Marcello Scuffi: L'ora eterna. Testo critico a cura di Giovanni Faccenda.
Dovremmo cominciare a chiamare «pittori» soltanto i pochi virtuosi rimasti a praticare un genere tra i più nobili e alti in cui possa manifestarsi l'ingegno umano; la pittura, appunto. Per l'ignoranza o la scaltrezza di coloro che continuano a non distinguere termini come arte e artigianato (e, dunque, ad equivocare l'una per l'altro), ci troviamo dinanzi ad una tale confusione di interpretazioni, spesso ridicole e bizzarre, al punto che chiunque usi un pennello e impasti, poco e male, dei colori su una tavolozza deve, a buon diritto, essere ritenuto un pittore. No, pittore non è un titolo o una qualifica di cui ci si possa fregiare facilmente, una definizione estemporanea per rendere esclusivo un biglietto da visita; pittore èun giudizio, laborioso e complesso, che esprime il riconoscimento di un talento. Marcello Scuffi èun pittore. Lo è perché vive, pensa e intende la pittura nel modo esatto in cui questa debba, essere vissuta, pensata e intesa, secondo la lezione dei maestri antichi che riecheggia, per multiformi suggestioni, nell'opera di un autore dall'indole e dalla vocazione espressiva ugualmente autentiche. Quanto distingue un lavoro, il suo, colmo di partecipazione sentimentale e indizi che dissimulano vari riflessi interiori, è, in realtà, una iconografia tanto singolare da non trovare che evanescenti riferimenti nello scenario contemporaneo. Come detto, per risalire ad alcune paternità elettive, che si colgono chiaramente nella pittura di Scuffi, occorre risalire al Quattrocento di Masaccio, Masolino, Paolo Uccello e, soprattutto, Piero della Francesca; al secondo Ottocento, simbolista, di Bòcklin; all’aureo primo Novecento della metafisica di de Chirico, in particolar modo, e alle singole interpretazioni che di essa ebbero a dare Carrà, Morandi e Sironi. Andando con ordine a sviscerare tali argomenti, il primo pensiero volge alle meraviglie della Cappella Brancacci, nella chiesa di Santa Maria del Cannine a Firenze. Mentre Rosai era rimasto affascinato dall'umanità e dalla verità di quei volti che incarnavano un destino dolente, un percorso esistenziale che egli indovinava uguale per gli uomini di ogni tempo. Scuffi, al contrario, ha guardato e continua a guardare alla solennità di un paesaggio che ospita severe architetture, con finestre e porte appena dischiuse a partecipare cupi misteri. Pensi alle Storie di San Pietro, alla scena del Tributo cancellate per un attimo dagli occhi le figure di Gesù, degli apostoli e degli esattori, riuniti nella biblica Cafarnao, ecco un lago e quattro alberi spogli, rilievi montuosi sigillati in un digradare di grigi, la casa del dazio silenziosa e austera. Diresti l'impianto figurativo di molti dipinti di Scuffi. Di più: un codice pittorico nel quale toni e mezzi toni suscitano percezioni smarrite nella memoria, l'algida fissità di immagini trasfigurate in una dimensione ideale. Nella loro ora eterna. Quando invece gli azzurri riaffiorano eleganti a sublimare scenari in cui l'acqua è il suggestivo diaframma tra visibile e invisibile, allora la mente avanza verso i cieli di Giotto, ad Assisi come a Padova. Ma sono lampi fugaci, in un viaggio a ritroso nel tempo che percorre in lungo e largo la storia della pittura più aristocratica. Altre soste, obbligate, portano dunque ad Arezzo, Monterchi e Sansepolcro, laddove Piero della Francesca e i suoi capolavori impareggiabili sono le fonti sulle quali scopriamo fondata e tonnata l’estetica del migliore Novecento. Ecco l'origine del circo di Scuffi: la tenda nella quale dorme e sogna Costantino alla vigilia della battaglia contro i barbari di Massenzio, un volume che ritroviamo nella teca tenuta in mano dalla Maddalena nella cattedrale di Arezzo e nel baldacchino, impreziosito di raffinatissime decorazioni, della Madonna del Parto. Gli enigmi che Piero occulta nella Flagellazione di Cristo assumono spettrali declinazioni in quella lunga alba della pittura Metafisica che sorge in coincidenza con alcuni esiti Arnold Bòcklin. In tal caso, è soprattutto profondissima suggestione esercitata dalle acque che lambiscono le rocciose montagne di Prometeo, le spiagge di Ulisse, le Ville sul mare, cosi come le cinque versioni dell' Isola dei morti, a suggerire legittime e significative similitudini tra questi lavori del maestro di Basilea e le Piazze d'acqua che pure Scuffi dipinge