, volume realizzato con Leonardo Conti). Questo a dimostrazione di come per lui l’arte sia un’azione fatta sempre alla luce del sole e quindi tutta decifrabile attraverso una narrazione.
“Sogno”, “canto” e “amore”. Sono queste le tre parole “straniere” da cui prendo avvio.
“Sogno” la trovo in Talking, pagina 40. Dice Casentini: «Scusami se lo ripeto. Fare l’artista non è un mestiere, è credere a un sogno, siamo dei custodi di sogni. Magari questo potrà servire a qualcuno…». Qual è il sogno? Quali sono questi sogni? Una prima risposta, abbastanza letterale ed esplicita, la si trova nelle opere degli inizi. Anno 1984, Casentini dipinge composizioni a pastello e olio su carta intelata, in cui prime geometrie molto fluide, lasciano spazio a profili tondeggianti dipinti con terre bianche. A volte questo spazio prende la forma di un dettaglio di corpo umano (l’ispirazione discende dall’osservazione dei tronconi di corpi della Danza Barnes di Matisse). Se intorno, il nero, o le terre scure e agitate, evocano la notte, il biancore è di necessità la forma inafferrabile e lattiginosa di un sogno. Ma Casentini che a questo punto avrebbe potuto addentrarsi ad esempio nei fascinosi territori ironici e ambigui di un Gino De Dominicis - col quale sembra di poter cogliere affinità di soluzioni formali -, in realtà scarta immediatamente nel segno di una chiarezza e di una trasparenza compositiva. Balza cioé fuori dall’ipotesi di un gioco introspettivo, e inizia a cercare subito ritmo e ordine. Il labile incantesimo di un sogno perduto, titolo della prima opera in mostra (1984), suona presto come un falso annuncio. Il sogno per Casentini – quindi ciò che gli assegna identità d’artista – poco alla volta diventa qualcosa con cui prendere sempre più confidenza. È un ignoto che all’inizio si intrufola con ombre, con slittamenti di luce e di striature nelle aree color terra, ma che poco alla volta esce allo scoperto accettando l’ordine trasparente delle griglie. Il sogno è un orizzonte con il quale Casentini interagisce con progressiva familiarità, documentata dal moltiplicarsi numerico delle forme all’interno delle sue opere. Man mano che il percorso avanza, il meccanismo compositivo si fa sempre più complesso e ardito, senza che si percepisca la crescita del tasso di complicazione. Anzi in opere come Inside the Border (2012), si ha la sensazione di una straordinaria, fortunata facilità. Come se l’opera avvicinandosi alla frontiera del sogno desse sempre più l’impressione di scaturire da sé. Pur risucchiato nella complessità del montaggio delle sue opere, Casentini ogni volta infatti riemerge con una semplicità e chiarezza di sintesi. In questo si scorge un debito, molto felice, nei confronti di un grande della pittura americana, oggi in piena e sacrosanta rivalutazione, Richard Diebenkorn. È Diebenkorn a risolvere i dilemmi in cui era rimasto intrappolato l’espressionismo astratto americano, raccordando astrazione e visioni reali; orizzonti mentali e orizzonti fisici; rigore dell’ordine e libertà delle sensazioni. È con Diebenkorn che le suggestioni dei paesaggi della California e di Los Angeles in particolare - suggestioni decisive nella storia di Casentini, sin dal suo primo viaggio americano - si liberano dal mantra a volte raggelante del minimalismo. Così è guardando Diebenkorn che Casentini trova la certezza che quello del sogno è un orizzonte terso, di una luminosità intensa ma addomesticabile.
Già, ma qual è questo sogno? Evidentemente è improprio pensare di circoscriverlo. Quello che Casentini con il suo lavoro documenta, è che il sogno c’è. Esiste. È pane quotidiano del suo lavoro, nel senso che è la leva che ogni mattina gli fa aprire le finestre dello studio e lo spinge all’opera. Eppure qualche connotato del sogno siamo anche in grado di conoscerlo. Ce lo può suggerire la seconda parola del mio lessico “improprio”: “canto”. Questa volta non è Casentini a evocarla, ma un altro artista certamente di riferimento per la formazione di Casentini stesso, Mario Radice. ´(Si dà caso che una delle opere più preziose dell’artista comasco sia custodita proprio al Camec di La Spezia, città natale di Casentini: è la Composizione Q. ros. 3, un piccolo affresco su masonite del 1964, arrivato al museo da una donazione di Michele Cozzani. Nel titolo “Q” sta per quadrato, e “ros. 3” sta per il numero di rossi usati: evidentemente una matrice da cui si è generato, quasi per sviluppo naturale, il bellissimo Landscape in red (2011), dove la rudezza della masonite ha fatto largo allo slancio luminoso del perspex e dell’acrilico).
Diceva Mario Radice in una conversazione: «La pittura non dev’essere un’interpretazione fotografica della realtà, ma un “canto”… Io non so adoperare nessun’altra parola che questa: un “canto”, e basta». E poi ancora: «Il pittore diabolicamente chiamato astrattista intende raffigurare angeli e fiori montagne e avvenimenti nella loro materialità vivente, esprimerli, sviscerarli, cantarli…». C’è in effetti una musicalità intrinseca nell’opera di Casentini, nel ritmo jazzistico con cui distribuisce le sue geometrie. Una musicalità fatta di continui e anche arditi contrappunti, come accade nei suoi perspex dipinti anche da dietro, quasi si trattasse di una melodia sottoposta alla melodia principale. Jazz ovviamente rimanda a Matisse. A prososito del quale è d’obbligo ricordare un aneddoto relativo al cantiere di Vence. Quando gli chiesero perché, dopo aver progettato ogni minimo dettaglio, non avesse previsto un organo, Matisse rispose che di musica nella cappella ce n’era già più che a sufficienza: era quella che scaturiva dalle sue vetrate e dalle sue grandi composizioni tracciate sulle piastrelle. Per Casentini può valere lo stesso ragionamento. L’andamento della sua pittura obbedisce ad una musicalità che a ben vedere non è esito di un processo di sublimazione. È una musicalità che va in progressione, che alza i ritmi e i toni, toccando una pienezza, una densità a volte anche una ridondanza che è propria della voce umana. È una densità che ha a che vedere con quello che Demetrio Paparoni ha detto essere l’astrazione di Casentini: un’astrazione che «ha una natura figurativa». Affermazione che trova tante conferme nelle stesse parole di Casentini (quando chiarisce che i quadri neri si riferiscono alla notte mentre quelli bianchi al giorno; oppure quando dice: «Le mie opere traggono origine dagli spazi urbani»; o ancora: «alcuni accostamenti di colori, o gli spunti che mi spingono a dipingere certi quadri, mi giungono dalle vetrine dei negozi, dalle tonalità dei costumi da bagno…»). L’astrazione di Casentini è come uno spartito su cui vengano trascritte visioni e suggestioni che hanno sempre origine reale e non mentale (l’immagine dello spartito è suggerita da quella serie di opere, concentrate principalmente nel 2009, che sembrano far proprie le geometrie lineari delle partiture musicali). Ma la corporeità del canto nella pittura di Casentini è anche l’esito di innesti coraggiosi di materiali, come i quadrati di tela dipinti ad acrilico sulla superficie del perspex. Ed è ancor più esplicita in quelle opere in cui campeggiano lettere cubitali (come Same place same feeling, 2012), che attendono solo il “la” di un’orchestra per diventare anche voce.
A questo punto la terza parola non ha più bisogno di giustificazioni, perché è evidentemente nell’ordine delle cose. “Amore” è fattore sempre implicito, a volte anche esplicito. La pittura di Casentini si genera sempre da un’attrattiva; attrattiva per Los Angeles, per Milano, per il mare, per le persone, a iniziare dai figli (quanto sono pieni di felicità e di affetto le situazioni ricavate dallo sguardo sui suoi due figli!); attrattiva per tante situazioni di luce, per lo spazio, per le architetture anche casualmente intercettate. Tutto questo diventa movente per la pittura, senza obbedire a nessuna particolare categorizzazione estetica, perché il movente può essere Las Vegas («con la sua impronta pop rimane una delle mie preferite»), o un suo opposto, come il paesino della Liguria («il più bel posto del mondo»); la vivacità coloristica urbana del Messico, o il panorama geometricamente squadrato e monocromatico che si vede dalla finestra del condominio milanese. Ma possono accadere anche traslitterazioni imprevedibili, com’è il caso delle minime differenze di odori e di colori tra le zone di Los Angeles, messe a paragone con le minime differenze che intercorrono tra un quadro di Morandi e l’altro. L’amore può scattare poi anche per dettagli. «Tu conosci il mio amore per il rosa», racconta Casentini nel dialogo con Leonardo Conti. «Ecco secondo me l’ho assunto frequentando Los Angeles nel corso degli anni». Quel rosa che in questa mostra spicca felice, non a caso, in L.A. storie n. 4 (1995), ma anche in altri quadri di sapore losangelino come Sun House (2003), Have a Nice Day (2006), Beautiful Morning (2007), o Swimming Pool (2011).
Proprio il rosa – colore per antonomasia riferibile ad un sentimento d’amore – ci apre la strada per un tentativo di conclusione. Infatti non so quanto rosa effettivamente si colga in un paesaggio urbano come quello della città di quarzo. Probabilmente si tratta di minimi dettagli, di macchie un po’ casuali. Ma il rosa è evidentemente ciò che s’accende nella mente di Casentini una volta che con la pittura deve registrare le sensazioni ricevute (come diceva Matisse, la pittura è documentazione delle sensazioni che l’artista vive davanti alle cose). Il rosa è colore simbolo di una riformulazione teneramente arbitraria del reale, di una discontinuità rispetto a ciò che si ha avuto davanti agli occhi, al punto tale che l’artista è il primo a stupirsi di quel che ha fatto. «L’importante è stupirsi di quel che si fa», dice Casentini.
Dato poi che è molto facile amare ciò che ci suscita stupore, ne deriva che per Casentini un quadro è riuscito nel momento in cui scopre di amarlo.
Aggiungo che essendo l’amore un’esperienza espansiva, le opere di Casentini hanno una generosità intrinseca, e si offrono anche come oggetti, con una loro fisicità e tattilità (l’esperienza recente dei Rollercoaster è lo sviluppo di questa natura “solida” della pittura di Casentini). Inoltre le sue opere vivono molto bene quando sono messe in relazione allo spazio in cui sono collocate. Hanno una natura irradiante, al punto da segnare l’aria intorno a loro. A volte mi accorgo che quando le vedo fotografate senza il contesto intorno, mi sembrano monche, orfane di qualcosa che fa parte di loro. La cosa è spiegabile con la mancanza di centralità delle sue composizioni: è pittura “all around”, per citare un titolo molto amato da Casentini. Tutt’intorno. Tutt’intorno anche al mio tavolo dove chi passa non resiste dalla tentazione di mettere le mani, per guardare e per toccare.
Paolo Radi
Paolo Radi
L'esperienza artistica di Paolo Radi, quantunque la concretezza dei suoi materiali sia evidente, così come la tridimensionalità aggettante delle forme sia del tutto inquadrabile entro i parametri di una concezione scultorea, molto del suo fare si apparenta anche con i modi e i termini della pittura. Questi due linguaggi in lui sanno coesistere e trovare un punto di congiunzione che si traduce in una personale e originale interpretazione delle forme, del materiale, delle consistenze, e, quindi, nell'immagine, attraverso una rielaborazione di tali elementi basati sul principio di alleggerimento delle sostanze impiegate che, stratificandosi su piani diversi, trovano modo di amplificare la loro leggerezza e il loro silenzio in un'appropriazione ancestrale di oscurità e bagliore.
