E’ difficile conoscere un artista che, come Ceccobelli, immagini un Oriente al tempo stesso saturo di armonie e di assolutezze paniche. Un oriente percepito e inteso nella luce gravida del meriggio, nel palpito di mani vibranti e al tempo stesso “impastate” nella materia. E’ difficile pensare ad un Oriente in cui il fiato incespica e la mente respinge la ragione e l’occhio s’infarta nel tessuto poroso della pittura. Il fatto è che Bruno Ceccobelli è tra i pochi artisti che conosco ad accettare la sfida della modernità contemporanea come una sfida aperta da secoli, ancor prima che Marsilio Ficino mirasse la bellezza attraverso l’amore e l’amore cedesse alla bellezza il fato ultimo del naufragio. Nel trasalire della coscienza moderna, nell’assurda fierezza della crisi Ceccobelli conosce i lavacri dell’anima e la scelta di un assoluto che diviene ansia e di un infinito che mina la corsa inutile verso la finitezza. Perciò la sua è una pittura risentita, che nel risentimento tocca le corde nascoste di una palude da cui essudano i gialli dorati di un tramonto che incespica sull’orlo dell’orizzonte. In primo luogo Ceccobelli sa bene che la modernità non abita laddove la forma si è sfrangiata nella polvere indefinita delle sue scorie. In secondo luogo egli è cosciente che i temi sociologici e gli apparati del “loisir” di massa non accedono al pensiero estetico, ma casomai lo assediano minacciandone la consistenza. In terzo, ma non ultimo luogo, egli conosce gli inganni della bellezza apparente e del racconto naturalistico; perciò li nega nella sintesi di una pittura che ricerca l’intensità e non lo sguardo, la visione e non ciò che semplicemente si vede o si crede di vedere. La sua è una pittura che non teme di essere sgarbata, perfino carica di “cattive maniere”, considerato il fatto che quelle “buone” si sono tutte votate ai concettualismi e ai minimalismi, spesso con ottimi risultati, ma che sono altra cosa rispetto alla materia di un oriente irretito dal fascino strisciante dei muri romani. Perché sia chiaro: Ceccobelli è pittore nel senso “primitivo” e probabilmente eterno del termine, e perciò l’occhio, il vedere, l’osservare sono comunque un punto di riferimento e di discussione interna alla logica stessa del dipingere e si sposano con il toccare, il manipolare, l’accarezzare. E anche questo è fortemente impresso nella coscienza creativa di Bruno. E poichè lo sguardo si sviluppa nel tempo, ecco che il tempo stesso alimenta nell’arte di Ceccobelli un principio di verticalizzazione, una spinta che osa avventurarsi ad alta quota ma contemporaneamente infangarsi nei limi generosi della pozzolana, l’un l’altro peraltro ricongiungendo in un cerchio che insiste nella testa umana e si distribuisce nel palpito delle mani, degli arti e delle nervature del corpo. In altre parole, il nostro artista si muove secondo parametri che tendono ad armonizzarsi nella circolarità della visione, nell’eterno ricongiungersi della memoria e della progettualità, nell’ascesa verso i cieli della visione e nella discesa verso le oscurità dell’anima. Ma attenzione. Qui non si tratta degli inferni e dei paradisi rimbaudiani. Tutt’altro. La sua è una vera e propria metafora della “genesi”, cui perviene attraverso un ardimentoso “sprezzo” per la bellezza esteriore, per il colpo d’occhio appagante, per lo scorrere delle cose in pure e semplici immagini. C’è un’opera in mostra in cui una figura umana colta di spalle, che si profila da sinistra a destra e dal basso all’alto, conquista con il volto di tre quarti il centro della tela. La testa è contrassegnata da un cerchio invaso a sua volta da spezzoni di materia o molecole giganti, in ogni caso monadi barocche traboccanti come pietre sulle spalle e sulla schiena. L’opera è significativa anche perché la prima idea che se ne ricava è quella di un meccanismo fotografico che, al centro del mirino, ti permette di “sistemare” al meglio la messa a fuoco. Ma è un’impressione ingenua e poco pertinente, che a parer mio lascia subito il passo ad un’altra simbologia, relativa questa volta alla pupilla: l’occhio umano non vede ma è visto. Per non cadere in sospetto di concettualità, che in tal senso poco si addice alle intenzioni di Ceccobelli, cercherò di spiegare meglio la cosa, che risponde a ragioni più esistenziali che mentali, più “visionarie” che intellettuali. L’occhio di Ceccobelli è tale da non “tenere” più il mondo delle cose. Non è lui che guarda e vede quanto ci circonda, ma sono le cose stesse che lo riempiono fino a traboccare verso l’interiorità perturbata dell’essere. Insomma Ceccobelli nega la facile logica dello sguardo che domina il mondo o quella naturalistica che nella luce identifica il vedere in continuità di ritmo e in velocità di percezione. Il nostro artista sembra sapere che solo apparentemente gli impressionismi sono moderni, ma che di fatto sono proprio loro a costituire un vero e proprio muro contro lo sviluppo di una più profonda coscienza moderna. La ventata simbolista prima, e di conseguenza gli espressionismi dopo, ritorneranno a coniugare la coscienza con la veggenza, il viaggio verso il futuro con l’eterno ritorno ad Itaca, la comunicazione dei segni con la misteriosa corrispondenza degli animi. Insomma le cose ci guardano. Ma se in tal senso esse si rivelano nella notte spugnosa dei lumi che si accendono e, dorati, svaniscono, al tempo stesso la materia ci attraversa e ci penetra: da un lato c’imprime le sue impronte nell’anima, da un altro lato ci fonda come corpo mistico, come il palpito suntuoso di un’ala di farfalla appesantita dai venti di scirocco. Questo palpitare del corpo, e questo tradursi in fluido dell’animo per immemorabile alchimia della materia, e poi il peso spugnoso della materia che all’improvviso s’inebria nei toni aranciati e solari, nelle terre dorate che preludono all’alba e insieme al tramonto: tutto questo antico e corrusco germogliare in filigrana di un “anatema” saussuriano sotteso ai pigmenti della pittura costituisce l’agguato responsabile di un artista che nella responsabilità dell’essere individua il senso profondo della coscienza. La congiunzione tra Luna e Sole, tra maschile e femminile avviene alla presenza della mano alchemica e duchampiana del dott. Dumouchel. Nella metafora di Ceccobelli è infatti la mano che genera e raccoglie calore, che impasta la materia e ne viene al tempo stesso attraversata. Da parte sua, lo sguardo rivolto all’esterno è legato al reticolo del limite; ma sospeso nel tempo, in una sorta d’infinito rinvio, l’occhio della coscienza incrocia un tempo che non finisce, intriso nei fulgori bizantini della materia, negli esiti altissimi di una luce riverberata: come se la materia stessa l’avesse tutta assorbita, e adesso, nel tessuto di una sindone ritrovata nella deriva del presente, ne rilasciasse accese vampate o più pallidi tremori.
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