come un emblematico omaggio a Giorgio de Chirico. Il quale resta, per varie implicazioni, il riferimento più solido rispetto ad un’opera annegata nel silenzio e resa oltremodo intrigante dal fantasma dell'uomo che aleggia per case disabitate, labirinti acquatici e depositi di treni in disuso. Già, il treno: il simbolo dechirichiano per eccellenza, l'allegoria che adombra il tema del viaggio, ma, più ancora, il ricordo del padre, l'ingegnere Evaristo, responsabile di una compagnia ferroviaria, morto quando Giorgio è poco più che un adolescente. Il treno che sbuffa tra i porticati del Viaggio inquietante, all'orizzonte del Sogno trasformato e dell' Incertezza del poeta, nei fondali di molte tele dipinte da de Chirico durante il suo primo soggiorno a Parigi, così come nelle Piazze d’Italia, eloquente rappresentazione dei vari ritorni alla prima stagione della Metafisica, quando, smessi di citare i grandi maestri del passato, egli ne emula uno soltanto: se stesso. Ecco, quel treno che nell'opera di Scuffi sosta come un cane vecchio e abbandonato presso la sua dimora estrema, il deposito enigmatico e surreale che riunisce, talvolta, curiose accumulazioni, suggeriva da tempo il sospetto che esprimesse anch'esso qualche riferimento autobiografico. Ma troppo era immaginare che, come già in de Chirico, anche in Scuffi il treno riverberasse intimi ricordi patemi: cosi è, invece, come lo stesso pittore ci ha confermato, rispondendo ad una nostra domanda che una sera lo invitava al racconto esplicativo. Dipingere, del resto, è sintetizzare una somma di impressioni che appartengono al proprio vissuto. Così, dinanzi a certi lavori di Scuffi, in cui trovi molteplici analogie rispetto al Pino sul mare di Carrà, più giusto è allargare la riflessione alla Versilia che accoglie l’artista in alcuni periodi dell'anno; così come di fronte all'isolamento di edifici, che rimandano alle deserte periferie di Sironi, bisognerebbe pensare al fascino di taluni luoghi stabili e palpitanti nelle reminiscenze di Scuffi. E allora, guardando quelle Nature morte o Vite silenti che egli chiama Tavolozze realiste, quegli oggetti che rammentano gli umili interlocutori di Morandi, quella frutta di stagione composta su un piano, ove, in qualche pregiato caso, si assiste all'apparizione di un uovo - l'uovo di Piero sospeso a mezz'aria nella Pala di Brera ci è dato di scoprire un mondo di valori antichi e di emozioni vivide, che sono poi quelle che abitano in Marcello Scuffi da sempre. Un pittore che è anche un abilissimo disegnatore. Un uomo raro, oggi, da incontrare.
Marcello Scuffi Tra passato e presente
Marcello Scuffi - Tra passato e presente
Marcello Scuffi: Tra passato e presente. Testo critico a cura di Tommaso Paloscia.
Mi è capitato di vedere un quadro di Marcello Scuffi accanto a una Piazza d’Italia di De Chirico. Sulla parete ampia e bianca di calce campeggiano a poca distanza nella solitudine e nel silenzio dell'ambiente che sembrava creato apposta per quelle immagini. Dapprima ho avuto l'impressione di trovarmi di fronte a una provocazione visiva» una provocazione maldestra in cui si osava proporre due valori cosi diversi fra loro da non poterne accettare il contatto. Ma a poco a poco quella sensazione si è attenuata e non mi riusciva di capire come mai potesse accadere un simile fenomeno di assuefazione. Ma era poi assuefazione? In realtà quelle architetture geometricamente tracciate nella immensa solitudine della piazza dechirichiana, avevano molti punti in comune con le case» col paesaggio e soprattutto col silenzio e la solitudine che regnavano nel quadro di Scuffi; che tuttavia era tutt’altra cosa e suggeriva persino sensazioni diverse. Ecco: forse tra il padre della metafisica nell'arte e il giovane pittore di Tizzana c'era un tramite che ora mi appariva sempre più certo. Mi pareva infatti di ritrovare in quei volumi ben evidenti e il disegno delle case, con i vani delle porte e delle scarsissime finestre prive di imposte» l'impronta classicheggiante del Corrà passato appunto attraverso la metafisica del periodo ferrarese che lo vide insieme allo stesso De Chirico, al Savinio, al De Pisis e al Morandi e che oggi possiamo ritrovare insieme» nelle riproduzioni in media positive, presso il museo di Villa Massari. Dunque, Corrà. E ho avuto poi la conferma di quell'importante suggerimento che arriva fino ai fatti novecenteschi (e vi si affaccia appena il