Radi sa miscelare e combinare, con risoluzioni inestricabili nel loro pulsare emotivo, la luce e il buio, lo splendore e l'ombra, a volte animando il magma cromatico metallico dal chiaro in altre dallo scuro, nel tentativo di trovare un nitore capace di attraversare quella concretezza opalescente e mimetica che connota ogni sua opera. Con questa sollecitazione continua la sostanza concreta ed effimera che si palesa allo sguardo - o che tenta di farlo - si modella entro i canoni di una bellezza che intercetta e guida l'esclusività della risonanza cromatica agita da Radi: fatte di luminosità silenti o di oscuri clamori che affiorano plasmando e modulando la materia dell'involucro semitrasparente che le trattiene, assistiamo alla lenta evoluzione di opere che sono visione concreta di un concetto allo stato pupale, pronto e desideroso di accedere alla pienezza della vita e, quindi, di chiarirsi nell'universo definibile dell'esistente.
La concezione analitica dei lavori di Radi lasciano intravedere la possibilità di decifrare il mistero insolvibile dell'immagine e del suo valore intellettivo e conoscitivo, pertanto la prassi del suo fare artistico assume i contorni di una ritualità sacrale che, opera dopo opera, cerca di concedere allo sguardo del mondo la decifrazione di una teofania, di una apparizione trascendente, che superi il limite-confine del reale.
Nel superbo lavoro intitolato Trittico del grigio dorato tale esercizio sacrale trova una risonanza ulteriore nel riappropriarsi di una struttura compositiva che immediatamente rimanda alle formule dell'antico: al suo interno, invece che al rinnovarsi rituali di sacre conversazioni, dedicazioni, estasi o crocifissioni, Radi accoglie una nuova modalità espressiva per attuare quell'intrinseca esegesi del visibile che lega le diverse tipologie di sue opere. Anche in questo lavoro composito si celebra il rito dell'immagine che affiora e germoglia; che anima un proliferare di essenze vive e mai appagate di doversi chiudere entro una bidimensionalità non più sufficiente. Non soddisfatte della loro condizione "pittorica" queste molteplici forze espressive agiscono esercitando una pressione che si fa spazio concreto, visibile e rintracciabile nel reale, e sono in tensione, al limite, pronte ad irradiare tutta l'energia vitale che le attanaglia o ad implodere in un nulla che lascia sempre spazio alla speranza di altre e nuove apparizioni.
Achille Perilli Geometrie improbabili
Achille Perilli - Geometrie improbabili
Achille Perilli: Geometrie Improbabili. Testo Critico a cura di Nadja Perilli.
La mostra propone le opere recentissime di Achille Perilli, una serie di tele che definiscono la ricerca dei complementari, nelle campiture, sottilissime variazioni di colore che sottintendono un tessuto, percettivo, vibrante di materia. Strutture di pieno volume, leggiadre nelle trasparenze. Mutazioni della geometria irrazionale nata alla fine degli anni '60 e ancora viva e determinata a superare ogni possibile riuscita sconfinando sempre nel dubbio.
Gianfranco Zappettini
Gianfranco Zappettini
Gianfranco Zappettini. Testo Critico a cura di Alberto Rigoni.
PROCESSO, METODO E STRUTTURA I FATTORI INTERNI DELLA PITTURA DI GIANFRANCO ZAPPETTINI
Esistono molti modi per indagare le indefinite possibilità della Pittura. Nella sua quasi cinquantennale attività, Gianfranco Zappettini ne ha adottati diversi, alcuni dei quali in particolare hanno destato l’attenzione della critica e del pubblico: ad esempio il periodo della Pittura Analitica negli Anni Settanta e la serie “La trama e l'ordito” negli Anni Duemila. Nel corso del tempo, attorno al lavoro del pittore genovese si è destato a più riprese un generale interesse, testimoniato non (solo) da estemporanei apprezzamenti soggettivi di questo o quell’esperto o gallerista, ma (anche) dalla maggiore frequenza con cui Zappettini è stato Invitato a esposizioni collettive in importanti spazi pubblici, oppure gli sono state allestite mostre personali in musei o gallerie private, o ancora gli sono stati dedicati articoli su riviste specializzate o libri. Queste periodiche rinascite di interesse sono state determinate da più fattori, alcuni dei quali, a ben guardare, forniscono argomenti non del tutto esaustivi. Ad esempio, l’attenzione di critica, mercato e pubblico, negli Anni Settanta come oggi, va considerata l’effetto e non la causa di una determinata situazione di partenza. È pur vero che attenzione genera altra attenzione, e che se un critico o una galleria importante si accorgono di un artista, può innescarsi un circolo virtuoso di interesse da parte di critici e gallerie sempre più importanti; quindi (e tuttavia) le spirali iniziali di questo circolo possono essere considerate solo in parte un fattore generante interesse. In secondo luogo, si può tracciare a grandissime linee un parallelo storico: negli Anni Settanta, l’opera di Zappettini si inseriva alla perfezione nel momento di rinascita della Pittura, dopo i difficili anni dell’Arte Concettuale, mentre oggi si inserisce in quella nicchia che offre una sponda alternativa al predominio della pittura figurativa; ma anche in questo caso, l’argomento, accettabile per alcuni versi, non può essere la spiegazione ultima: sia all’epoca sia ai giorni nostri, Zappettini non fu e non è l’unico a presidiare il campo di una certa pittura astratta, rigorosa, assoluta. Perché lui sì e molti altri pittori no? Sgombriamo il campo anche da un altro dubbio. Va dato atto allo stesso Zappettini di aver avuto l'intuizione, più di cinque anni fa, di creare una Fondazione che, attraverso l’organizzazione di mostre e la pubblicazione di libri e cataloghi, avesse l’obiettivo primario di studiare il periodo della Pittura Analitica (in cui Zappettini, secondo i documenti, spiccava tra i protagonisti), con l’inevitabile e voluto effetto di presentare anche quello che gli Analitici di allora realizzano oggi; anche in questo caso, però, siamo di fronte ad un fattore parziale, perché sono numerose oggi in Italia e all’estero le Fondazioni operanti in modi analoghi e non tutte, dati alla mano, riescono a generare lo stesso interesse attorno ai loro obiettivi statutari. L'impressione è che si potrebbe continuare ad esaminare a lungo una serie di fattori esterni, senza riuscire ad individuare la causa comune, negli Anni Settanta come oggi, di questo accertata interesse per Gianfranco Zappettini. Tale esame finirebbe per ricalcare la stantia diatriba sul “sistema dell’arte": perché il “sistema” esalta o affossa determinati artisti in determinati periodi? E ancora: al “sistema” vanno davvero attribuite tutte la responsabilità di tracolli e di fortune di singoli o di movimenti? O forse non è lo stesso “sistema" la cassa di risonanza o almeno lo specchio di attività artistiche di per sé interessanti? La questione, da sempre affrontata con passione da opposti e spesso inconciliabili punti di vista, appare irrisolvibile, ed in ogni caso non la si potrà risolvere qui. Ma avervi accennato, e aver dato il giusto peso ad alcuni fattori esterni delle cicliche fortune di Zappettini, ci consente di affrontare con maggiore serenità l'analisi di alcuni fattori interni e tentare di spiegare perché oggi come allora l’arte di Zappettini ha raggiunto una quadratura particolare che la rende argomento stimolante per critica, pubblico e mercato. Da tempo e da più parti si sta cercando di sistematizzare sul piano critico e storico «quei problematici Anni Settanta» (significativo titolo che Giorgio Cortenova ha dato ad una mostra a Roma nel 1989). Rimandiamo alla “Cronologia della Pittura Analitica”, che correda questa pubblicazione, chi volesse avere un quadro più ampio (ma anche ampiamente riassuntivo) della successione dei fatti. In breve qui annotiamo soltanto come tra la fine degli Anni Sessanta e l’inizio degli Anni Settanta in Europa i tempi stessero maturando per una rinascita della Pittura su nuove basi, dopo che negli anni precedenti l'Arte Concettuale aveva messo in serio dubbio la necessità dell’esistenza stessa di questa disciplina. I binari su cui gli artisti si muovevano erano l’informale (più nord-americano) e l’arte di derivazione concreto-strutturalista (più nordeuropea): il primo era la liberazione definitiva della gestualità dell’artista, la seconda una ricerca di tutte le strutture portanti possibili della superficie. A cavallo tra i due decenni e per tutta la prima metà degli Anni Settanta, nei Paesi europei vi furono nuclei di artisti che si muovevano meglio sull’uno o sull’altra sponda. Tra il 1973 e il 1975 maturò una sorta di «convergenza parallela», e sul terreno della bassa percettibilità, di una apparente monocromia, di una giustificazione teorica e procedurale della Pittura, si delineò una situazione fotografata in numerose mostre collettive, in importanti spazi pubblici e privati di tutto il continente. Nello stesso alveo confluirono dunque alcuni artisti dei gruppi francesi Supports/Surfaces e di BMPT, olandesi-belgi della Fundamental Painting, e ancora Inglesi, Tedeschi e molti Italiani della Nuova Pittura: in totale, nel decennio furono più di cinquanta gli Europei coinvolti in una o più mostre sull'argomento, a cui vanno aggiunti anche alcuni Americani che si muovevano su tematiche simili già dalla fine degli Anni Cinquanta. In questo contesto, alla fine del 1974, nacque la Pittura Analitica. Fu un momento preciso di questa situazione europea e fu anche l'unico chiaro tentativo di una definizione, in un ristretto numero di mostre, di un ristretto numero di tematiche riferibili ad un altrettanto ristretto numero di artisti italiani, tedeschi, olandesi e francesi, il critico tedesco Klaus Honnef ne diede per primo la denominazione, nel novembre 1974, nel catalogo della versione milanese (Galleria Il Milione) della mostra “Geplante Malerei” che aveva già allestito al Westfàlischer Kunstverein di Munster pochi mesi prima. Honnef aveva maturato la propria idea anche grazie alla stretta frequentazione del connazionale Winfred Gaul e proprio di Gianfranco Zappettini. Quest’ultimo era stato allievo di Emilio Scanavino (quindi un “informale"), ma aveva scoperto durante la collaborazione con l’architetto tedesco Konrad Wachsmann (quindi uno strutturalista) il valore della struttura e della procedura. Grazie a Gaul, nel 1970 aveva conosciuto Honnef, il quale lo avrebbe invitato a Munster l’anno seguente per la collettiva “Arte Concreta”. Col 1973, Zappettini si accorse che la riduzione del contrasto cromatico nella sua serie “Strutture” era in pratica l’abbassamento della percettibilità del colore e non un risultato procedurale, e la struttura interna delle sue opere finiva in secondo piano. Gli insegnamenti di Wachsmann una decina d’anni prima - l’importanza della razionalità, del procedimento e delle strutture essenziali interne di un’opera - gli suggerirono una svolta drastica: adottare un approccio alla tela che fondesse la programmazione concettuale a priori dell’azione (stabilire sulla carta il risultato prefissato, gli strumenti e i materiali da utilizzare, il numero delle mani di colore da stendere eccetera) con la pratica gestuale da artigiano-pittore. Nacquero così i celebri “bianchi". All’osservatore poco attento, sembrarono la naturale evoluzione delle ultime “Strutture", in cui la dualità tra le tinte chiarissime era diventata quasi impercettibile: dal quasi bianco pareva essere passati al bianco totale. In realtà il salto era ben più radicale. In estrema sintesi, come funzionano i quadri “bianchi" di Gianfranco Zappettini? L’artista fissa a priori i termini della sua operazione: coprire interamente di bianco una tela montata su telaio e preparata col colore nero. Fissa poi i materiali (acrilico, polvere di quarzo) e gli strumenti (rullo da imbianchino) con cui intende operare. Dichiara il numero di mani a suo avviso necessarie per ottenere il risultato (ad esempio, venti mani), successivamente si mette all’opera. Se alla diciannovesima mano il bianco ha ormai coperto perfettamente il nero sottostante, resta il problema della ventesima mano, uno «stato tensionaie» tra pittore e superficie che Zappettini risolve con “luce bianca” su una o più linee verticali o orizzontali (ed ecco spiegati i titoli di molti quadri “bianchi”), semplici accenni all’ultima mano. L’operazione è essenziale e proprio questa essenzialità permette a Zappettini di isolare alcuni elementi grammaticali del linguaggio della Pittura: il colore perde valore referenziale e risulta semplice coprente, il rullo consente una stesura meccanica (mentre la pennellata è carica di stati d’animo e di «biografiseli» del pittore), il procedimento è il canovaccio intessuto a priori, le possibilità di questo modus operandi sono infinite, tela e telaio tornano ad essere il terreno privilegiato di queste operazioni, il risultato finale è il prodotto dell’interazione tra tutti questi elementi, così come una frase è il prodotto dell'interazione tra varie unità grammaticali e sintattiche del linguaggio. Inoltre, lo «stato tensionale» rappresentato dalle linee di luce è la solidificazione di quella tensione che sempre si crea tra un pittore e la superficie durante l’esecuzione: in questo caso però ne rimane traccia nel risultato finale. Da questa prima formulazione, Klaus Honnef trarrà spunto per tracciare quella sorta di manifesto della Pittura Analitica contenuto nel catalogo della mostra milanese del novembre 1974, e il resto è storia dell’arte: l’individuazione di pittori con percorsi affini, le mostre in musei e gallerie tra Italia, Germania e Olanda, gli errori e i passi falsi, la delusione di Documenta 6 a Kassel nel 1977, per tutto questo rimandiamo ancora una volta alla sintetica “Cronologia”. Seguiamo invece Zappettini, che dalla fine della Pittura Analitica iniziò una traversata nel deserto fatta di isolamento, ripartenze, sperimentazioni, percorso comune a molti artisti che hanno indagato varie possibilità (ad esempio il tedesco Gerhard Richter, il francese Noèl Dolla, l’americano Bruce Nauman): queste fasi hanno di volta in volta interessato critici come Achille Bonito Oliva, Viana Conti, Demetrio Paparoni e altri, ed è facile pronosticarne una riscoperta negli anni avvenire. Qui per brevità citiamo l'anno 1983, quando un altro incontro si rivelò determinante per Gianfranco Zappettini, quello con René Guénon. Lo studioso francese nella prima metà del Novecento aveva affrontato il concetto di “Tradizione”: l’Occidente, dalla fine del Medioevo in poi, vive una crisi derivata dalla perdita di tutti i punti di riferimento della società tradizionale, prima fra tutti la perdita della conoscenza metafisica di molti, se non tutti, gli aspetti simbolici della realtà che ci circonda. Ogni cosa nel mondo-secondo Guénon - ha una valenza più alta, che va oltre un primo livello di apparenza, oltre la realtà delle cose (metafisica, appunto); tutto, se letto con la lente della metafisica, simboleggia la “struttura portante" del nostro mondo, il quale risulta essere in definitiva una manifestazione del Principio di tutte le cose. Tali conoscenze, che Guénon recuperò per analogia con altre civiltà estremo e medio orientali e In dottrine come il Sufismo, il Taoismo e l'Induismo, non furono più tramandate da maestro a discepolo dall’Umanesimo in poi, in forza di un supposto Rinascimento, che a suo avviso altro non fu se non la rottura della catena della Tradizione. Il mondo moderno, elevando a proprio fine ultimo il progresso materiale e cancellando il progresso spirituale, entrò in una crisi irreversibile di valori e di autorità. Di Guénon (che coerentemente abbracciò poi il Sufismo e morì al Cairo nel 1951 ), Zappettini lesse appunto nel 1983 I simboli della Scienza sacra, prima di una serie di letture guénoniane che avranno decisive conseguenze sulla sua vita e sulla sua arte. Da sempre attratto dall’essenzialità, dal rigore e dalla freddezza zen, Gianfranco Zappettini capì come non vi fosse differenza di fondo tra la vita ripetitiva dei monaci orientali e il metodo artistico tramandato nelle antiche botteghe dai pittori ai loro apprendisti: in entrambi i casi, la pratica quotidiana di un’attività aveva una funzione ben più elevata rispetto al mero prodotto immediato, addirittura una funzione di realizzazione interiore. Non a caso, in entrambi i casi si parla di “maestri" e di "discepoli" e solo ai più degni tra questi ultimi il “maestro” rivelava al momento giusto il proprio “segreto", “il tocco del maestro”. Raggiunta questa consapevolezza teorica, Zappettini si mise al lavoro e per realizzare attraverso le opere pittoriche quella che egli stesso, mutuando un termine alchemico, chiama I’«Opera» finale. Le differenti opere di quest’ultima serie “La trama e l’ordito", esposte in questa mostra, possono essere lette come pagine di diario sempre uguali eppure sempre diverse, il diario di un monaco zen, testo-fexfus-tessitura che vogliono dare al contempo una lettura della vita e dell’arte, ma che in primis non possono che essere documenti di Pittura. In un suo scritto del 2005, il simbolismo della trama e dell'ordito, Zappettini chiarisce perché sia così interessato al tema. Questo tipo di dualità - spiega l’artista - rispecchia e fa parte della categoria di dualità che contraddistinguono la realtà che ci circonda: giorno e notte, caldo e freddo, sole e luna, maschile e femminile, yin e yang costituiscono quella situazione reale da cui partire per raggiungere una superiore Unità, in cui gli opposti non si distinguano più e l’Opera possa dirsi completa. Nella tradizione della tessitura, i fili verticali dell’ordito e quelli orizzontali della trama hanno valenze simboliche di cui ormai abbiamo perso memoria: l’ordito rappresenta l’immutabilità ma anche il susseguirsi di tutti gli indefiniti stati di un essere, la trama rappresenta invece la variabilità ma anche l’insieme di tutti gli esseri sul medesimo stato (ad esempio, tutti gli esseri umani). È l’unione di due complementari il cui risultato è la croce, simbolo denso di alti significati, non solo in ambito cristiano: non a caso con questa struttura primaria si sono confrontati numerosi pittori in passato, da Piet Mondrian al già citato Dolla. Un tessuto, realizzato anch’esso come il quadro su un “telaio”, è l'insieme di un numero indefinito di intersezioni, maglie di una rete che raffigura la struttura di tutto il cosmo manifestato, a volte rappresentato anche come un Libro in cui i caratteri formano il testo (in latino textus, da cui deriva anche la parola “tessuto”). In quest’ottica, va da sé come anche l’uso dei colori segua criteri ben più rigorosi che non la semplice ed estemporanea sensibilità del momento: il rosso è tradizionalmente associato sia alla passione sia alla gnosi, ovvero alla conoscenza; il blu rappresenta la notte cosmica ovvero tutto quanto non sia manifestato; il grigio-nero è il «giusto mezzo» tra il bianco e il nero, punto di incontro e di confine tra due opposti. Eppure ci troviamo sempre di fronte a dei quadri, documenti di Pittura - come si diceva sopra - che non possono e non devono sfuggire ad una lettura più tecnica e procedurale, peraltro non esclusa da una lettura simbolica. “La trama e l’ordito” è una serie iniziata nel 2004 che continua ancora oggi. Nel corso di questi anni vi sono state necessarie variazioni nella sequenza delle opere (per citare la più evidente: al blu che dominava all’inizio si sono affiancati poi il rosso, il grigio-nero e ultimamente anche il bianco), ma alcune caratteristiche si sono mantenute costanti. La prima è appunto la struttura della trama e dell'ordito, linee orizzontali e verticali che solcano la superficie, realizzate manualmente da Zappettini su uno strato di particolare resina. In secondo luogo, la trama e l'ordito non ricoprono tutta la superficie; una o più linee emergenti delimitano un bordo verticale o orizzontale (o entrambi) al di là del quale non c'è più strutturazione: lì, dove il colore predominante del quadro ne incontra un altro (ad esempio, il blu incontra il rosso), la divisione tra le tinte non è regolata da linee e sulla tela regna una sorta di «caos primordiale». Terza costante (se si eccettuano i primissimi lavori di questa serie) è la presenza di più linee dello stesso spessore di quelle delimitanti i bordi, che attraversano ortogonalmente o diagonalmente lo spazio bidimensionale; Zappettini in pratica sembra voler isolare, ingrandire e distorcere uno o più fili verticali od orizzontali sottostanti, concentrandovi l’attenzione sua e dello spettatore, come se fossero tirati da una mano angelica - per dirla con Zappettini. Nelle ultime opere, questi attraversamenti si sono via via fatti più complessi, fino quasi a diventare nodi: l’artista ci pone di fronte ad un simbolo, il legame, nella sua duale accezione di forte contatto e di impedimento a procedere. Si tratta in definitiva, spiega Zappettini, di tensioni, di increspature che possono sia rappresentare un intoppo, sia una tappa da cui ripartire ancora. Così, dallo «stato tensionale» dei “bianchi” Anni Settanta si è passati a «tensioni nel colore» (per citare il titolo di una sua recente mostra personale), dal «processo» si è arrivati al «metodo», ma l’indagine di Gianfranco Zappettini è sempre fissa sui fattori interni delia Pittura, sulle strutture intime che la regolano, sui lemmi che ne costituiscono il
Emanuela Fiorelli
Emanuela Fiorelli
È un'infaticabile tessitrice Emanuela Fiorelli che, tra peculiari trame ed orditi, prova a fissare lacerti di proiezioni spaziali che, quasi tensioni materiche in pronunciamento, cercano la loro specifica evidenza tridimensionale e concreta. Un moto in divenire quello "disegnato" dall'artista che rimane sempre appena accennato nell'inconsistenza del filo, materiale con cui si sottolinea e manifesta una sequenza variabile di orientamenti spaziali e di consistenze geometriche. Tesse, in questo modo, coordinate e direttrici che dalle sue congetture ideali affiorano impreviste allo sguardo: si sollevano, si inclinano, si incrociano, si protendono, si allungano mettendo in tensione un'elasticità sorprendente che accentua ulteriormente quel dinamismo plastico tanto voluto.
L'emancipazione della fase progettuale e del disegno avviene nell'opera compiuta e questa, trattenuta nel suo sospeso divenire, resta come porzione di un'azione infinita; è il risultato visibile che fonde le dinamiche specifiche dei suoi intimi processi costitutivi nell'originalità unica della propria forma, ripetibile come variabile eventuale in altre soluzioni successive. La geometria astratta non si chiude in un semplice ritmo segnico, ma afferma gli elementi di un innovativo codice espressivo che, con una sensibilità tutta particolare, elevano la pesantezza e la fisicità delle forme alla logica bellezza della trasparenza onirica, della delicatezza effimera, della leggerezza di una visione incorporea. L'immaginario pensato e ideato da Fiorelli trova corso attraverso il filo (ininterrotto) del suo agire che, lasciando intuire i fenomeni che prova a raccontarci, mette alla prova le nostre facoltà percettive, ci costringe a rivederle, a riconsiderale e a osservarle con maggior attenzione, perché nulla possa essere dato per certo, ovvio e scontato.
Un'importante dimensione di senso nella sua ricerca, forse poco esplorata criticamente, è il raffinato dialogo con l'imprendibile consistenza dell'ombra, statuto del visibile che, in Fiorelli, accede alla possibilità di quella provata volumetria che naturalmente le dovrebbe essere preclusa: non limitandosi mai ad un confine prestabilito proietta nuove moltiplicate figure nello spazio dilatando le melodie incarnate dal filo come fossero le ombre di entità non visibili, effimere presenze rese concrete dall'emancipazione dalla loro (ideale) sorgente. L'equilibrio figurale e scultoreo sembra fissarsi in tutta l'ambiguità con cui l'artista ci introduce alle sue opere: Textur box e Sculptur box sono esempi che definiscono come il suo intervento sia un insieme di regole, di formalismi geometrici, di ritmicità in sequenza che cercano di focalizzare l'attenzione sul dualismo tra consapevolezza ed istinto, tra ragione e sentimento, tra equilibrio e libertà, tra controllo e distacco, predisposto per individuare una logica necessaria per coesistere.
Sospirano questi suoi lavori, si lasciano attraversare dal vuoto, si sorprendono nella loro capacità di essere strumenti di comunicazione tra piani sensibili differenti, uniti e messi in relazione proprio dalle linearità tessute. Lo stato tensivo del materiale che Fiorelli ci trasmette sospende la concretezza abituale; la struttura e la destruttura portandoci ad una nuova riorganizzazione della realtà, semplicemente in punta di filo.