Sironi) ma che resta tuttavia sostanzialmente ancorato alla pittura metafisica. Scuffi è un uomo semplice e sempre disposto ad estasiarsi dinanzi all'incontro inaspettato; e allora, in quella sua semplicità mi sembra di notare il presupposto metafisico per cui ogni cosa comune e persino banale viene osservata come nuova e geniale, da meraviglia. Del resto la pittura di Scuffi ha affondato sempre più l’indagine in questa direzione senza rendersi conto, magari, di penetrare il mondo ambiguo e incantato, quasi stupefatto, della metafisica. Ma è sempre pittura personalissima; anzi d’impianto toscano. Ed è questa una ulteriore coincidenza, se è vero che De Chirico apprese i connotati essenziali della sua poetica proprio a Firenze, nell'ambito culturale della città in cui primeggiava Rapini, e ne trasse motivi e stimoli dipingendo quella che è definita la sua prima opera metafisica (1910). Che Scuffi abbia assorbito, attraverso la pittura di Corrà, il senso di quel silenzio panico che si porta dentro e lo trasfonde di quadro in quadro, è ormai un dato sicuro che mi aiuta nella lettura delle sue opere; anche quando, messi per qualche tempo in quarantena i paesaggi, affronta i cumuli di persiane rotte che egli riesce a rendere esteticamente importanti attraverso una riduzione di geometrie che segnano gli spazi, i volumi, le prospettive e che si riempiono di materia sensibile al tatto. Una pittura sorprendente per molti versi e che continua a svilupparsi nel silenzio e nell'anonimato della provincia toscana; anche se urla le sue fonti e se - come dicevo dinanzi - riesce persino a tenere un certo confronto con valori storicizzati di grandissimo rilievo. "Devo rifletterci sopra - dice con abituale umiltà - perché mi sembra di essermi sporto troppo". In verità si tratta di impressioni molto belle che anticipano un nuovo ciclo; ci vuole tempo perché Scuffi digerisca le nuove sensazioni e le riporti nell'ambito del suo feudo dove il movimento, anche di una foglia, può turbare il mondo incantato nel quale nascono le sue invenzioni.
Marcello Scuffi Tra passato e presente
Marcello Scuffi - Tra passato e presente
Marcello Scuffi: Tra passato e presente. Testo critico a cura di Paolo Rizzi.
Da "La memoria delie cose".
Oggi l'arte è come una navicella sbandata: non sa dove dirigersi, il naufragio è sempre in agguato. Sembra che la stagione delle avanguardie storiche sia finita: ma che cosa la sostituisce? Non certo tutti i bizzarri revivalismi, più o meno dadaistici, di cui tanta arte ambientalista e comportamentale si agghinda. Credo che una via d'uscita a questo nomadismo frenetico e convulso ci possa essere. Essa consiste innanzitutto in un ritorno alla manualità specifica del fare (nel caso della pittura, al "saper dipingere"); poi in una simbiosi sempre più stretta con la natura, cioè con le leggi organiche che ci governano; infine in una rinnovata presa di coscienza della storia come patrimonio del nostro passato. Queste tre prerogative Marcello Scuffi le ha tutte: e non occorre insistervi. Si vede la qualità della pittura; si percepisce il suo aggrapparsi alla natura; si intuisce il senso della storia che sottende ogni immagine. Non solo: ma in essa si infiltra anche qualcosa che potremmo avvicinare alte strutture organiche del nostro esistere, che sono fatte di gangli nervosi, di filamenti di memorie. Come possiamo prescindere dalla memoria, cioè dal tessuto nervoso che apre continuamente relazioni e prospettive a ciò che siamo? Forse l'identikit dell'artista di domani si avvicina proprio a Scuffi. Ordine strutturale ma anche tensione verso l'esterno, cioè movimento delle forme; capacità di dare un "significato" a ogni cosa vista e ricordata; consapevolezza di una storia - personale e collettiva - che è alle spalle; fiducia nei comunicare, quindi padronanza dei linguaggio espressivo. Ma anche estrema libertà: estrinsecazione del proprio io, al di fuori di mode e manierismi. Alla fine un quadro, come ogni creazione autentica dell'uomo, è si lo specchio di chi l'ha eseguito; ma può diventare anche uno strumento per comprendere, attraverso l'artista e la sua arte, come noi stessi siamo fatti; o come vorremmo essere. Forse sta qui il segreto di Scuffi; in questo riversarsi della sua pittura in chi la vede e la assorbe. Un talismano? No. Piuttosto la voce di un uomo che agli altri uomini vuoi parlare.
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