Bruno Saetti La forma come Materia Colore
Bruno Saetti - La forma come Materia - Colore
Bruno Saetti: La forma come materia - colore Testo Critico a cura del Prof. Toni Toniato.
Sulla pittura di Brano Saetti esistono contributi critici dei maggiori studiosi del nostro novecento, da Ragghianti a Marchiori, da Mazzariol a Solmi sino alle recenti indagini condotte da giovani specialisti corno Dino Marangon e Maria Luisa Frisa, i quali hanno offerto interpretazioni non solo da condividere ma da ritenere indispensabili per pertinenza e profondità concettuale. E tuttavia l'importanza storica dell'artista non sembra ancora del tutto riconosciuta come merita, nel senso che la grandezza della sua pittura rimane purtroppo condizionata da un pregiudizio dovuto principalmente al fatto che egli non appartiene ad alcuna delle tendenze a suo tempo emergenti, se non poi egemoni, nel contesto italiano, come a dire che la sua singolare indipendenza, anziché costituire un fattore già di per sé distintamente rilevante, pesa viceversa sulla giusta collocazione che dovrebbe a ragione vantare ormai il suo originale percorso creativo nel panorama dell'arte dei ventesimo secolo. Anche nei recenti tentativi di revisione, e di altrettanto necessaria rivalutazione di certi fenomeni artistici del Novecento, poste in atto da parte di autorevoli critici, si è ugualmente proceduto in genere a privilegiare i movimenti o, comunque, i loro esponenti più che quelle figure che si sono mosse con autonomia, cioè si è continuato a mettere in primo piano la novità delle idee anziché la qualità delle singole risoluzioni espressive, con l'effetto di non tener conto, invece, della coerenza di coloro che hanno seguito uno sviluppo personale, indenne da mode o da condizionamenti del gusto corrente, libero quindi da vincoli esterni e tale in ogni caso da dimostrarsi pur sempre di non minore tenuta e valore storico. Per di più Saetti appartiene per nascita ad una generazione che non è strettamente quella che accomuna, anche per contiguità di esperienze, le ormai accreditate ancorché distinte vicende dei "maestri" generalmente .riconosciuti del primo novecento, come a dire quella di Balla e di Boccioni, di Carrà e di De Chirico, di Morandi e di Sironi, di Casorati e di Guidi, pionieri, in questo senso, delle svolte che si sono succedute in quel cruciale periodo e nemmeno può venire poi inquadrato nella generazione, a lui cronologicamente più prossima, non a caso poi definita di mezzo, quella infatti comprendente, tanto per fare qualche esempio, i protagonisti successivi come Guttuso e Bicolli, come Afro e Santoniaso, come Merlotti e Vedova, come Turcato e Burri, bensì egli si colloca - non soltanto allora per età - su una linea per certi aspetti di più breve transizione tra tali determinanti polarità, entro le quali si è soliti individuare per l'appunto le tappe culminanti della nostra cultura artistica. D'altra parte Saetti non si forma, né vive in modo diretto le svolte dei due primi decenni del secolo, contrassegnati, in Italia, dai radicali precorrimenti dei futuristi e dalla "controriforma" avviata dalla Pittura Metafisica e in seguito ritualizzata nei celebrati "richiami all'ordine" innescati a loro volta, sia pure differentemente, dal gruppo dei Valori Plastici e dai "novecentisti" della Sarfatti. Storicamente il panorama dell'arte moderna italiana è assai più complesso ed articolato ma nondimeno la Bologna di quel tempo, la città natale dell'artista, dopo l'episodio clamoroso ma breve della mostra di novelli "incamminati"- tenutasi per un solo giorno, il 20 marzo del 1914, all'Albergo Baglioni - punterà contrariamente a ritrarsi verso altre posizioni per fare magari i conti con il proprio fastoso passato, ed escludendo Morandi e Corsi che seguiranno strade diverse e ben più feconde, l'ambiente artistico locale si verrà ad attardare così nostalgicamente a ripensare di poter aggiornare una tradizione per tanti versi ormai irrecuperabile. Saetti si trovava dunque nella sua formazione artistica a cimentarsi con quei modelli, sebbene la sua ricerca si orienterà ben presto nella cruciale direzione di un rinnovata primarietà, mirando a riproporre addirittura echi di remoti etimi, anzi risalendo in seguito nientemeno che ai primordi della pittura compendiaria classica, mutuata e rigenerata attraverso una particolare sensibilità personale e una straordinaria perizia relativamente esercitata sia nell'antica pratica dell’affresco che del mosaico, Breve sarà infatti per lui l’attrazione che l'avrebbe portato in un primo periodo a risentire deH'influsso di un pittore come Armando Spadini a quel tempo celebrato dalle stesse Biennali veneziane dell'epoca ma anche simile interesse risulterà confermare semmai, nella significativa tangenza stilistica, l'innata disposizione di Saetti per un certa concezione delle forme quale necessario esito di una dominante plasticità della materia-colore, di una fisicità naturale dell’immagine, nel senso per l'appunto di una concretezza sensuosa, carica di pienezze vitali e dello sguardo e dell'animo. Le giovanili prove figurative preludono del resto a risoluzioni che dovranno sempre più caratterizzare l’evoluzione della singolare modernità del suo linguaggio pittorico, pur nei doverosi imprestiti, di volta in volta acquisiti, prima, dal '500 -'600 emiliano e, poi, da Giotto e dalla pittura pompeiana, così come da Goya e Renoir più che, in effetti, da Spadini, ed insieme dal plasticismo classicheggiante del Picasso "italiano", ma altresì da quella dizione di realismo magico anticipata da certi protagonisti del grappo del "Novecento", come a dire, anche in questo caso, più Casorati che Sironi, più Guidi che Morandi. Questi elementi di riferimento che accompagnano e scandiscono in qualche modo il lungo itinerario creativo compiuto da Saetti devono allora assumere, se si vuole comprenderne le spinte ideative e le progressive valenze pittoriche, una ragione soprattutto formale e stilistica e non semplicemente tematica mentre si è in genere dato al contrario fin troppo importanza agli aspetti propriamente iconografici dei suoi soggetti, delle sue scelte nell'ambito in prevalenza di un intimismo famigliare - peraltro ricorrente nel clima culturale italiano di quegli anni - che hanno condotto probabilmente i suoi interpreti ad accentuare o a privilegiare di solito la componente, in lui, propriamente affettiva e sentimentale, giungendo spesso a scartare oppure a non tenere sufficientemente conto, invece, di altre più decisive motivazioni. Né deve contare più di tanto dunque la predilezione del pittore per un mondo figurativo costituito da simili problematiche che ci si ostina ad identificare ideologicamente con lo spirito borghese dell'epoca, quando tali pretesti vengono invece da lui utilizzati per ricercare o, meglio, per ricreare soluzioni espressive di ben diverso significato. Se i contenuti, anzi le fonti dell'ispirazione dell'artista sono infatti quelle di una realtà figurativa da lui sapientemente traslata in una rappresentazióne di mirabili immagini ed ambienti del suo mondo privato ed ideale, i magnifici ritratti della moglie e dei figli, le rinomate maestose maternità, le solide e succose composizioni di nudi femminili e di atleti in riposo, le ieratiche raffigurazioni sacre, le sintetiche e corpose nature morte, fatte di oggetti comuni : frutti, caraffe, fiori, stranienti musicali, ebbene tutto questo corrisponde piuttosto a un repertorio tipico per tutti coloro che si sono provati con questi generi abituali della pittura, proponendo raffigurazioni in sostanza variamente poi elaborate sia dai linguaggi sperimentali delle avanguardie che da quelli ancóra ancorati a tradizioni naturalistiche locali, aspetti che appunto si distinguono non sul piano tematico ma su quello delle loro prospezioni concettuali ed espressive. Occorre pertanto seguire l'effettive novità formali e tecniche della maturazione stilìstica dell'artista il quale da quelle premesse saprà coerentemente procedere verso un sintetismo plastico di concreta astrazione, senza troppo rimarcare gli inevitabili scarti, le progressive cesure tra il corposo e greve tonalismo delle sue opere "classiche", tra gli anni Trenta e Quaranta, e l'espanso e vibrante colorismo materico della sua produzione successiva, mirando invece a colmare il divario stilistico che pure esiste, come per ogni altro valido artista, nel necessario sviluppo della propria ricerca e delle relative esperienze linguistiche. La svolta che egli imprime in questa direzione si affaccia già durante la sua presenza a Venezia, dove egli arriva nel '30, per intraprendere l'insegnamento all'Accademia, dovuta in gran parte a contatto con una reale ambientale e culturale quanto mai diversa rispetto a quella della Bologna della sua formazione e dei suoi esordi artistici. Qui però verrà a contare, per lui, non solo la situazione locale indirizzata prevalentemente a tradurre ancora i portati dell'impressionismo in svaporate distillazioni percettive, ma le posizioni eccentriche occupate in maniera opposta da due artisti, dalla pienezza solidificata delle forme nella pittura di Cadorine dall'assoluta trasparenza luminosa in quella di Guidi. Ma soprattutto la città, le sue atmosfere, la magia dei luoghi, i suoi incantevoli scorci, saranno il viatico per alimentare incipienti linfe della fervorosa creatività dcU'artista bolognese, indotto perciò a sperimentare nuove e preziose sottigliezze immaginative poi focalizzate sulla rappresentazione dello stesso paesaggio veneziano e in particolare nella sontuosa decantazione sull'iterato motivo del disco solare che costituisce il referente emblema di una misteriosa inesauribile potenza, naturale e soprannaturale. Prima o poi egli si era comunque misurato per rigore di mestiere e severità costruttiva con le tecniche e le funzioni storiche dell'affresco, con gli stacchi e i riporti di questa pittura in una raffinata ricomposizione dell'immagine originaria, esaltandone qualche residuale allusivo frammento, facendo magari emergere dalla consunzione del tempo o dalla decostruzione formale - in ogni caso più uno scavo ideale che un'entropia lessicale — l'integrità puramente fantasmatica di una moderna sinopia, della sua alchemica trasformazione. La dimensione poetica di queste operazioni da lui esperite con prestigiosa raffinatezza ha comunque ben pochi confronti nella cultura figurativa della nostra modernità, forse non si sono colte ancora in modo esauriente le prospettive concettuali e linguistiche aperte da queste sue formulazioni, viceversa intese in senso riduttivo quali reminiscenze di una arcaicità ormai improponibile. Di una sbalorditiva attualità erano invece quei rigenerati primordi, ammantati ancora di una bellezza arcana; vi agisce qualcosa che non può essere calcolato empiricamente e nemmeno prodotto da un severo se non ostinato esercizio tecnico, bensì soltanto percepibile e figurabile per acutezza di sensi e poi trasmesso unicamente per intensità di pensieri e di emozioni. Specie dagli anni Cinquanta in poi Saetti procederà pertanto a condensare gli elementi della sua grammatica pittorica, a sperimentare altri registri e partiture di un lessico figurale che pare farsi, in lui, sempre più astratto, nel senso di un'essenzialità persino di certi valori decorativi che pure facevano parte del suo vasto repertorio espressivo. Stupende geometrie, qui, di un'idea del decor, della qualità della forma propria e mai mera ornamentazione - ma soprattutto concentrerà lo sguardo oltre ogni mimetico rispecchiamento della realtà, agendo per tentare dì superare il mero dato sensibile, la contingenza del riscontro percettivo, arrivando così a trasformare la sensazione in emozione. Avviene nella sua pittura un processo crescente di semplificazione ed insieme di stratificata concrezione delle forme, che porterà l'artista secondo vie proprie a competere con non dissimili proposizioni dell' astrazione pre-informale, ma con l'obiettivo, per lui, di esprimere ancora, attraverso la stessa icasticità segnica e cromatica di immagini potentemente materiche, l'ordine naturale e simbolico di una trascendente struttura del reale, di un'armonia misteriosamente costruttiva insita e nelle figure della mente e del mondo. Concerterà allora con un atteggiamento più pensoso e meditativo i diversi costrutti, i nessi combinatori tra elementi geometrici, tasselli di una scacchiera di splendide riquadrature cromatiche, di rapinosi prospetti su tipiche vedute di luoghi veneziani, dove rifulge ogni volta in modo ora incombente e drammatico, ora appena evocato e Uricamente ineffabile, l'aura metafora del grande cerchio solare - basilare icona di una sacralità cosmica - inaugurando una vibrante tessitura ritmica e spaziale, costruendo una tastiera di infinite varianti tonali, rinnovando di continuo l'assetto compositivo di quelle trame formali - memori, per talune consonanze, dei sublimi tracciati di Paul Klee - e divenuti la cifra stilisticamente inconfondibile dei cicli pittorici dell'ultima produzione dell'artista. Ma il fascino più segreto di queste suggestive iconografie, delle composizioni tarde, sia delle nature morte che delle vedute lagunari, filtrate, queste ultime, attraverso le vetrate dell’imbarcadero, alle Zattere, proviene dallo stesso principio che ne ha nutrito l'intera opera, dagli inizi alla fine, da rintracciare comunque nella sua concezione di una pittura che senza negare un patrimonio peraltro di per sé inesauribile della nostra grande tradizione figurativa, ha saputo manifestare una propria idea di modernità, forse meno precaria rispetto a quella tracciata dai sovvertimenti prodotti da certe più eversive avanguardie, e da lui rappresentata per l'appunto tramite una visione quanto mai singolare - davvero propriamente originale della forma-colore, capace di costruire immagini quindi di una suadente concretezza fisica ed ideale, ossia intrise di una materia- colore che nel rivelarsi sulla superficie, nel configurasi come assoluta emozione, si declina e si decanta in una incantevole riflessione spirituale e poetica. Nella magia di una pittura come la sua, che ha il merito di apparire senza tempo, di essere insieme classica e moderna.
Luca Alinari La vita che corre
Luca Alinari - La vita che corre
Luca Alinari: La vita che corre. Intervista a cura di Rino Feiappi
F. Scorrendo sulle sue opere, realizzate in diversi, momenti di questi ultimi anni, si è portati a concludere che lei ha mantenuto, comunque, un'identità precisa: ci dica se ciò deriva da un percorso, anche se intimo, ma in sé prefissato, o da un sentimento istintivo, oppure da una o più certezze.
A. Credo che la mia identità derivi soprattutto dalle mie incertezze. Tutte le difficoltà, tutti i dubbi del vivere mi riconducono, ogni volta, al gesto della pittura. Che, a sua volta, mi avvolge, ci avvolge, nella luce di un enigma continuo. Si dipinge sempre quello che non si sa.
F. Negli anni '70 (la data, dell'opera è il 79) lei propone campi, pittorici aperti, spaziosi, di lieve respiro e colori uniformi. Ci riferiamo, tra l'altro, a "Una visione del Telemaco Signorini", il grande artista che occupò quasi l'intero '800 con una pittura precisa e delicata, riproducente vedute e animazione esterna oppure interni caldi e familiari. Anche in quell’opera lei lascia intravedere una collocazione fantasiosa di soggetti. Ci vuole dire quanto e come di ciò che propone oggi, vive in quegli anni?
A. Dipingere è qualcosa di automatico. Ma i micro-gesti dell'invenzione non sono inconsci. Forse inconsapevoli ma non inconsci. Inventare, cioè dipingere, vuol dire muoversi su tempi diversi. Per la precisione terribilmente accelerati. Non qualcosa, quindi, che viene da una nebulosa oscura che agisce dentro di noi. No. Piuttosto una forma di pensiero velocissima e quindi impercettibile che si "ferma" nei movimenti della matita o dei colori. Del resto quando si dipinge si può pensare anche ad altro. A canzonette, per esempio, o a lontane gite in montagna. O a qualcuno che abbiamo perduto o trovato. La pittura è la vita che corre.
F. Qualcuna ha azzardato, su di lei, un suo lieve "sfioramento”al Pop e al Figurativo: potremo lasciare al lettore delle sue opere II giudizio o la classificazione. Ma preferiamo chiederle di precisare una risposta chiarificante sull’argomento.
A. Da ragazzino, sulle spiagge, raccoglievo ciottoli o tubetti strizzati di dentifricio. I ragazzini amano gli oggetti trovati. Poi arrivano i codici, i sistemi. I variegati rituali delle biennali accademie. Un giorno, sulle spiagge, troveremo anche quelli.
F. Quando si pone Alinari in una "esposizione ellittica", ci viene la tristezza di una "limitazione" che lei ci pare non avere. Ci vuole aiutare a capire come, eventualmente, accettare o no quella "collocazione"?
A. In un allegro gruppetto di parole, come è noto, non cambia il risultato neppure se un vento dispettoso ne scompagina. le accurate ubicazioni.
F. Qualcuno la fa nascere tra gli orrori della seconda guerra, mondiale; quindi con conseguente senso di "ineluttabile contraddizione", di "assurdo incombente", di "gioia differita", di "tragedia mutata in favola". Tutto questo sarebbe il "tono” delle sue opere. Ma quando lei nasce, nel 1943, siamo quasi al termine di quella guerra, perciò la sua formazione sentimentale, culturale e gli elementi di spinta creativa e, poi, evolutiva in espressioni artistiche si sviluppano in un clima "sereno". Questo è il nostro pensiero: lei come spiega la sua vita artistica, dal "concepimento" delle sue prime opere fino alla più travolgente realizzazione di oggi?
A. Una cannonata tedesca aveva colpito il terrazzo di casa mia, un appartamento al primo piano del numero undici in via Fratelli Dandolo a Firenze. L'apertura era rimasta per anni, e solo alcuni vasi, di gerani poco annaffiati mi difendevano dal piccolo baratro che guardava la strada sassosa. Dalla mia altezza di allora, attraverso quella ferita della guerra recente, potevo osservare facilmente i rari passanti che avanzavano piano piano.
F. Nelle sue opere, il "lettore" deve obbligatoriamente intuire "l'origine" del mondo oppure un "dopo la fine" del mondo, oppure, ancora, qualcosa di diverso che lei ancora non ha voluto rivelare?
A. Ho sempre detestato la fantascienza. Derivati e iperboli vieppiù. Considero fantascienza anche un congruo numero di avventure psicologistiche sparpagliate nei cinema e nei romanzi. Ma veniamo al sodo e cioè alla risposta: qualche giorno fa un incontro in centro. Un vecchio amico, mio collega nei cinque giorni di militare che ho esercitato con l’Invidiabile devozione dei pittori. Parlavamo, spinti da una folla senza riguardi, del più, del meno. Di piaceri, di dolori. Quando, con esercitata coda dell'occhio, decifrai II titolo della conferenza nell'antro oscuro di un palazzo medievale: "Quale futuro per la preistoria?". Hostess e sostenitori diffondevano foglietti. L'amico, lieve, continuava a tacere, ma io, oramai, non lo ascoltavo più.
F. Quanto c’è nelle sue opere, delle rivelazioni emergenti di Klee o delle descrizioni dinamiche o pastorali di Dufy, oppure di altri autori a cui le piace accostarsi?
A. "Essi credono di offenderlo" è un buffissimo signore costituito da pochi segni neri su di un fondo biancastro. Visto da più lontano potrebbe sembrare un giardino all'italiana. Da più lontano ancora la mappa di un labirinto. Più ci si allontana più i quadri di Paul Klee sembrano se stessi.
F. Stare dinanzi a un quadro di Luca Alinari, è abbracciare e spaziare insieme "espressioni totali". Ma come nascono le sue opere? Da lumi storici, da spirito critico ambientale o sociale, oppure, ancora, da un'ironia piena di colore e di movimento?
A. Non c'è niente di peggio che ritrovare un proprio quadro dopo troppo tempo. Come certe persone che ci pare di riconoscere, forse. Non sappiamo se salutare o se eludere il tutto con un organizzato sguardo sul volo ardito di certi piccioni. Così quel quadro è e non è. Ci sembra, non ci sembra. Cosa avrà fatto nel frattempo? Cosa diavolo gli sarà successo? Non ci importa più iI suo codice genetico, e neppure la forma della sua conformazione. Per educazione vi sostiamo davanti. Ne osserviamo gli angoli, il centro, i lati. Una vocina dentro sembra dirci: «Ma si! E' proprio lui, cioè, sei proprio tu. Non ti riconosci? Non ti piaci?»
F. "Modellini nella nebbia" - "Lustrascarpe, lacchè, leccaculo" -"Istmo di Zolfo" - "Omissis" “Boschetto delle metafore" -"Tutto su Stalingrado" - "Un Picasso a Paperopoli", sono titoli di sue opere degli ultimi anni. Vorremmo chiederle se nascono prima i titoli o prima le opere, ma preferiamo chiedere se tali opere hanno riferimento preciso a sentimenti suoi, ad avvenimenti e se sono sollecitate in lei da reazioni, e quali.
A. Il buon pittore non sempre gratifica un suo quadro con un titolo. I senza titolo abbondano e conservano una loro dignitosa riservatezza. Intollerabile è il titolo arbitrario appiccicato da terzi. Terzi provveduti soltanto di gallerie equo canone o raccapezzati ambienti fieristici o museali (è, quasi, lo stesso). Provveduti, questi terzi, financo di copioso sangue di pittori morti. Dal quale si aspettano, a ragione, gloria, economia, prebende. Altri quadri, più fortunati, esibiscono il loro titolo originale, il blasone di non-appartenenza. Nello studiolo del buon pittore, titoli e quadri si cercano e si trovano in piccoli matrimoni fecondi. Deve esserci, da qualche parte, deve esserci in qualche punto della cameretta. Deve esserci "un dio nella sua forma liquida".
Il percorso concreto di Ideo Pantaleoni
Il percorso concreto di Ideo Pantaleoni
IL PERCORSO CONCRETO DI IDEO PANTALEONI
Che cosa spinge un artista ormai più che quarantenne, di impianto espressivo più che tradizionale, in un’epoca difficile come l’immediato secondo dopoguerra, a sperimentare un astrattismo tanto radicale da poter essere definito “concretismo”? In questo senso la storia di Ideo Pantaleoni – perché è di lui che stiamo parlando, e non di Lucio Fontana, che pure potrebbe rispondere, mutatis mutandis, alle stesse caratteristiche appena esposte… - è paradigmatica di un momento difficile per la cultura artistica italiana, e al contempo di una capacità di ricerca, di esplorazione, di rinnovamento di cui molti “piccoli maestri” (nella cui categoria annoveriamo anche il nostro) diedero prove tanto interessanti quanto accantonate dalla cosiddetta “grande storia”, così veloce nel dimenticare, nel guardare soltanto ai filoni principali di ogni fenomeno. Certo, oggi – e da almeno un trentennio – anche le vicende del concretismo italiano sono state indagate nelle loro linee guida, ed è stato riconosciuto il posto che spetta a questa tendenza nel novero delle ricerche susseguenti al “crollo” ideale, concettuale e ideologico di tutto l’apparato novecentista che aveva retto quasi tutta l’arte italiana nei vent’anni precedenti la fine della guerra, e tuttavia l’occasione di una rassegna come questa consente ulteriori indagini, più accurate, persino più intime sulle motivazioni personali, sui moti dell’animo, sulle pulsioni individuali connesse agli stimoli esterni, alle sollecitazioni culturali, che possono aver condotto nel breve volgere di pochissimi anni un artista da una pittura memore di quella di Armando Badodi, il “chiarista” vicino al movimento di Corrente – mi vengono in mente a questo proposito le riproduzioni de “il mio studio” e “La mia camera di sfollato” rispettivamente del 1942 e del 1943 – alle geometrie astratto-concrete prive di ogni narratività o riferimento a situazioni psicologiche o personali. Di sicuro, quegli anni consentivano cambiamenti repentini, e in un certo senso li imponevano. Tutto ciò che era avvenuto “prima” della fine della guerra era comunque contaminato da valori, da compromessi, da una retorica che sembrava aver qualcosa a che fare col totalitarismo del regime fascista, anche se si trattava di una natura morta o di un paesaggio, per cui tutti gli artisti già attivi sullo scorcio degli anni Trenta – e Pantaleoni era nato nel 1904, per cui la sua attività era già matura allora – in un certo senso si autoimponevano di rigettare quello che era lo “stile” d’anteguerra, e di cercarne uno nuovo, che rispondesse prima di tutto ai canoni “politically correct” di un’arte per così dire “democratica”. Pantaleoni, che aveva partecipato al Premio Bergamo (il premio d’arte “progressista”, voluto dall’intellettuale fascista Bottai) e a qualche mostra sindacale, tipica dell’epoca, ma che nella sua vita d’artista era stato indifferente alle seduzioni del regime, e ne era stato ricambiato con altrettanta indifferenza (a parte le puntuali recensioni di singoli intellettuali molto attenti alla vita artistica) si trovava di fronte all’unico bivio linguisticamente possibile in quegli anni: la strada postcubista e picassiana da un lato, l’astrazione dall’altro. Si noti che entrambe queste strade passavano comunque per Parigi, anche se la strada dell’astrazione ci arrivava per così dire “via Svizzera”, e talora persino nella sua parte tedesca, mentre quella postcubista era diretta, maestra, e infinitamente più frequentata. Picasso era diventato “il” pittore progressista, l’esempio fulgido di intellettuale impegnato, di artista schierato, e per di più – ma spesso questo sembrava essere un mero accessorio – era un grande pittore, un caposcuola, l’immagine stessa della modernità, sia con la “M” maiuscola che con l’iniziale minuscola. Nel contempo Parigi era tornata ad essere la città degli artisti per eccellenza, il luogo dove tutti si incontravano e dove tutto era accaduto, e sarebbe accaduto ancora (solo pochi si accorgevano del sorgere di nuove capitali dell’arte, ma la tradizione italiana era tutta rivolta alla Francia, una volta tolte di mezzo dagli avvenimenti storici quelle poche e deboli possibilità antagoniste mitteleuropee), per cui il “viaggio a Parigi” era un momento obbligatorio per ogni artista che volesse anche nei fatti dichiarare il proprio rinnovamento. Di più, a Parigi, oltre alla forte “colonia” italiana degli anni Venti e Trenta, prendevano piede quegli artisti italiani che vivevano là, ma che erano stati marginalizzati dalla cultura italiana perché lontani stilisticamente dal Novecento e dintorni, come il Gino Severini di certi anni e soprattutto Alberto Magnelli, affiancati da altri, come Silvano Bozzolini, che avevano deciso di trasferirvisi subito dopo la guerra: tutto faceva di Parigi la meta di una sorta di Grand Tour al contrario. Pantaleoni non fa eccezione, e vi si reca nel 1948 per la prima volta, rimanendone tanto affascinato da decidere di prendere subito studio là, dividendolo con quello di Milano. Resta tuttavia da comprendere il punto cruciale perché abbia scelto la via dell’astrazione rispetto a quella più consueta, e francamente più conseguente rispetto alla sua pittura precedente, di un picassismo aggiornato e riconosciuto. Alcune biografie dell’artista parlano effettivamente di una primissima fase francese di postcubismo con aspetti surrealisteggianti ma a parte un paio di “nature morte” datate 1948 ed esposte alla Biennale di Venezia dello stesso anno non siamo riusciti a rintracciarne molte altre (c’è una foto dell’artista che lo ritrae con sullo sfondo alcuni lavori di matrice postcubista…), mentre già dalla stagione 1950/1951, tornato a Milano, Pantaleoni entra a far parte del M.A.C. (Movimento Arte Concreta), il movimento fondato da Gillo Dorfles, Gianni Monnet, Bruno Munari e Atanasio Soldati, su basi rigorosamente astratto geometrica e, appunto, “concretiste”, cioè ispirate ai concetti di forma, di non narratività, di assoluta mancanza di ogni “psicologismo” (parola che allora comprendeva ogni idea di espressione individuale) e “contenutismo”, di concretizzazione di forme astratte, di coincidenza tra segno e significato. Non sappiamo se l’adesione di Pantaleoni – e soprattutto la sua rivoluzionaria svolta stilistica in senso davvero concretista, assolutamente impensabile solo pochi mesi prima – sia maturata a Parigi o nelle frequentazioni milanesi di quei convinti astrattisti (l’amicizia con Lucio Fontana, di cui abbiamo sicura testimonianza nel periodo di Albisola, qualche anno più tardi dunque, potrebbe essere iniziata molto prima, e un disegno di Lucio Fontana è già presente nella “Prima Cartella del M.A.C.”, serie di dodici multipli pubblicati quasi come “manifesto” del Movimento nel dicembre 1948), ma nel breve volgere di qualche stagione Pantaleoni è un concretista a tutti gli effetti, senza alcuna reminiscenza evidente di altre tendenze, di precedenti periodi, rapidamente dimenticati e apparentemente senza alcun rimpianto: i cosiddetti “Bollettini del M.A.C.” del primo formato fortemente rettangolare, e della seconda stagione 1950/51, presentano Pantaleoni come socio italofrancese, mentre l’opera pubblicata non ha più nulla di riconducibile a quelle “nature morte” di matrice bracquiana esposte a Venezia nel 1948, se non nella presenza compositiva di forme contrapposte. Da allora e almeno sino al 1957, Pantaleoni (che si fa chiamare e talora firma anche “Panta”, con un chiaro riferimento alla moda futurista di nomi veloci, dinamici e, appunto, futuristi …) è un concretista per così dire “di stretta osservanza”, e gli anni 1954-1955 sembrano i più prolifici e autonomi: è in queste stagioni che il suo linguaggio astratto si precisa e si concentra, e che la composizione si divide quasi equamente tra un andamento orizzontale dinamico, con linee spezzate sovrapposte a campiture di colore, e forme più compatte e semplici, con campiture “à plat” molto presenti e volutamente ingombranti sulla superficie, che si equilibrano sia dal punto di vista geometrico che da quello cromatico. Sono stagioni in cui Pantaleoni vive il suo maggior momento di internazionalità: nel pieno delle forze, diviso tra due capitali riconosciute dell’arte – Milano e Parigi -, accolto in entrambe tra i gruppi più esclusivamente ristretti, se accanto al M.A.C., entra a fra parte anche (nel 1948) delle “Réalitès Nouvelles” francesi, e verrà portato come tipico esempio di appartenente al Groupe MAC-Espace, quando questo nascerà nel 1955 dalla fusione tra concretisti italiani (e soprattutto milanesi) e astrattisti geometrici francesi, l’artista italiano produce le sue opere storicamente più importanti, concettualmente e formalmente più compiute, quelle che oggi sono maggiormente ricercate in virtù del risvegliato interesse per tutte le neoavanguardie europee e in particolare italiane. Tuttavia, come accade spesso per i singoli artisti che hanno vissuto una stagione perfettamente consonante col proprio tempo, per poi proseguire su strade diverse, più individuali, anche Pantaleoni sembra essere vissuto ed esistito – nel sistema e nel mercato dell’arte – solo per quei pochi anni concretisti: una volta esaurita quella vena, e intrapreso strade prima vicine all’Informale, dal 1957 almeno sino al 1964, poi a un cromatismo gioioso dagli echi francesi (Gerard Schneider, Vieira Da Silva, e Jean Paul Riopelle, per esempio, che pur non essendo francesi avevano fatto di Parigi e della cultura francese il proprio riferimento), l’artista rientra in quel grande flusso di produttori d’arte capaci, attenti, anche creativi, ma non più “in linea” con la cosiddetta “tradizione del nuovo”. Eppure, per Pantaleoni, il decennio dei Settanta costituisce una ripresa di quei motivi concreti, nell’autonomia di una maturità, anche anagrafica (ha ormai sessantacinque anni quando inizia), ormai indiscutibile. E’ in questi anni, infatti, che concepisce degli altorilievi monocromi in legno o in anticorodal (una lega di alluminio), preceduti idealmente da una serie di tele e disegni con forme simili realizzati utilizzando l’aerografo sui contorni delle “dime”, ottenendo così un risultato formale “negativo-positivo” (tanto per ricordare un titolo del concretista Bruno Munari…) di grande interesse grafico, e concettualmente vicino a certo futurismo oltre, che, naturalmente, al concretismo di vent’anni prima. Ma se le tele mostrano questa composizione da “civiltà delle macchine”, le sculture – che tecnicamente sono degli altorilievi a parete, con pochissime eccezioni – appaiono subito più misteriose, a causa della loro monocromia. Come per l’aerografo, ma con un effetto infinitamente più sottile, anche nelle sculture la forma è definita per così dire “in negativo”, perché è l’ombra dello spessore del materiale che fa riconoscere la forma, come se ne disegnasse il contorno. I pannelli dunque mostrano e non mostrano la composizione, a seconda della luce che vi batte sopra, e così facendo variano costantemente, su una struttura ovviamente progettata (probabilmente è per questo motivo che Gillo Dorfles, in una breve presentazione dell’artista dei primi anni Settanta, richiama addirittura il concetto di “programmazione”): ma è proprio la variazione di luce, sostanzialmente imprevedibile, a creare il dinamismo, molto di più di quel vago ricordo di strani ingranaggi di “macchine inutili” (toh, ancora Munari!...) che, alla fine, fa semplicemente da “supporto” alla luce, vera protagonista delle opere. Potrà sembrare strano che un artista possa vivere stagioni tanto diverse, perché a ciascuno di noi si chiede coerenza, e a un artista ancor di più: difficile allora coniugare tutte le esperienze di Pantaleoni sotto un unico comune denominatore, se si guarda ai suoi risultati formali, e se si avvicinano questi esiti alle tendenze e ai movimenti della storia dell’arte, tuttavia, se ci si spinge un poco più indietro alla ricerca delle pulsioni emotive, dei motori che spingono alla creazione, si potrebbe dire che è la “luce” il minimo comun denominatore di tutte le fasi artistiche di Pantaleoni. Ricerca comune a moltissimi artisti, si dirà, ma questo non è certo un ostacolo o un difetto: è una constatazione che restituisce unità a un percorso altrimenti troppo dissociato, e rende giustizia alla ricerca creativa di Ideo Pantaleoni.
Marco Meneguzzo
Arcangelo Sassolino
Arcangelo Sassolino
Nel caso di Arcangelo Sassolino parlare di materia risulta riduttivo, se non si pensa a quest'ultima in termini di pura speculazione filosofico-estetica o metaforica: l'artista, infatti, ci presenta un'antologia estremamente ampia di materiali assai differenti che, isolati singolarmente e/o combinati – in modo da evidenziarne analogie o diversità – in insiemi variabili, alienano le loro individuali concretezze effettive per portare la visione all'esito di un accadimento imminente. Sassolino sollecita, mette alla prova, sfida, corrompe, altera, "innervosisce" le qualità chimico-fisiche dei suoi materiali per spingerli al limite di una frattura, di una rottura, di un'implosione, di un'alterazione irrecuperabile e definitiva che ci lascia attoniti testimoni di un atto prima impensabile, o forse solo ipotizzabile. L'aspetto e la risoluzione delle sue opere, allora, si propone come la necessaria rivendicazione di una interrogazione dell'invisibile, di quello che atavicamente resta definito dalle sue s-conosciute leggi che, ora, il processo estetico dell'organizzazione in opera prova a cogliere e suggerire al nostro pensiero traducendolo attraverso le sostanze di comune esperienza e conoscenza.
L'esito dell'osservazione di suoi lavori ce li fa considerare come fossero dispositivi, macchine, marchingegni imponderabili o organismi autosufficienti che, bizzarri e insoliti, lontani dalla logica nostra aspettativa, sono capaci di agire e, vincendo la fissità imperturbabile e monumentale della scultura, di abbandonarsi ad una lenta staticità progressiva – o pregressa – di cui l'assemblaggio scultoreo diventa documento esclusivo, prova accertata di quell'energia invisibile che li abita silente, la quale d'improvviso sa muoversi, cambiare e alterare gli stati inerti e potenziali delle sostanze e poi, sempre, rinnovarle nella forma, nel contenuto e nell'apparenza.
Atto creativo e processo fisico si incontrano nell'azione documentata da Sassolino che, nel suo gesto creatore, si limita a evidenziare la possibilità espressiva dei singoli elementi che trovano la libertà di corrompere la propria fisicità e di annullarne lo status quo. Le materie, quindi, nella loro ricchezza, che prevede vetro, legno, metallo, cavi, gomme, dispositivi elettronici, eccetera, amplificano la portata essenziale delle loro potenzialità introducendo un peculiare dinamismo che si definisce nell'ampia produttività creativa del potenziale artistico.
Siamo persuasi di qualcosa che è stato, che diviene o che potrebbe presto essere, perché nulla resta immoto: il fare di Sassolino non si congela in un minimalismo formale, ma predispone l'osservazione ad un accadere tangibile a quell'esclusiva sollecitazione che, indotta dall'artista, sfida il materiale, consapevole della scientificità dei processi fisici che si sottintendono. Con questo pone la concretezza della verità del mondo al suo limite, sospendendo tutto in bilico sul crinale pericoloso del suo abisso più profondo e impensabile. L'aspetto minimale delle composizioni, la pulizia formale della presentazione e l'ordine estetico dell'immagine profilati da queste opere vengono vanificati dalla realtà cruda indotta da quell'insieme di forze invisibili che, se opportunamente attivate, sanno sconvolgere la verità abituale della nostra percezione. Il dato conosciuto, pensato, riflettuto o solo ipotizzato nel nostro mondo, nell'azione proposta da Sassolino, ha modo di trasferire ad altri livelli di conoscenza e di ritrovare il fondamento di una più sconcertante e inalienabile verità.
Marcello Scuffi Tra passato e presente
Marcello Scuffi - Tra passato e presente
Marcello Scuffi: Tra passato e presente. Testo critico a cura di Tommaso Paloscia.
Mi è capitato di vedere un quadro di Marcello Scuffi accanto a una Piazza d’Italia di De Chirico. Sulla parete ampia e bianca di calce campeggiano a poca distanza nella solitudine e nel silenzio dell'ambiente che sembrava creato apposta per quelle immagini. Dapprima ho avuto l'impressione di trovarmi di fronte a una provocazione visiva» una provocazione maldestra in cui si osava proporre due valori cosi diversi fra loro da non poterne accettare il contatto. Ma a poco a poco quella sensazione si è attenuata e non mi riusciva di capire come mai potesse accadere un simile fenomeno di assuefazione. Ma era poi assuefazione? In realtà quelle architetture geometricamente tracciate nella immensa solitudine della piazza dechirichiana, avevano molti punti in comune con le case» col paesaggio e soprattutto col silenzio e la solitudine che regnavano nel quadro di Scuffi; che tuttavia era tutt’altra cosa e suggeriva persino sensazioni diverse. Ecco: forse tra il padre della metafisica nell'arte e il giovane pittore di Tizzana c'era un tramite che ora mi appariva sempre più certo. Mi pareva infatti di ritrovare in quei volumi ben evidenti e il disegno delle case, con i vani delle porte e delle scarsissime finestre prive di imposte» l'impronta classicheggiante del Corrà passato appunto attraverso la metafisica del periodo ferrarese che lo vide insieme allo stesso De Chirico, al Savinio, al De Pisis e al Morandi e che oggi possiamo ritrovare insieme» nelle riproduzioni in media positive, presso il museo di Villa Massari. Dunque, Corrà. E ho avuto poi la conferma di quell'importante suggerimento che arriva fino ai fatti novecenteschi (e vi si affaccia appena il Sironi) ma che resta tuttavia sostanzialmente ancorato alla pittura metafisica. Scuffi è un uomo semplice e sempre disposto ad estasiarsi dinanzi all'incontro inaspettato; e allora, in quella sua semplicità mi sembra di notare il presupposto metafisico per cui ogni cosa comune e persino banale viene osservata come nuova e geniale, da meraviglia. Del resto la pittura di Scuffi ha affondato sempre più l’indagine in questa direzione senza rendersi conto, magari, di penetrare il mondo ambiguo e incantato, quasi stupefatto, della metafisica. Ma è sempre pittura personalissima; anzi d’impianto toscano. Ed è questa una ulteriore coincidenza, se è vero che De Chirico apprese i connotati essenziali della sua poetica proprio a Firenze, nell'ambito culturale della città in cui primeggiava Rapini, e ne trasse motivi e stimoli dipingendo quella che è definita la sua prima opera metafisica (1910). Che Scuffi abbia assorbito, attraverso la pittura di Corrà, il senso di quel silenzio panico che si porta dentro e lo trasfonde di quadro in quadro, è ormai un dato sicuro che mi aiuta nella lettura delle sue opere; anche quando, messi per qualche tempo in quarantena i paesaggi, affronta i cumuli di persiane rotte che egli riesce a rendere esteticamente importanti attraverso una riduzione di geometrie che segnano gli spazi, i volumi, le prospettive e che si riempiono di materia sensibile al tatto. Una pittura sorprendente per molti versi e che continua a svilupparsi nel silenzio e nell'anonimato della provincia toscana; anche se urla le sue fonti e se - come dicevo dinanzi - riesce persino a tenere un certo confronto con valori storicizzati di grandissimo rilievo. "Devo rifletterci sopra - dice con abituale umiltà - perché mi sembra di essermi sporto troppo". In verità si tratta di impressioni molto belle che anticipano un nuovo ciclo; ci vuole tempo perché Scuffi digerisca le nuove sensazioni e le riporti nell'ambito del suo feudo dove il movimento, anche di una foglia, può turbare il mondo incantato nel quale nascono le sue invenzioni.
Gian Marco Montesano Dietro le quinte
Gian Marco Montesano - Dietro le quinte
Gian Marco Montesano: Dietro le quinte. Intervista a cura di Matilde Ferrarin.
F. Gian Marco Montesano oltre ad essere un affermato artista, noto al pubblico per le sue pitture spesso legate alla Grande Storia e all'immaginario collettivo di noi italiani, è anche un regista di teatro. Che rapporto hai con questi due contesti espressivi?
M. Non considero l'arte e il teatro due distinti contesti espressivi. Per me si tratta di un' unica logica dell'espressione. L'artista è colui che comunica utilizzando quel che trova, che sia carta, tela, marmo, colore o scrittura. Io lo faccio con la pittura e il teatro. Ho cominciato con il teatro e solo in seguito ho deciso di prendere sul serio anche la pittura. Nonostante io abbia, parallelamente, sempre dipinto, all'inizio mi sono dedicato principalmente alla scrittura per il teatro e poi alla regia.
F. Dove e quando nasce dunque il tuo interesse per la pittura? Ci puoi illustrare le tappe più significative del tuo percorso artistico?
M. Io ero, ma in fondo lo sono tutt'oggi, un autodidatta della pittura. Sono stato in Seminario, poi ho fatto il Servizio Militare. La mia famiglia orbitava nella galassia dello spettacolo. Mio padre nel "Teatro di Varietà" prima, poi nell' "Avanspettacolo". Mia zia, Isa Pola, è stata una celebre attrice degli anni trenta, ha recitato in "La canzone dell'amore", primo film sonoro della cinematografia italiana. Comunque, finito il Servizio Militare sono entrato in contatto con lo Spettacolo ( cominciando dal Night dove era finito mio padre), in seguito ho messo in piedi una mia compagnia "sperimentale". Ecco, ho cominciato così: scrivendo, dirigendo e realizzando spettacoli di teatro sperimentale. Ero già in qualche modo artista. E' stato solo dopo, vedendo muoversi sul palcoscenico le immagini delle mie idee, che ho capito l'importanza della pittura, intesa come immagine ferma, immobile per sempre... o quasi.. Prima dipingevo per piacere. Ad un certo punto la pittura ha smesso di divertirmi ed è diventata un problema, è diventata importante. Molto è dovuto anche al consenso degli altri ovviamente. Non conoscevo assolutamente nessuno nell'ambito dell'arte, non me ne ero mai interessato.
F. La tua pittura quindi è libera da riferimenti artistici del passato?
M. Questo forse è il nodo del "caso Montesano". Prima di cominciare a dipingere posso dire di non aver mai visto una mostra d'arte. Conoscevo i fondamentali, cioè quello che sanno tutti e nient'altro, ecco perché quel che faccio non ha riferimento alcuno alla storia dell'arte. I miei riferimenti vengono da un altro territorio, quello della scrittura, in particolare drammaturgica, ma anche dalla filosofia. Sono di carattere letterario e teatrale e, per naturale passaggio, anche cinematografico. Ma, soprattutto, mi riferisco a quei "fantasmi" che chiunque può incrociare sulle bancarelle di un mercatino: vecchie foto, cartoline, giornali, riviste illustrate, etc... insomma, l'alto e il basso, tutto l'inconscio collettivo del 1900. Questi sono i riferimenti, non ne ho altri. Mi sono dovuto inventare una scrittura, come un analfabeta che cerca di fare i primi segni per imparare a scrivere. Di conseguenza mi sono dovuto creare anche una calligrafia. I primi risultati erano come quelli di un bambino che fa " le aste " come si faceva alla Prima Elementare di qualche anno fa e i contenuti non avevano nulla a che fare con la storia dell'arte. Superati i primi risultati, ho messo in piedi un mio modo di esprimermi, esattamente riconoscibile. Un modo diverso di intendere la pittura di immagine.
F. I soggetti della tua pittura sono sempre presentati in modo esplicito e riconoscibile, si direbbe con realismo. Anche la scelta dei temi che, nei cicli più celebri, sono per lo più tratti dalla storia, dalla politica, dalla religione, sembra far trasparire una certa tensione verso la realtà. Quanto è importante la realtà per te ?
M. Il mio rapporto con la realtà è di profondo fastidio, diciamo pure un drammatico rifiuto. Mi spiego: è chiaro che i codici di una certa banalizzazione e categorizzazione dell'arte vogliano che la pittura figurativa sia correlata al concetto di realtà. Ma quella che viene rappresentata non è realtà, quello che viene rappresentato non è altro che Mimesi, come direbbe Aristotele, cioè pura imitazione della realtà. La pittura astratta invece non nasce con l'intenzione di creare un fantasma o la riproduzione mimetica di qualcosa che esiste, e così facendo dà vita ad un nuovo pezzo di realtà. Io, con le immagini, produco fantasmi. Il fatto è che, concettualmente, detesto la realtà. C'è forse bisogno degli artisti per sapere in cosa consiste la realtà? Nascere, riprodursi e sparire! Ecco la realtà. Ecco la maledetta verità. E tutti, ma proprio tutti la conoscono e la subiscono. Alla larga dalla realtà e dalla "verità". Mi interessa la finzione, l'illusione, il gioco, mi interessano i fantasmi della storia.
F. In quale misura ed in quali forme le nuove tecnologie possono aiutarti a realizzare questo tuo pensiero artistico?
M. Le nuove tecnologie producono virtualità, illusione, immaginazione. I segni e il linguaggio sono la nuova realtà. La tecnologia mi aiuta a assemblare immagini per le quali tempi la pedanteria cronologica non esiste più. Per fare un esempio, posso molto rapidamente mettere un'immagine di Nilla Pizzi del 1950 davanti alla Porta di Brandeburgo della Berlino del 1945. In questo modo, pur lavorando con elementi che sono apparentemente reali, produco finzione, menzogna illusoria necessaria per sopportare l' "insostenibile leggerezza dell'essere". Faccio questo proprio per progettare la distruzione della realtà servendomi dei fantasmi della realtà stessa.
F. Quali motivi ti spingono a prediligere il bianco e nero al colore?
M. Scelgo di dipingere in bianco e nero per fare un ulteriore passo avanti nel togliere realtà alla realtà. Noi non vediamo la realtà in bianco e nero ma la vediamo e percepiamo a colori. Togliere colore ad un'immagine che sembra vera, " reale " vuol dire quanto meno togliere all'immagine quella dose immediatamente evidente di realtà e spostarla su un piano mentale. Infine, il cosiddetto bianco/nero. Ha meno colesterolo, è meno "grasso". Meno sensuale di tutta quella materia colorata che usano i pittori veraci. Io sono soltanto un'ilusionista che esegue il proprio "numero" giocando con le immagini.
F. L'arte contemporanea riscontra purtroppo una grande difficoltà nel comunicare il proprio messaggio. Tu senti l'esigenza di rendere le tue opere accessibili al grande pubblico?
M. No, non sento assolutamente questa esigenza. Penso che un'arte importante sia di per sè accessibile, in qualche modo. Se risulta del tutto inaccessìbile mi chiedo se sia veramente arte importante.
F. Per l'esposizione presso lo spazio eventi Ferrarin Arte hai selezionato opere legate ai temi del teatro, della musica e della danza. Dipinti, tecniche miste e disegni di periodi diversi, raccolti sotto un unico titolo: "Dietro le quinte". Titolo che evoca un luogo e un modo di osservare da una diversa angolazione. Vuoi spiegarci?
M. Il mondo è Teatro. Tutto il mio lavoro deriva da una personale posizione esistenziale: intendo il mondo come una grande scena teatrale e la vita come un'azione che si svolge sul palco. C'è un inizio, c'è una fine, inesorabilmente cala il sipario sulle comparse come sui protagonisti. Nel corso della rappresentazione (nel corso della vita) si svolgono le azioni: divertenti, dolorose, comiche, tragiche, passionali, etc., azioni complesse e interessanti fin che si vuole ma, sempre e comunque, transitorie, effimere, destinate a sparire. Ognuno interpreta un personaggio: qualcuno diventa presidente degli Stati Uniti un altro sarà clochard ma sono soltanto figure che si muovono sulla stessa scena di un unico teatro. Quando cala il sipario diventano tutte maschere, costumi, oggetti, tracce, resti accumulati DIETRO LE QUINTE. Ho scelto quel titolo proprio per indicare la sintesi del mio lavoro del mio modo di intendere la vita. Questa mostra vuole mettere insieme le tracce, i costumi, i resti di uno spettacolo sul quale si è chiuso il sipario. DIETRO LE QUINTE si accumulano senza più distinzioni di tempo, luogo, importanza, grado, valore, etc...soltanto maschere, costumi di scena, abiti di circostanza, oggetti di buono o pessimo gusto.... insomma, quel che resta di una vita. DIETRO LE QUINTE non c'è più né tempo né cronologia. Per esempio finisce uno spettacolo e rimane un costume da bersagliere, finisce un altro spettacolo e rimangono le cose che identificano Napoleone; questi due costumi, che appartengono a spettacoli diversi ed epoche diverse, si ritrovano ora a vivere insieme, indifferenziati, abbandonati per sempre DIETRO LE QUINTE.
F. Hai accettato l'invito ad esporre le tue opere presso lo spazio eventi Ferrarin Arte, uno spazio diverso dagli schemi convenzionali della classica galleria, non tanto nella forma, ma soprattutto nel modo di divulgare l'arte, facendo incontrare ad un pubblico appassionato i volti dell'arte contemporanea. Come ti sei trovato nell'interagire con questo particolare modo di operare di Giorgio Ferrarin?
M. Ho fatto questa mostra perché dal primo incontro mi sono trovato bene. Mi sono trovato in sintonia. Con Giorgio Ferrarin fin dal primo incontro, parlando, ho instaurato un rapporto di fiducia, per questo ho deciso di collaborare con lui nella realizzazione di questa mostra. Poi si vedrà.
Pino Pinelli. Dialogo con Marco Casentini
Pino Pinelli. Dialogo con Marco Casentini
Pino Pinelli: Ci troviamo nel mio studio. L’amico Marco un giorno mi confessò, quando era studente d’Accademia, di aver visto nel 1979 la mia mostra alla galleria Astra Studio di Milano, mostra che lo interessò molto.
Era già un giovane curioso che guardava alcuni aspetti del fare che non erano quelli canonici.
Marco Casentini: Io ricordo quella galleria lunga, stretta, la volta ad arco, la scaletta che conduceva in uno spazio che poteva ricordare le caves francesi. Mi colpì l’idea della frammentazione, perché ero anch’io interessato, seppure del corpo umano – quasi un’influenza matissiana -.
P: Il mio frammento è la parcellizzazione del concetto del monocromo che si dissemina nello spazio: una pittura che ha il suo senso nel superare la classicità che la vuole fatta di tela, telaio, colore.
Superare questo limite del quadro è sempre stata la mia caratteristica dal 1976.
Mi piace che un giovane si ricordi, dopo quasi quarant’anni, di quell’episodio.
C: Cercavo di uscire dall’idea del quadro.
Poi nei miei lavori sono entrati dei frammenti di geometria dallo spazio urbano, dall’architettura fino ad arrivare alle ultime opere dove sono presenti particelle geometriche molto più piccole che diventano quasi dei pixel. Tre anni fa ho fatto una mostra a Milano con delle semisfere, facendo del wall painting, che ripresenterò alla mostra di Legnago. Metterò delle semisfere, cercando di dare un’armonia, interpretando il muro come se fosse una pagina bianca.
P: Nel mio lavoro il muro, da destinatario passivo, diventa opera nel momento in cui i “frammenti pittura” lo attivano, quasi fossero dei magneti.
Nel tuo lavoro sento il ritmo interno, la costruzione e il fatto che tenti di liberarti dalla confortevole sicurezza del quadro, con un timbro cromatico del tutto personale. Sei uno dei pochi giovani artisti che ha questa luce che definirei “californiana”, che non è quella lombarda o toscana. Probabilmente la tua permanenza in un’altra parte del mondo ti ha portato a scoprire un altro aspetto della luce.
C: Credo che ogni autore sia influenzato dall’ambiente circostante. La luce della California è entrata dentro di me.
P: E’ vero. Alcuni anni fa partecipai a una mostra al Museo di Linz: eravamo dieci artisti europei. Ricordo il lavoro bianco di un’artista svedese: era un bianco che sentivo non poteva appartenermi. Probabilmente quando si dipinge si trasferisce con il colore qualcosa che noi sappiamo e che, forse, è quell’energia che ci rende unici.
C: Pensavo, a proposito della luce, alla derivazione del minimalismo americano in California che ha avuto meno successo, perché la luce dell’Est è naturalmente diversa da quella dell’Ovest.
Quando dalla mia casa a La Spezia vedevo il mare, era l’orizzonte, il mio rapporto quotidiano. E a Milano all’orizzonte sono subentrate la geometria e l’urbanistica.
P: A Pietrasanta, qualche anno fa, avevo notato un tuo lavoro – allora non ti conoscevo -, il tuo timbro cromatico aveva una luminosità diversa. Noto che della generazione più giovane della mia sei tra i pochi artisti che in qualche modo si sono liberati della meravigliosa “prigione” del monocromo e stai tentando un tuo percorso. So che stai preparando una mostra personale alla Galleria Ferrarin di Legnago, alla quale pensi di dare un carattere un pò antologico. Conosco questa Galleria per aver partecipato alla mostra “Moderna Magna Graecia”, curata da Giorgio Bonomi e Francesco Tedeschi.
C: Com’era Milano quando tu arrivasti dalla Sicilia?
P: Indubbiamente la presenza di Fontana, che era il grande faro dell’arte, rendeva il capoluogo lombardo molto vivace, ricco di stimoli e di iniziative. Era anche la Milano di Manzoni, Castellani, Colombo e di tanti altri giovani autori di primissimo piano.
C: A me piace mettermi in gioco. A me piace l’idea dell’artista nomade. Infatti vorrei tornare a vivere a Los Angeles per un po’ di tempo.
P: Anche in letteratura, nella musica, oltre che nelle arti visive, gli artisti in genere hanno bisogno di conoscere altre realtà.
L’arte in genere non è una formula: è nel fare che si passa dall’inconoscibile al conoscibile. Fare che è una necessità quasi fisiologica, fare che è essere.
Ci sono attimi nella vita in cui insegui e cerchi come un guerriero bendato una luce che non vedi nel buio, ma di cui hai percezione.
C: Ma l’arte serve?
P: Sì, serve moltissimo perché ti consente di spostare continuamente il limite della conoscenza.
C: Questa mostra è stata intitolata “Autoreverse”, quasi come quei vecchi registratori anni ’60.
P: L’autoreverse sottolinea e verifica se il percorso che si sta conducendo ha una sua conoscenza, una sua continuità.
C: Noi artisti lavoriamo tutta una vita ad un’idea con delle variazioni.
P: Sono d’accordo.
L’arte non è una proposizione che può essere verificata o negata: è una manifestazione in sé, un’esperienza da esplorare “oltre”.
Grazia Varisco
Grazia Varisco
Figura di spicco dell'arte italiana contemporanea, Grazia Varisco è tra gli artisti che maggiormente si identificano per un rigore e una logica di ricerca essenziale che, dall'eccellenza della visione innovativa delle sperimentazioni ottico-cinetiche iniziali degli anni Sessanta con la partecipazione al milanese Gruppo T fino ad arrivare alle ultime e recenti, in termini cronologici, proposte del presente, ha saputo continuamente e infaticabilmente corroborare di nuove energie, nuovi spunti, nuovi stimoli, capaci di rigenerarla attualizzandola, la coerenza analitica della sua sperimentazione estetica e visiva.
La geometria e la sua articolazione/disarticolazione fisica sono termini imprescindibili del fare dell'artista che, appropriandosi di figure semplici, lineari, conosciute, le ha interpretate poi in una variabile differente di materiali che hanno saputo esercitare un'influenza specifica sulla dimensione percettiva di ogni suo singolo intervento, risolvendo l'identità di un oggetto-figura, senza snaturala, in una variazione dinamica in-finita. Quella che è stata sempre una lettura figurale di forme compiute e logiche, in Varisco trova allora un'insperata concretezza e una dinamicità tridimensionale tangibili, non solo ideali quindi, per la loro estensione effettiva nello spazio fisico della loro verifica, processo che, inevitabilmente, incontra il conseguente coinvolgimento dell'esperienza sensoriale di chi le osserva. Varisco porta a compimento, con la lettura delle differenti possibilità mutabili dell'immagine su cui opera, una scala di valori inediti e ne sa estrarre la radice indentitaria e anomala, connotante e rivoluzionaria, ordinaria e trasgressiva, in cui, alle regole appena disattese e smentite, ne sa definire altre impensabili. L'equilibrio assoluto di questa costante variazione e modellazione della "fisicità delle cose" non impone la finzione astratta dell'illusione, ma sa agire sulla materia-forma sollecitandola in quelle apparenti debolezze che spostano la loro riflessione sui meccanismi e i processi della percezione viva, sensibile, umana, fisica.
Le sue opere, che pure evocano, in taluni casi, la pittura apparentandosi ad essa, ma senza mai esserlo compiutamente, vivono di un precario equilibro che sa essere l'epicentro della stabilità della loro forza: nell'incertezza del divenire, abbandona lo sguardo ad una ripetuta e costante intimazione a riguardarsi e riferirsi alla freschezza dell'intuizione. Sarebbe un errore pensare alla Meridiana o ai Quadri comunicanti come ad un mero esercizio estetico intellettuale, in Varisco l'asciutta e concisa dimensione astratta ha sempre modo - ma si direbbe anche il dovere - di connettersi e confrontarsi con la fisicità delle "cose reali", di incontrale nella loro dimensione spazio-temporale effettiva e diveniente. Emblematica da questo punto di vista è la serie degli Gnomoni, il cui nome deriva dall'ago della meridiana, oggetto che, fisso e solido, definisce nell'alter ego immateriale della sua ombra mobile, la variazione del tempo e degli istanti, nonché del loro fluire incessante. In questi il modulo del quadrato si appropria dello spazio moltiplicandosi in una sequenza eccentrica che, pur nella continua progressione che segue un preciso protocollo, fa sua ogni anomalia, costringendo, nella lettura mobile a 360°, a viverlo come fatto di esperienza presente.
L'immagine sospirata, trattenuta, volubile e irrequieta, forse anche irriverente nel suo offrirsi al di fuori dei canoni stabiliti, rende vive e attive le sue creazioni guidandole ad una sollecitazione a tal punto variabile, da renderle quasi "fenomeni" che, oltre ad un necessario riferimento all'esperienza, rimodellano il principio stesso della loro intima conoscenza.
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